Una rivoluzione in risaia

Giugno 15, 2021 2 Di storiedelbio

Come preannunciato iniziamo a presentare alcune importanti esperienze che testimoniano la possibilità di effettuare con successo la transizione agro-ecologica anche da parte di aziende agricole di significative dimensioni, che operano in aree vocate alla monocultura dove il modello agronomico convenzionale domina da molti anni. E’ interessante notare come il loro stile di conduzione aziendale possa per molti aspetti avvicinarsi a quello che J.D. van der Ploeg definisce come “contadino” (vedi articolo del 19 maggio scorso).

Qui parliamo dell’azienda risicola Una Garlanda ( https://www.unagarlanda.it/ ) della famiglia Stocchi (Cascina dell’Angelo, Rovasenda – VC) che dal dopoguerra coltiva riso nella Baraggia vercellese. Attualmente opera su 130 ha e dispone di una sua pileria aziendale. Coltiva diverse varietà storiche di riso di cui riproduce il seme con una propria ditta sementiera. I suoi prodotti sono certificati biologici dal 2002.  Recentemente ha fondato, con altri produttori agricoli, l’Associazione Polyculturae ( http://www.polyculturae.it/ ) che prevede, tra l’altro, l’istituzione del marchio di certificazione Biodiversitas. La sua storia è la miglior dimostrazione di come sia possibile emanciparsi dal modello agro-chimico dominante da molti anni nel mondo della risicoltura.

Riportiamo di seguito i principali eventi della vita dell’azienda, come narrati dai membri della famiglia, sia nel loro vecchio sito web sia in colloqui personali, e una recente intervista a Manuele Mussa (genero del patriarca Fulvio Stocchi) che aggiunge interessanti particolari e considerazioni. Particolarmente significativa quella conclusiva circa la difficoltà da parte di molti agricoltori di uscire dalle logiche che li tengono ancora prigionieri dell’agricoltura convenzionale.

Una Garlanda…la nostra Storia

Da poveri emigranti i bisnonni di origini Bergamasche, con il loro carretto, a piedi, scelsero le terre dell’alto Piemonte per stabilirsi e lavorare. Colonizzarono la zona di terra attualmente coltivata, chiamata “Baraggia”, allora ricoperta di boschi e paludi. Con forza e caparbietà i nostri antenati contadini, negli anni intorno al 1948, impararono a coltivare il riso e ad accontentarsi di ciò che la terra, descritta all’epoca come priva di sussistenza, gli regalava. Poi la tecnologia si fece largo, agevolando con le macchine l’immane lavoro che un tempo si faceva con la zappa. Le terre vennero spianate, le risaie, di dimensioni ridotte, tanto da permettere con un salto il passaggio da argine a argine, vennero ingrandite eliminando molti alberi che facevano loro da cornice. A questi cambiamenti strutturali di modifica del territorio e dell’ambiente si aggiunse l’uso dei concimi e diserbanti derivanti da sintesi chimica, creati per supportare gli inevitabili squilibri che lo sconvolgimento ambientale aveva causati: aumento e persistenza di erbe infestanti, impoverimento del terreno causato dalla coltivazione a monocultura ecc. L’azienda alla fine del ventesimo secolo, si presentava come un moderno esempio di risicoltura convenzionale.

Nell’1995, Fulvio Stocchi e il Fratello Gianfranco decisero di aderire al regolamento CE 2078/92 che proponeva la riduzione e la eliminazione di alcuni prodotti chimici, oltre alla rotazione dei terreni a diverse coltivazioni. Allora si considerò questa scelta come una opportunità per aumentare il valore qualitativo del riso. Nel contempo venne inaugurato, in alcune stanze restaurate della Cascina, un piccolo spaccio aziendale, l’iniziale modo per condividere direttamente con le persone il frutto di una scelta lavorativa più rispettosa. Trascorsero ancora diversi anni, nei quali si ampliò la vendita diretta, mantenendo lo standard convenzionale di coltivazione solo in parte mitigato dalle rotazioni e dall’abbandono della pratica di bruciature delle paglie lasciate in campo dopo la raccolta.

Il 2001 fu un anno importante, perché, per la prima volta, una piccola risaia vicino a casa venne coltivata in modo completamente naturale. Questo netto stacco dalla pratica abitualmente adottata era nato dopo una serie di valutazioni: in primo luogo problemi di salute, a nostro avviso, sempre più attribuibili all’abituale contatto con prodotti chimici e sostanze nocive utilizzate nelle diverse fasi della coltivazione del riso sul terreno e nell’acqua, e poi l’osservazione dell’ambiente di risaia, sempre più compromesso dai medesimi fattori. Quell’anno il raccolto fu buono, la gioia di poter mangiare del riso naturale fu grande quasi quanto la delusione di non poter assicurare, a quel riso così speciale, un giusto commercio.

Non conoscendo altre possibilità per far riconoscere una risicoltura totalmente naturale, nel 2002 ci siamo approcciati alla formula del biologico, ma ne fummo presto delusi per la superficialità dei controlli che lasciavano ampio spazio ai “bio furbi” come testimoniato dallo scandalo scoppiato in seguito  grazie a REPORT. Tutto ciò ci indignò fortemente tanto di rinunciare ai contributi del biologico per qualche anno.
In quel periodo incontrammo, ad un mercato locale, un ragazzo che proponeva diversi prodotti tra i quali il riso; con entusiasmo esaltava l’importanza del cibo coltivato bene. Ci venne spontaneo avvicinarci per smorzare i suoi entusiasmi raccontandogli la nostra esperienza di risicoltori delusi dal sistema. Da questo casuale incontro prese avvio un nuovo canale di vendita attraverso una ditta  all’epoca garante della sicurezza dei prodotti alimentari venduti nei Negozi e Ristoranti, enti sostenitori di UPM (Un Punto Macrobiotico). Da quell’episodio nacque un rapporto commerciale stabile; notammo da subito la serietà dei controlli, ad ogni fase della coltivazione e poi di stoccaggio. Sempre a sorpresa ricevevamo visite di persone molto attente che non avevano paura di sporcarsi con un po’ di terra le scarpe. Scoprimmo solo in seguito il perché di tanta attenzione: si voleva che il riso da noi coltivato fosse fatto veramente senza chimica. Dal 2003 in poi si incominciò a produrre e vendere riso naturale, in un crescendo di superficie data la incessante richiesta. La maggior parte dell’Azienda era comunque ancora a monocoltura chimica aderente a quelle normative europee per un minore impatto ambientale, che però, sempre di più, ci sembravano insufficienti e palliative.

La “novità” del riso coltivato naturalmente stava diventando sempre di più per la famiglia Stocchi un motivo di orgoglio, all’inizio si decise di prediligere una varietà di riso tra le altre: Il “Rosa Marchetti”. Questa varietà, che nei ricordi del passato, veniva abitualmente e con profitto coltivato, (prima che concimi e diserbi ne facesse abbandonare la coltivazione) ci era stata donata, in quantità di 28 kg. di risone, nel 2001 dall’amico Giovanni Marchetti, figlio del costitutore e scopritore di questa apprezzata varietà di riso del 1958. Dall’annata 2002, è nostro impegno moltiplicare e custodire quei semi, che mantengono in vita anche la memoria di un amico. Successivamente scoprimmo che nel 2001 su richiesta di Mario Pianesi erano usciti dalla banca del seme di Ente Nazionale Risi questa e altre varietà di origine anche più antica, per essere seminate e riscoprirne così il recupero pratico tramite la produzione e il consumo. Grazie a questo importante gesto ci è stato possibile coltivare, in questi anni oltre al Rosa Marchetti, varietà di riso antiche come: Bertone, Originario Chinese, Pierrot, Lencino, Maratelli e molte altre.

Il 4 Aprile 2004 fu l’anno della prima edizione del convegno intitolato: “Il riso: alimento fondamentale per la salute umana“, presso il Centro Ricerche sul Riso – Castello D’Agogna e fu in quell’occasione che sentimmo per la prima volta una conferenza di Mario Pianesi. La vera grande rivoluzione la iniziammo a comprendere in quel periodo, comprando e soprattutto leggendo l’Etichetta Trasparente Pianesiana (ETP) che accompagnava tutti i prodotti di uso quotidiano (oggi altre realtà commerciali nazionali ne stanno comprendendo l’importanza, utilizzando la trasparenza dell’informazione riportata in ETP per accreditare il proprio lavoro). I controlli, le analisi, l’attenzione la sicurezza che veniva data alle nostre produzione era la medesima che scrupolosamente veniva fatta a tutti gli altri produttori e trasformatori della filiera. Questo per noi diventava più che una certezza!

Intanto, grazie a questa forte spinta presa in prestito da Pianesi,  il lavoro in campagna e le prove in campo procedevano. Una delle prime osservazioni fatte e valutate a fine campagna 2003 fu che, in una porzione di terreno dove l’aratro non aveva rivoltato la zolla di terreno, si era creato un ambiente particolare dove le piantine di riso avevano preso il sopravvento su quelle infestanti. La particolare lavorazione meno invasiva, la funzione mediatrice dell’acqua e la vicinanza di arginatura inerbita sono stati i fattori che sommati tra loro hanno testimoniato, come si potesse ricreare un equilibrio per ottenere un riso veramente naturale e di qualità. Nei fatti, la messa in pratica di questa intuizione si ottenne solo dopo una ricerca nelle esperienze dei “vecchi” e dopo molti diversi tentativi successivi per riuscire a codificarne l’efficacia. Vari tentativi di semina in asciutta, troppo dispendiosi in termini di tempo e di lavoro e soggette a variabili climatiche, non ci soddisfecero, così come il tentativo di riproporre la monocoltura (riso su riso) che venne da subito scartata.

Si iniziò ad osservare la natura, ad agire di meno e pensare di più. Dopo le prime esperienze positive in campo, si comprese che il legame con la chimica era una schiavitù che poteva e doveva non riguardarci più, i cibi sani che stavamo mangiando e che costruivano il nostro corpo ci mettevano di fronte alla contraddizione forte: non era giusto avvelenare con prodotti chimici quei campi che ancora in parte coltivavamo in convenzionale. La Policoltura era, ed è ancora, il nostro obbiettivo, una semplice pratica agronomica che ci permettesse di coltivare tanto riso senza avere spese; tutto ciò che ci serviva era li, davanti ai nostri occhi, ma ancora celato alla nostra comprensione. Iniziammo a studiare l’ambiente che ci circondava abbozzando un semplice erbario fatto di fotografie e osservazioni; piano piano stavamo imparando i nomi della moltitudine di piante selvatiche che, da sempre ci circondavano, con le loro singole caratteristiche, differenze e sfumature che prima uniformavamo e non vedevamo. Nella pratica le difficoltà da affrontare, soprattutto all’inizio furono e sono ancora oggi molte; sarebbe una dimostrazione di arroganza pensare che qualche risultato significhi aver compreso tutto e magari essere arrivati. I nostri bisnonni, quando decisero di fare i contadini, hanno sempre cercato di capire e migliorarsi, cosa più difficile per noi perché nel frattempo l’ambiente è stato snaturalizzato e la memoria dei modi di coltivare naturale (accezione oggi da sottolineare che allora era la normalità) dimenticata.

Per ritrovare dei frammenti di memoria ci rendemmo conto della necessità di prendere spunto dal passato; chiedemmo ad un caro amico del paese, l’unico che negli anni aveva mantenuto ben chiare in mente le gesta dei suoi antenati, come facevano, neppure tanti anni prima, le persone a trarre raccolto senza il supporto di tecnici agronomi e sostanze artificiali per terreni e piante. I suoi racconti ci sono stati utili tante volte per capire piano piano, che molte pratiche vecchie, se attualizzate, potevano rendere fattibile con meno tempo ed energia il profitto del nostro lavoro. Giovanni Pansarasa, al quale siamo molto riconoscenti, ci indicò inoltre quali erano le coltivazioni che i suoi nonni, dediti all’allevamento e all’agricoltura, facevano un tempo nelle terre argillose della Baraggia: alternavano alla coltivazione del riso i prati, ottimizzando le poche risorse senza sprecare nulla e vivendo accontentandosi condividevano senza egoismo il frutto del loro lavoro in totale autonomia. Grazie al passato si è potuto attuare la coltivazione naturale del riso. Qualcuno potrebbe dire: “ il prato che marcisce e lascia il posto al Riso?!!!…..ma è così ovvio!!”. Certo, bisognava arrivarci….dopo 18 anni possiamo dire di aver ideato una tecnica efficace che in molti agricoltori oggi utilizzano per evitare i tanto nocivi diserbanti e concimi. La condivisione di questa buona pratica che utilizza il prato come pacciamatura e nutrimento per le piantine di riso, è per noi è una gioia immensa perché tutta la terra e non solo la nostra ha bisogno di recuperare la salute.

Nell’anno 2008 iniziò la moltiplicazione di 14 varietà di risi antichi, parte dei quali, come già accennato, provenienti all’Ente Nazionale Risi. Prima del 2001 era prassi acquistare le sementi annualmente, affidandoci a ditte del settore preposte a fornire semi selezionati. Questi germoplasmi sono sempre più spesso, frutto di incroci artificiali per accentuare caratteristiche di maggiori produzioni, maggiori resistenze alle sempre più numerose e nuove avversità; tutto questo a scapito delle sementi, che come un malato, hanno continuamente necessità di cure ( ultimamente sono state create varietà di riso alle quali in abbinata viene venduto il diserbo studiato apposta dai laboratori chimici per competere sulle erbe infestanti). Come un cane che si morde la coda il contadino, che ha modificato l’ambiente e i suoi equilibri, corre ai ripari, generando soluzioni di breve durata. I diserbi sempre più potenti, selezionano a loro volta delle piante selvatiche che ne sopportano maggiormente l’effetto, mentre le nuove varietà di riso, svuotate della loro memoria da continue modificazioni forzate e dalle mutuate condizioni (monocoltura), si indeboliscono, perdendo nel breve tempo le decantate caratteristiche e arrivando così ad essere sostituite con altri incroci sempre più deboli. Questa “giostra” della quale facevamo parte, ha negli ultimi anni, accelerato la velocità, arrivando a livelli drammatici che stanno investendo oltre all’ambiente, inevitabilmente, anche l’economia mondiale.
Allo scopo di conservare tutelare e distribuire i semi delle antiche varietà di riso attualmente in nostro possesso, nel 2016 è stata costituita la prima ditta sementiera che fornisce semi coltivati in modo Biologico grazie al metodo da noi ideato ( Metodo Stocchi ). I contadini, come da migliaia di anni, avranno così la possibilità di attingere ad una banca semi “vivi” e forti e nel tempo, tornare ad essere autonomi accantonando parte del raccolto e auto riproducendosi così i semi per le annate successive.

Come intuibile, non sempre le cose in questi 16 anni sono andate bene……e ci sembra giusto raccontare anche i dubbi, le difficoltà, le annate e i momenti difficili perché anche questi sono serviti ad imparare cose importanti. Nel 2009 ricordiamo la campagna agraria più scarsa e deludente tra tutte. Molti sono i fattori che la determinarono. In generale i delicati equilibri naturali sono i pilastri della vita, pochi purtroppo hanno la percezione di che danni l’uomo può fare alterandoli. Molti degli scambi commerciali sempre più globalizzati sono la principale causa di migrazioni di piante e insetti “stranieri” che in un ambiente privo di predatori antagonisti, creano molti problemi. L’esempio nel passato fu l’introduzione di piante infestanti oggi diventate autoctone ma un tempo sconosciute all’ambiente di risaia. In quegli anni insetti particolarmente dannosi al normale sviluppo del del riso (Lissorhoptrus oryzophilus “Punteruolo acquatico del riso”) hanno generato molti problemi. Il poco riso prodotto, le incertezze di produrne ancora in futuro (persino chi aveva trattato i propri campi con i veleni aveva ottenuto raccolti scarsi), ci portò a scivolare, nel 2010 all’acquisto di concimi organici “Bio”. Quella scorciatoia per arricchire e ripulire la terra, fu solo uno sperpero di soldi e di ore lavorative senza riscontri, a parte la conferma, che dagli errori si può trarre insegnamento. Iniziammo a sforzarci di limitare gli interventi in campo e con più zelo piantumare alberi vicino ai fossi e sugli argini delle risaie, notando che proprio li si trovava la concentrazione di uccelli e predatori del punteruolo acquatico, che, da osservazioni fatte, preferisce le piante selvatiche al riso.

Ci tornò utile la pratica dell’allevamento in risaia di carpe, in passato molto praticata da chi viveva in zone di riso perché fonte di cibo proteico e di reddito supplementare a quello della raccolta del cereale. Inoltre l’allevamento delle anatre, lasciate “pascolare” in risaia nei giusti periodi furono all’ora espedienti molto efficaci, che continuiamo a praticare per limitare anche la proliferazione delle zanzare. Le attività parallele e collegate alla coltivazione nel 2009 aumentarono; si decise di creare in Azienda una Pileria che ci permettesse di raggiungere l’autonomia della trasformazione del risone in riso commestibile. In questo modo diventava possibile la filiera chiusa del prodotto, coltivato, trasformato e dato alla distribuzione senza spostamenti tra i vari passaggi. Si è riusciti così ad annullare il rischio di possibili contaminazioni causate dall’utilizzo di impianti non dedicati a prodotti naturali ma dove si trasforma anche il riso chimico. La nostra famiglia, unita e più consapevole, ha scoperto che il mestiere del Contadino è sacro e va onorato per il rispetto della terra e delle persone che ne mangeranno i frutti. Nei fatti anche le analisi dei terreni ci dimostrarono che la terra gradiva questa nostra scelta ambientale più consapevole. In breve tempo un effettivo abbassamento del PH, indice scientifico di una ritrovata fertilità, si notò in molti campi. Le sempre crescenti produzioni di riso e la visibile crescita sempre più rigogliosa delle erbe utilizzate come erbaio erano un altro segnale positivo.

Nel 2011 si è creata la prima risaia più a misura d’uomo dell’Azienda, delimitando con degli argini a distanza di 10 m. la superficie di una risaia. Su questi mettemmo a dimora essenze arboree differenti come: Ontani, Sanguinello, Salici, e arbusti spontanei. Da quello che ci sembra di aver capito, le diverse piante spontanee e le erbe nell’alternarsi le une alle altre, concorrono tra di loro al mantenimento di un equilibrio originariamente spontaneo che può così tornare. La monocoltura intensiva si fonda, all’opposto, su una prevaricazione dell’ambiente, il quale ci dà la vita sempre, ma con il quale abbiamo perso ogni forma di comunicazione e linguaggio. Per questo motivo l’Azienda Agricola Una Garlanda, dopo anni di diffidenza riguardo alle piante in risaia, ha deciso di puntare sull’aspetto ambientale, come investimento economico ed etico per il futuro. Un percorso basato sulla condivisione delle idee di Mario Pianesi, che ci sono piaciute e che abbiamo cercato di applicare, in totale libertà nel nostro lavoro. Nell’annata 2016 e 2017 sull’intera superficie aziendale, sono state messe a dimora più di 10.000 piante distribuite a rete, con distanza di 10 m sui filari e tra le file, nelle risaie.

Undici anni fa la nostra azienda, all’epoca denominata Azienda Stocchi Fulvio, era considerata dal vicinato come “irragionevolmente avviata verso il fallimento” perché utilizzava dell’erba decomposta per coltivare il riso.
Oggi l’Azienda Una Garlanda, ci auguriamo con la stessa forza e caparbietà di Fulvio, porterà avanti nei fatti il cammino intrapreso, speriamo sostenuta in futuro da tutti quegli agricoltori ed Enti Pubblici che hanno potuto beneficiare, indirettamente delle nostre scelte gratuitamente. E’ limitativo peròpensare che l’utilizzo della tecnica così detta di “copertura” dei terreni, staccata da una più ampia valutazione dell’ambiente di coltivazione, possa confermare la sua validità in futuro. Seppur lodevolmente permetta l’abbandono di tutte le sostanze chimiche, come tutte le tecniche affrontate meccanicamente potrebbe nel tempo far ripercorrere gli errori miopi e commerciali già avvenuti in passato facendo ripiombare l’agricoltore nella schiavitù della logica del profitto fine a se stessa e nel diverso, ma simile, sfruttamento dei territori.

Intervista a Manuele Mussa di Loredana Matonti

“Paesaggio Piemonte on line”, 26 maggio 2021

La prima cascina storica ad essersi convertita in zona al biologico dal  2002  è Cascina dell’Angelo, azienda agricola “Una Garlanda”. Coltiva 8 varietà antiche di riso, tra cui il “Bertone”, la varietà più antica in Italia, risalente ben al 1819 e altre varietà che risalgono ai primi del’900.

L’azienda è solo per metà coltivata a riso, l’altra metà è coltivata a miglio, fagioli dall’occhio, grano e segale.

Varcando il loro cancello sembra di entrare in un’oasi naturalistica piuttosto che in un’azienda agricola: risaie simili a vere e proprie zone umide, non a caso soprannominate “riso palude”, dove il riso cresce assieme ad altre piante e a una miriade di insetti e uccelli che regalano subito la sensazione di un’attività umana in sintonia con l’ambiente.

È stato il patriarca della famiglia, Fulvio Stocchi, a rivoluzionare l’azienda più di vent’anni fa, abbandonando la chimica nei campi quando ancora era considerata una follia rinunciarvi: l’opinione comune era che tutte le piante, al di fuori del riso, fossero delle ‘malerbe’ da combattere. Come tutti i pionieri, allora venne persino deriso per la scarsa produzione, ma ora, grazie a continue ottimizzazioni, prove e ricerche in campo, la resa è assolutamente paragonabile al riso coltivato in modo convenzionale.

Attualmente Cascina dell’Angelo è diventata un punto di riferimento per un movimento sempre più ampio di risicoltori e di clienti alla ricerca di un cibo di qualità e un centro informativo che copre tutta la filiera del riso fino alla cucina tradizionale e organica.

La cascina è anche un punto di lavorazione del riso biologico, con una riseria allestita con antichi macchinari restaurati e perfettamente funzionanti che decorticano delicatamente il chicco di riso senza distruggere la parte del germe, organoletticamente più ricca e pregiata.

Manuele, cosa vi ha spinti a cambiare rotta rispetto all’agricoltura convenzionale?

Tempo fa, qualcuno in famiglia ebbe problemi di salute proprio per i fitofarmaci utilizzati nella coltivazione e allora ci convincemmo che utilizzare la chimica non fosse più sostenibile. Da qui un vero cambiamento di paradigma: abbiamo cambiato stile di vita, alimentazione e, naturalmente, modo di coltivare, cercando anche di ripristinare l’ambiente che in 40 anni di agricoltura chimica era stato devastato – risponde Manuele, con il fervore di chi sente quasi di dover restituire alla terra quello che le era stato tolto.

Come siete riusciti ad evitare l’uso di fitofarmaci e diserbanti?

In sintesi, facendo delle rotazioni con colture erbacee da semi selezionati sul posto, si effettua la semina del riso sulla coltre erbosa piegata col rullo, si sommerge subito con un palmo di mano di acqua per 5-6 giorni. Poi si asciuga per una decina di giorni in modo da mineralizzare bene le erbe andate in fermentazione nell’acqua, cosicché dopo spuntano, come per miracolo, le prime foglioline tra l’intreccio di fibre marcescenti. A quel punto si fa la sommersione definitiva che fa emergere i culmi di riso, lasciando poco spazio ad altre piante estranee, così può crescere senza bisogno di trattamenti. Questa tecnica è stata poi stata battezzata “pacciamatura verde“.

E questa tecnica come è nata?

Una delle fonti di ispirazione sono stati gli agricoltori anziani del posto che avevano ancora memoria di come si facesse il riso una volta. In particolare Giovanni detto “Juanin” della Cà Bianca. Lavora da quando aveva 4 anni e ci diceva che il riso migliore lo faceva quando entrava nel campo col cavallo e arava dopo la rotazione. Aveva un cavallo e un bue e quindi riusciva a girare appena appena l’erba. Questo è stato il primo tassello.

Poi un giorno il caso ci venne in aiuto: mio suocero entrò dentro un campo per fresarlo ma la veccia era talmente sviluppata che non veniva via, allora lui, stufandosi, esclamò: “no, basta, la schiaccio solo e semino il riso”. Così crebbe il riso più bello di 10 anni di sperimentazione. L’anno dopo riprovammo e di nuovo venne un riso bellissimo. Allora abbiamo cominciato ad insegnare questa tecnica a tutti quelli che volevano cambiare modo di coltivare.

Quanti sono gli agricoltori che sulla vostra scia hanno seguito questa pratica?

All’inizio c’è stata molta diffidenza, poi hanno visto che producevamo un riso bellissimo e che il campo era privo di “infestanti”, quelle erbe che noi oggi preferiamo definire “erbe commensali”, come la loiessa ad esempio, che ha anche un effetto allelopatico  nei confronti di altre erbe. Anche in questo senso abbiamo ribaltato il paradigma comprendendo come ogni pianta presente abbia il suo motivo di esserci. Gli altri agricoltori quindi, si sono avvicinati quando hanno visto i risultati.

Noi abbiamo un diario aziendale in cui abbiamo registrato di aver aiutato, gratuitamente, circa 150 aziende complessivamente, non solo del vercellese ma di altre Regioni come Lombardia e Veneto. In questa zona gli agricoltori che si sono convertiti sono circa una dozzina, per un totale di circa 1000 ettari.

Ma la coltivazione biologica non rischia di avere costi troppo elevati?

No, anzi, costa molto meno…Noi per esempio abbiamo abbattuto i costi da 80.000 euro in fitofarmaci all’anno a zero! Nonché ridotto di due terzi l’uso del gasolio, altrimenti necessario per svolgere le pratiche di agricoltura chimica.

Poi se è vero che il disciplinare biologico impone di coltivare solo metà dell’azienda a riso, è errato pensare che questa metà sia ferma: bisogna cambiare mentalità è importante capire che i campi non sono “improduttivi”, ma vengono solo preparati per l’anno successivo. Alcuni poi, pur non essendo coltivati a riso, vengono rigenerati con i fagioli dall’occhio, miglio (che si coltivava qui prima dell’introduzione del mais) che rigenerano il terreno.

Abbiamo recuperato il miglio San Marino dalla banca del germoplasma di Bari che è una varietà con cicli abbastanza veloci (perché essendo vicini alle Alpi c’è poco tempo per lo sviluppo di un ciclo vegetativo) che ci consentisse di fare un anno il riso, l’anno dopo il miglio e dopo, nello stesso anno, riuscire ancora a seminare l’erba per fare l’erbaio per l’anno successivo. Inoltre, l’erba seminata serve da semenzaio per gli anni futuri e risparmiare sui costi. La veccia, per esempio, costa ben 300 euro al quintale. Ancora, abbiamo cercato di fare delle rotazioni produttive, qua non facili, perché, essendo terreni molto argillosi e pesanti, se piove vengono subito le erbe e meccanicamente non si riesce a entrare. In più, tutto quello che abbiamo in azienda viene auto riprodotto, abbiamo dei semi che stiamo auto riproducendo da vent’anni. Dove ci sono dei campi verdi, noi a luglio andiamo a farli andare a seme e ci produciamo i semi per l’anno prossimo.

In che modo state cercando di ripristinare l’ambiente naturale?

Abbiamo cominciato a ripiantumare i fossi, i bordi e anche l’interno dei campi stessi, con filari di piante autoctone ad una distanza di 20 metri. Adesso abbiamo circa ben 60 km di piante autoctone in tutta l’azienda, dove sono state piantumate più di 15.000 piante. Le specie vegetali sono state piantate sia dentro che intorno, in quanto hanno l’effetto di abbassare la temperatura al suolo e di creare una biodiversità tale da compensare eventuali carenze o danni che possono arrecare insetti o malattie.

Il progetto a cui stiamo lavorando ora, invece, è quello di ripopolare la nostra proprietà con le testuggini palustri, tipiche della nostra zona, che un tempo abitavano i fossi. Per questo, con la collaborazione del ricercatore erpetologo Riccardo Cavalcanti, stiamo creando un’area umida di 800 metri quadri, in cui il prossimo anno metteremo circa 35 esemplari di testuggini; l’idea è quella di farle riprodurre e poi, una volta che si saranno ambientate, liberarle nell’area aziendale in cui creeremo delle aree umide per poter garantire il ripopolamento. Nel frattempo, abbiamo ripreso anche a fare carpicoltura, che già praticavamo in passato, ma che avevamo interrotto perché i piccoli delle carpe nascevano mutageni per via del passato inquinamento. Ora, invece, abbiamo reintrodotto le carpe madri, che peschiamo nel nostro laghetto e che liberiamo nelle risaie e produciamo anche il carpione (carpe fritte sotto aceto). Siccome c’è poca acqua ed è calda, esse vanno in riproduzione e fanno gli avanotti che poi noi, a fine stagione, regaliamo a chi li vuole, rimettendo poi le carpe madri nel lago.

Perché avete reintrodotto proprio le carpe?

Le carpe, all’interno delle risaie, smuovono il terreno e creano un loro equilibrio e mangiano le larve delle zanzare che oggigiorno sono troppo numerose in quanto, per via del continuo utilizzo della chimica, sono stati uccisi tutti i loro competitori, come le rane, le quali hanno un ciclo di riproduzione più lungo, ma che purtroppo muoiono per via dei continui allagamenti e svuotamenti delle risaie, praticati per fare i trattamenti chimici. Noi, a parte la prima fase di germogliatura del riso, teniamo l’acqua tutto l’anno e quindi non andiamo a intaccare il ciclo delle rane.

Manuele, dal tuo affascinante racconto sorge spontanea un quesito: perché allora i risicoltori non passano tutti al biologico?

Fondamentalmente, il problema è la mentalità. La chimica è certo più costosa, ma molto più meccanica. Negli ultimi 50-60 anni abbiamo inquinato tutte le fonti e ci si continua ad ammalare. L’agricoltore “classico” è entrato in un meccanismo da cui è difficile uscire.