Ritornare alla terra
Di fronte all’invecchiamento della popolazione agricola l’UE sta intensificando gli sforzi per incoraggiare i giovani a diventare agricoltori o a succedere agli attuali imprenditori agricoli. Solo il 11% di tutte le aziende agricole dell’Unione europea (UE) è gestito da agricoltori al di sotto dei 40 anni e convincere un maggior numero di giovani ad avviare o mantenere in esercizio un’attività agricola rappresenta una vera sfida. Nel 2010 l’Italia si collocava tra i paesi che presentavano la minore incidenza di conduttori giovani: solo circa il 5% di loro aveva una età inferiore ai 35 anni, contro, ad esempio, valori superiori al 10% in diversi Stati mitteleuropei e l’8,7% della Francia (dati Eurostat). Ancora nel 2016, dall’analisi condotta sui dati dell’indagine SPA dell’ISTAT sull’imprenditoria agricola italiana, emergeva che il peso dei giovani imprenditori agricoli italiani sino a 40 anni era il 9% del totale, e che questo valore era inferiore di circa il 3% alla media europea.
Oggi alcuni dati, se confermati dal censimento agricolo in corso, farebbero pensare a un’inversione di tendenza. Negli ultimi cinque anni, il numero dei giovani imprenditori agricoli è cresciuto del 14%, con un balzo significativo registrato nel corso del 2020. I dati sono quelli forniti da Coldiretti in merito all’investimento nel comparto degli under 35 italiani, sempre più attratti dalla campagna piuttosto che orientati verso altre attività produttive. Con oltre 55mila under 35 alla guida di imprese agricole e allevamenti, l’Italia è leader europeo nel numero di progetti agricoli condotti da giovani.
Ma è da alcuni anni che si moltiplicano i segnali di un rinnovato interesse dei giovani per la campagna e si torna pure a parlare di ritorno alla terra (vedi, per tutti: https://www.ilcambiamento.it/articoli/comunita-autosufficienza-ritorno-alla-terra-e-resilienza-questo-e-quello-che-ci-serve ). Peraltro anche il recentissimo Rapporto Empaia CENSIS sostiene che le nuove generazioni: “riscoprono l’agricoltura e non è un caso se tra le imprese agricole nate nell’ultimo decennio l’11,3% abbia un titolare giovane,” ( vedi: https://agronotizie.imagelinenetwork.com/agricoltura-economia-politica/2021/07/01/giovani-e-terra-per-nove-su-dieci-e-un-occupazione-di-qualita/70997 )
Già negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso vi fu anche qui da noi un movimento di ritorno alla terra, sull’onda di quanto già accadeva negli USA e in altri paesi ( vedi: https://en.wikipedia.org/wiki/Back-to-the-land_movement ), che ebbe una parte importante all’origine dell’agricoltura bio (vedi in questo blog il testo: Alle origini del Movimento Biologico in Italia). Non sappiamo se oggi siamo di fronte a un fenomeno di dimensioni analoghe a quello avvenuto allora ma riteniamo che possa essere interessante confrontare le spinte dei giovani che allora tornavano alla terra con quelle dei giovani di adesso per comprenderne forse meglio motivazioni, bisogni, attese, e facilitare quindi il loro inserimento o la loro permanenza nell’attuale realtà rurale.
Nel mentre stiamo conducendo un’inchiesta sui rapporti attuali dei giovani con la terra, iniziamo questo percorso pubblicando una testimonianza di Renzo Garrone ( il vero iniziatore del turismo responsabile – RAM Viaggi ) di pochi anni fa e [nella sezione Documenti] un suo prezioso inedito del 1983. Renzo partecipa tra il 1979 e il 1984 all’occupazione delle terre nella zona del Monte Peglia (Orvieto) e negli stessi anni collabora con Aam Terra Nuova per cui scrive vari articoli. Parlando oggi di quei fatti dice:
<< Ero arrivato a Monte Peglia nel 1979, avevo 23 anni. La mia vita in quella zona, sia sulla terra che in termini comunitari, è legata essenzialmente agli anni ’80.
La storia del Monte Peglia, in Umbria, a metà strada tra Orvieto e Marsciano, con l’occupazione di terre e case e che erano state abbandonate, inizia però prima, nel 1977. Ed il mio primo pezzo su queste cose, che scriverò per Aam Terra Nuova (d’ora in poi Aam TN) “Pane, amore e fantasia” è del 1983 [ vedi Sezione Documenti ], sei anni dopo la prima occupazione.
Racconta la nostra storia: 25 casali occupati con 100-120 persone che vi abitano, provenienti dalle esperienze più disparate. C’erano ex operai provenienti dalle valli bergamasche, che non ne potevano più della fabbrica, c’erano fricchettoni che erano già stati in India o che volevano andarci, c’erano persone diverse, ma tutti giovani. Molti arrivavano in zona sulla scorta di una Legge dello stato per il recupero delle terre incolte che favoriva le cooperative giovanili. La legge 285, del 1° giugno 1977, prevedeva esplicitamente, secondo il testo contenuto nel suo art.18, che “le regioni assumessero iniziative dirette a favorire nel settore agricolo la promozione e l’incremento della cooperazione a prevalente presenza dei giovani nei settori: a) della messa a coltura di terre incolte ai sensi della vigente legislazione; b) della trasformazione di terreni demaniali o patrimoniali a tal fine concessi dai comuni, dalle comunità montane e dalle regioni; c) della conservazione, manipolazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli e della pesca”.
In quel periodo i contadini in massima parte se ne erano già andati dalle campagne, diretti verso le città. Ciò era accaduto ben prima, a partire dai primi anni ’60, col miracolo economico. E, in Italia centrale (Umbria, Marche, Toscana) avevano abbandonato questi fantastici casali in pietra. Le Comunità Montane, che nacquero in quel decennio (la legge che istituisce le Comunità Montane è la n. 1102 del 3 dicembre 1971, ora la materia è disciplinata dall’art. 27 del d. lgs) avevano ereditato questo patrimonio, ma lo gestivano – almeno questo era il caso umbro –con grande fatica e con manifesta insipienza. (Per quella di cui Monte Peglia faceva parte si veda:
https://it.wikipedia.org/wiki/Comunit%C3%A0_montana_Monte_Peglia_e_Selva_di_Meana )
La Comunità Montana del Monte Peglia di solito assegnava ad un ex mezzadro della zona, divenuto allevatore di bestiame, 40-50 ettari, comprendenti i fabbricati di 3-4 casali, su cui gestire grosse greggi, soprattutto di pecore; ma il mezzadro non viveva più lì, stava già in paese e trasformava quelle case in fienili. La logica era che terre del genere, tra i 500 e i 700 metri di altitudine, fossero completamente inadatte ad un’agricoltura seriamente produttiva: l’unica attività che lì potesse funzionare era l’allevamento. Ma le Comunità Montane prendevano anche soldi dalla CEE (allora si chiamava ancora così, oggi è la UE) per rimboschire: dava dunque un po’ di lavoro precario a 3-4 persone del luogo, e nel quadro di questi rimboschimenti piantava pini persino tra gli ulivi.
Le nostre esperienze nascevano in questo contesto.
Negli anni in cui vivevo lì eravamo arrivati ad essere tanti. Mario Cecchi, adesso a Granburrone,è stato uno dei primissimi. Il suo podere si chiamavaPergolla, ci abitava con Giampaolo Golinelli, di Bologna.Credo che il Monte Peglia sia stata la prima esperienza di questo tipo in Italia, Granburrone nasce dopo e di mezzo c’è un’altra cosa simile, che si chiamava Acquacheta.Ma esistevano anche altre situazioni sparse, non riconducibili a un discorso collettivo, a dei comprensori come questi. Io oggi non saprei dire cosa ne è rimasto. […]
Ma come accennato sul Monte Peglia arrivavano persone da tutta Italia, oltre a tedeschi e olandesi che già recuperavano casolari. Alcuni ex-poderi venivano occupati, altri venivano comprati regolarmente da chi aveva un qualche gruzzolo o si muoveva in una logica più solida. C’erano entrambe le cose; in termini di agricoltura e allevamento, però, bisogna vedere poi cosa tutte queste persone combinavano davvero sulla terra.
Tutti gli occupanti si rendevano conto che si trattava di darsi all’agricoltura biologica, però molto spesso i poderi non avevano abbastanza terra. Per esempio, sui 25 della zona del Peglia, di cui parlo nell’articolo, solo 5 o 6 possedevano un’estensione a seminativo adeguata. Io ce l’avevo, stavo a Fontanelle, a 700 metri di altitudine, e lì ho fatto le mie sperimentazioni. Ma non sono mai stato un agricoltore fatto e finito. Altri erano/si rivelarono molto più capaci, in quanto all’altezza di ristrutturare da sé il proprio casale, di costruirvi un bagno (nei poderi abbandonati il bagno non esisteva), di ripararsi il tetto, di cambiare un travetto del pavimento crollato, di rifare l’impianto elettrico, tutte cose su cui io e gli altri ragazzi e ragazze insieme ai quali condividemmo quell’esperienza eravamo molto ma molto meno smart.
Spesso quelle esperienze di occupazione si sono concluse nel giro di alcuni anni. Alcune erano veramente velleitarie ed è quasi inutile ricordarle, altre sono state più significative: chi veramente se lo sentiva ed “era la sua storia” è rimasto. Il podere è stato allora trasformato in una fattoria, magari oggi è un agriturismo, con della terra che viene coltivata. Ma è passato molto tempo e non ho una mappatura di quello che succede oggi […]
Noi volevamo fare semplicemente un’agricoltura pulita, naturale. Per me era una cosa spontanea, solo il pulito poteva essere giusto. C’erano le prime esperienze di agricoltura biodinamica, in quel periodo, ma secondo me la maggior parte della gente non aveva bene idea di cosa si trattasse perché non c’era nemmeno da chi averle queste informazioni. Almeno non sul Peglia […]
Poi arriva Aam TN. Aam Terra Nuovaesisteva già, di fatto, dal 1977 [nel 2017 ha festeggiato i 40 anni], ed era un giornale attivista. Io mi unii a loro, ed imparai, dai miei caporedattori del tempo, Pino, Rosalba, e da qualcun altro: entrai in redazione nel 1984, collaborai a lungo al giornale quando c’erano loro. […]
Entrai in contatto con loro durante le feste-incontro che si tenevano, indette da Aam TN, perlopiù in Italia centrale. Si svolgevano in campagna, ad ogni cambio di stagione. Coloro che poi gestiranno in prima persona il giornale si riunivano a Roma attorno a una bottega del biologico, l’Albero del Pane. La rivista rappresentava una grande novità: l’idea era mappare chi faceva agricoltura naturale su tutto il territorio nazionale, ma non solo. Il campo di azione e di studio di Aam TN si allargava ad una visione olistica: oltre all’agricoltura essa comprendeva alimentazione, medicina, ‘e proposte di vita’ (sì, nel titolo faceva capolino anche il sogno dell’alternativa, suggellato in questa piccola frase).
Attorno ad Aam TN si creava in effetti, concretamente, un circuito virtuoso città-campagna. Anzi, da un lato, coi prodotti, si andava dalla campagna alla città, mentre dall’altro i flussi erano inversi, città-campagna, perché appunto c’era pieno di gente che cercava le case coloniche da ristrutturare o da recuperare. All’Albero del Pane a Roma, nella storica sede di via dei Banchi Vecchi, Pino Rosalba e Maurizio, che verranno poi rimpiazzati da altri, Carla, Enza, Flora, ed altri che non ricordo, vendevano tutta questa roba, pionieristicamente: il grano biologico, ma anche il primo riso integrale della Cascine Lesca e Masinari, i fagioli bio, la pasta di Alce nero, il loro buonissimo pane con la pasta-madre fatto e recapitato loro fresco da Il Frantoio di Peppino Crecco…, un’azienda della Ciociaria; non avevo mai mangiato niente del genere!
I primi negozi di alimentazione naturale italiani di quegli anni erano un po’ degli empori del naturale. In Italia rappresenteranno un po’ quello che erano stati ad Amsterdam, tempo addietro, gli empori di economia alternativa. Precorrevano anche di 20 anni le Botteghe del Mondo del Commercio equo e solidale, con questo genere di cose, e realmente realizzavano un circuito virtuoso città-campagna – anche se limitato e tra mille difficoltà. […]
La mia esperienza è stata di uno che si mette alla prova. Ma non sono mai stato un grande agricoltore neanche quando me ne sono occupato, di agricoltura. Adesso gestisco solo un piccolo orto – che resta un grande piacere.
Nel mio caso, la cosa importante che ho imparato è cosa significhi fare il contadino. Ed ho imparato facendo tentativi e sbagliando. Soprattutto, comunque, ho capito cosa significhi questo lavoro dal punto di vista di coloro che della terra devono campare, mettendomi nei loro panni. Per me questa fu una delle cose principali. Tanto più importante nel sud del mondo, che ospita una buona metà del genere umano, e che continua a dipendere dall’agricoltura. Viaggiare da quelle parti del resto, dagli anni ’90, è diventato il mio lavoro.
Complessivamente sono rimasto a Monte Peglia 5 anni, dal 1979. Poi nel 1984 mi viene offerto di accompagnare un gruppo di viaggiatori a Sri Lanka – lo avevo già fatto altre volte in India, Nepal, Thailandia. E lì trovo una mia strada; nel senso che viaggiare aveva un senso più compiuto perché mi divertivo, era quel che più mi piaceva.
Ricordo però che, all’epoca dei miei primi viaggi nel sud del mondo, tanti contadini erano in miseria. Anni prima mi era rimasto impresso Paolo VI, il papa, quando dal suo balcone in Vaticano diceva che in India c’era la fame: era il 1966. Ma ancora molto dopo in Kerala, India (dove adesso vige come dappertutto un’agricoltura intensiva, sebbene accanto a poderi gestiti su piccola scala) incontrai un contadino con un appezzamento di terreno dove cresceva quattro spighe stentate, e diceva io qui non ci campo, è la miseria più nera. Ricordo bene, quel personaggio mi colpì molto.
Poi dopo pochi anni è arrivata la cosiddetta Rivoluzione Verde con gli ibridi ad alta resa e la loro scorta di agenti inquinanti, d’accordo, che però hanno restituito una produttività capace di riempire i granai. E’ successo in tanti paesi. E’ andata così, purtroppo! Ovviamente nella Rivoluzione Verde vi sono molteplici controindicazioni: l’inquinamento indotto, il fatto che queste sementi siano degli ibridi […] La dipendenza dai semi ibridi è un grandissimo problema. Poi c’è quello della biodiversità che sparisce. E poi la troppa meccanizzazione, nell’agricoltura intensiva, che espelle un sacco di manodopera dai campi. [….]
Ma torniamo all’esperienza a Monte Peglia. L’agricoltura era un aspetto dello stare bene sulla terra, significava un rapporto dignitoso con tutto ciò che esiste. Aveva ed ha senso. Per me inoltre, cresciuto in città, e al mare, vivere in quel modo significava imparare cose che non conoscevo e quindi mettermi alla prova. […] La spinta a stare sulla terra, e che lo si potesse fare in tanti, aveva anche degli aspetti di riscatto spirituale, psicologico,sociale, queste cose mi affascinavano […].
Allargando lo sguardo c’erano poi tanti fermenti, in quegli anni. Tramite la frequentazione di Aam TN venni a conoscenza dei Verdi in Germania, del loro messaggio, unico nel suo genere – oggi si parla tanto di ambiente a livello internazionale, ma i primi a farlo, a parlare di coscienza del limite, di nuovi paradigmi, furono i Grunen negli anni ’80 […]
In quegli anni c’era un po’ di tutto, c’era la politica, c’era lo scoprire le varie spiritualità, Fukuoka, Gandhi. C’era l’idea dell’autosufficienza, per me era un mito cui tendere. Giravano dei libri in proposito, per qualche anno fu la mia ideologia, anche se soprattutto quelle tecniche costituivano una guida pratica. Si trattava della gestione di un podere: un modello concreto con cui misurarsi.
Purtroppo, si rivelò impossibile fare le nozze coi fichi secchi. E poi non avevamo guide vere, in carne ed ossa, un contadino esperto ed amico che ci consigliasse giorno per giorno. L’autosufficienza era importante perché se invece avessimo accettato tutte le logiche “del sistema” come si diceva allora; fossimo rimasti in città, soccombendo al mantra della produttività ad ogni costo, le contraddizioni sarebbero state molto ma molto più pesanti e sempre più presenti. Con la tensione all’autosufficienza invece c’erano spiragli.
Del resto, a Fontanelle avevamo l’acqua alla fonte, potevamo mettere dei pannelli solari per l’elettricità, non saremmo entrati in contraddizione quasi per nulla.
Ma l’autosufficienza gandhiana in cui credevo allora era tale anche emotivamente e spiritualmente. Cioè, in una comunità in equilibrio, e all’interno di essa, puoi avere anche le necessarie soddisfazioni di tipo intimo: gli amori, gli affetti, gli scambi. L’idea piena di una certa autosufficienza è questo, non soltanto il fatto di essere riuscito a produrre abbastanza cibo. Certo, le parole di Ivan Illich erano corrette, quello che lui chiamò ‘convivialità’ coincideva con il messaggio gandhiano, nel senso che il villaggio ideale di Gandhi era un posto dove fosse possibile vivere bene.
Parliamo di India ma possiamo parlare del contesto globale, a questo livello. Oggi domina l’emigrazione, l’abbandono delle campagne, non solo perché nei villaggi non ci sono opportunità economiche, ma perché la vita di tante metropoli, e certamente quella dalle nostre parti, è anche ‘eccitante’, piena di attrattive e di opportunità per i giovani – attrattive ed opportunità non disponibili nei luoghi dove si nasce. In particolare, in tanti paesi del sud del mondo, dove i problemi sono spesso molto più gravi dei nostri. Ma se si riuscisse a star bene nel proprio villaggio, nelle piccole comunità, uomini e donne insieme, con una vita sociale decente, fermenti culturali, iniziative, opportunità di lavoro, allora questi posti avrebbero un futuro, altrimenti tale futuro è negato. […]
Ma sì, ai tempi del Peglia il messaggio di Gandhi per me era molto importante. […]
Allora, valutavo una sintesi tra i tanti influssi come possibile. Nella logica dell’autosufficienza,il podere diventava il centro di una vita recuperata. […] E il podere era la nostra unità di misura. In Umbria c’erano dei seminativi vasti da 15-20, anche 30 ettari, dove aveva senso sia tenere gli animali che fare agricoltura, perché solo così il ciclo delle attività poteva dirsi completo. Potevi poi aggiungere le api, i lombrichi, attività diverse. E restava il baratto, la relazione con gli altri, i vicini delle campagne limitrofe: con 25 case coloniche nello stesso comprensorio potevamo scambiare, mischiare le energie. In realtà barattavamo poco i prodotti, perché si produceva poco, ma scambiavamo moltissimo la manodopera.
Comunque, ricordo il lavoro sulla terra. I grandi mazzi, la gran fatica del gestire l’orto ma soprattutto i campi con sistemi semplici. L’aver seminato ettari di grano, di orzo, di avena, di fagioli, usando un trattorino: un’epopea. Eravamo riusciti a procurarcene uno che aveva comprato la gente di un altro podere e ce lo prestavamo a vicenda. Però poi a tagliare il tutto non veniva nessun operatore con la mietitrebbia dal paese di riferimento, San Venanzo, perché stavamo a 700 metri, perché era una casa occupata, perché non si era in regola [….]
I limiti? In assenza di un’autentica autosufficienza, diventava obbligatorio andare a lavorare fuori. Lo facevano quasi tutti. L’autosufficienza era un mito, non la realtà delle cose. Nel migliore dei casi anche i migliori poderi la conseguivano solo parzialmente. […] Ma c’era un clima di fondo, un’atmosfera… Nessuno steccato politico, sostituito da logiche libertarie. Tra di noi c’era cooperazione e amicizia, Mario o Giampaolo venivano a Fontanelle a cambiarmi un travetto del pavimento crollato, per dire, io andavo a dar loro una mano nei lavori. Io non sapevo fare quasi niente bene, ma ci mettevo sempre manovalanza, energia e disponibilità. Sapevo solo scrivere e parlare, in più avevo il furgone e infatti ero sempre in giro a dare una mano a chiunque […] in realtà però, purtroppo, a dispetto di quanto avrebbe potuto succedere, io non vivevo al Peglia di grandi interazioni, non c’era un clima di assoluta fratellanza, eravamo tanti cani sciolti che condividevano un comprensorio, punto. Se non hai un forte collante ideologico, e noi non l’avevamo, la logica non era approdare a risultati che potessero divenire un modello. Non eravamo del PCI o di un altro movimento politico che ci guidasse, eravamo tutti libertari, e più che anarchici, qualunquisti, come si diceva allora. […] Probabilmente se avessimo avuto dei momenti organizzati in cui decidere insieme le cose saremmo stati più incisivi […] Eppure, quando io me ne andai la Comunità Montana ci stava concedendo i contratti d’affitto…>>
( Citazioni estratte dall’intervista del 15/12/2018 – in archivio )