Ritorno alla terra e riscatto contadino

Agosto 13, 2021 0 Di storiedelbio

E’ noto che il “ritorno alla terra” del secolo scorso ebbe come protagonisti giovani che lasciavano le città, in cui erano cresciuti e si erano formati, alla ricerca di qualcosa che permettere loro di realizzare gli ideali in cui credevano. Non tutti sanno invece che non fu esclusivamente un fenomeno di origine urbana. I movimenti sociali, politici e culturali alternativi degli anni ’70 avevano avuto nel tempo una pervasività tale da toccare anche le aree più periferiche del paese, al punto che molte delle istanze che spingevano dei giovani cittadini a tornare alla terra furono, almeno in parte, le stesse che portarono un certo numero di figli di contadini a tornare o a permanere sulla loro terra per tentare nuove vie. Il caso più famoso è quello di Gino Girolomoni (1946-2012) che, come spiega il suo biografo Massimo Orlandi [ M. Orlandi, La terra è la mia preghiera. Vita di Gino Girolomoni padre del biologico, ed. emi 2014 ], rinuncia ad un impiego sicuro nelle ferrovie svizzere per tornare a Isola del Piano (PU), dove già nel 1970 diventa sindaco del suo paese e inizia un’avventura che lo porterà, con la Cooperativa Alce Nero (che oggi porta il suo nome ), a essere uno dei pionieri dell’agricoltura biologica in Italia.

Dopo di lui ci sarà un piccolo ma significativo numero di figli di contadini, o giovani che comunque avevano ricevuto nell’infanzia un forte imprinting agricolo, che seguirà le sue orme, svolgendo un ruolo importante nello sviluppo del movimento bio , con esperienze rilevanti che in molti casi proseguono ancora oggi.

Racconta Ottavio Rube:“..Enrico, Cesare e io…siamo qui insieme dal 1977. Cesare faceva l’operaio, Enrico aveva fatto l’operaio ed era tornato a lavorare la sua terra. Io lavoravo per conto mio da solo ormai da più di 10 anni. Anche se mio padre era morto quando avevo 18 anni, la sicurezza di avercela fatta ormai ce l’avevo. Facevo il vino per conto mio, avevo una etichetta…. Era arrivata anche qui la spinta, forte in quegli anni, a fare qualcosa insieme…era qualcosa di nuovo. Era l’idea che mettendoci insieme avremmo potuto convincere gli altri, il paese, a fare quelle cose che parevano impossibili: riaprire le stalle, riaprire i pascoli ormai abbandonati; ricominciare. Non erano idee che ci venivano dal paese o dalla famiglia. Lì non c’era la politica. Ci erano arrivati messaggi che non saprei definire – forse ex sessantottini – che per la prima volta rivalutavano il nostro lavoro, la campagna, il contadino “ [Manlio Calegari, La porta aperta – vent’anni di Valli Unite raccontati da Ottavio Rube, Selene Edizioni  2001, pag. 9]. E aggiunge Ennio Ferretti (già nella coop. Valli Unite – oggi Az. Agricola a conduzione biologica La Morella di Carezzano – AL): “…Eravamo amici, avevo la mia azienda ma ero andato a dare una mano a spegnere l’incendio che avevano avuto nel ’77 o ’78, allora erano in 5 nella società Valle Ossona. Avevano fatto una cena a seguito dell’incendio e lì abbiamo cominciato a ragionare di fare una cooperativa perché io, Ottavio, Enrico, Cesare, avevamo delle nostre aziende ma non avevamo più i genitori, se avessimo avuto i nostri padri non so se saremmo riusciti a metterci insieme a quei tempi, comunque un punto a nostro favore era quello: potevamo fare quello che volevamo perché gestivamo noi l’azienda. Siamo andati avanti un anno a mettere giù la bozza di questa cooperativa… Noi volevamo vivere sì bene ma anche in un modo naturale…. Per me credo che sia stato importante dire rallentiamo un po’ questo progresso che ci sta arrivando, perché vedevo che il mio vicino di casa – sono nato qua, poi sono andato a Tortona, ho fatto un po’ di cose, anche un po’ di università – dava il diserbante e poi mi diceva: ma lo sai che c’è qualcosa che non va…si sente un gusto…roba grama.. (in dialetto). Perché poi sono stati quelli più giovani, i miei coscritti, e non i vecchi, che sono entrati in questa logica produttivistica. I vecchi provavano e poi dicevano che secondo loro c’era qualcosa che non andava, l’erba tutta bruciata… Come mai? I giovani non si facevano questa domanda…. per loro l’importante era produrre, fare i soldi, avere il trattore grosso“. [Ennio Ferretti intervista 26/01/2019, in archivio ].

In una intervista del 2011, Maurizio Gritta racconta a proposito della fondazione della cooperativa IRIS bio di Calvatone (CR): “ Iris nasce sul campo…io sono figlio di un bracciante analfabeta…e gli altri erano figli di muratori, manovali e chi aveva il genitore più istruito aveva la mamma che faceva la maestra e insegnava catechismo…noi ci trovavamo a discutere di cosa fare della nostra vita, non ci stava bene quello che facevamo anche se eravamo ragazzi estremamente sereni, abbiamo discusso per  due anni, già nel ’76 avevamo iniziato questo percorso e io avevo 19 anni. Ed ero uno dei più anziani…Venivamo tutti da quella congerie culturale degli anni settanta, figli di quel contesto rurale, influenzato dai fermenti urbani di Milano…per quel che mi riguarda la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il conflitto col mio padrone…mi chiese di andare a fare la patente per il diserbo e io gli risposi di no. …E’ nel ’78 che il gruppo si solidifica e si decide di partire. Dal notaio andiamo nel 1984 e facciamo sei anni dove ognuno di noi ha mantenuto il posto di lavoro e dedicava il sabato e la domenica alla cooperativa… Ci legava l’amore per la terra. Io lavoravo in agricoltura come altri tre o quattro di noi fondatori… lavorare la terra nel rispetto della natura, produrre e vendere direttamente i propri prodotti sono stati i caposaldi della cooperativa…” [G. Canale, M. Ceriani, Contadini per scelta. Esperienze e racconti di nuova agricoltura, Jaca Book 2013, pagg. 241 e segg,]. E di nuovo nel 2019 in un’altra intervista afferma: “…io vengo da una scelta diversa [rispetto ad altri esponenti storici del Movimento Bio], io vengo proprio dal fatto che sapevo fare agricoltura, avevo passione, non mi stava bene l’agricoltura nella quale lavoravo, cercavo delle vie, avevo letto delle cose, Draghetti, Fukuoka, Howard… e poi avevo vicino la parte politica…ero già anarchico, frequentavo gruppi anarchici, cercavo la mia strada… Lo sai benissimo che i discorsi erano la lotta di classe. Io invece a un certo punto incrocio Murray Bookching e leggo “L’Ecologia della Libertà”… “ [ Maurizio Gritta, intervista 12/06/19 – in archivio ]

Lino Verardo, che ha la stalla e le sue terre a San Ponzo Semola,  Ponte Nizza (PV), ricorda: “…sono nato a Genova Pegli ….mio nonno [paterno] era di Pegli, invece dalla parte di mia mamma venivano dalla Val Polcevera avevano le vacche a Pegli, per andare verso San Carlo di Cese, Tre Ponti in Val Varenna…è con mio nonno materno che stavo sempre insieme… sono sempre vissuto con mio nonno, è lui che mi ha inculcato la passione per le vacche, poi negli anni sessanta gli hanno fatto l’esproprio dei terreni per i depositi di petrolio in Val Varenna. Avevo sei o sette anni, sono del ’55, e siamo andati a vivere in un appartamento(…)…Però avevo i miei zii….che abitavano a Serra Riccò in Val Polcevera e tenevano ancora le vacche e la terra… Finita la scuola per tre mesi d’estate andavo su e si facevano i lavori in campagna…io volevo fare una scuola legata all’agricoltura, ma a Genova c’era solo quella dei fiori di S. Ilario…allora ci siamo informati e qui a Voghera c’era la scuola di agraria, il Gallini…Così viaggiavo da Pegli, partivo con il treno delle 5.20 del mattino. A 13 anni ho cominciato a fare quella vita…Nella scuola agraria c’era la stalla e quando finivano le lezioni io andavo sempre là… ero già un po’ sovversivo, quella era una scuola frequentata da figli degli agrari… io ero figlio di un operaio e i contadini giù di là non li consideravano nemmeno…Ho fatto poi il militare, due anni, e sono tornato a casa a Pegli…mio padre è morto nel ’78, faceva il saldatore all’Ansaldo…Allora ho detto a mia madre: guarda vado a trovarmi un lavoro. Ho preso la R4 e il mio sogno era l’Emilia così sono andato a Reggio Emilia…lungo la via Emilia ho visto una cascina dove c’erano i tori da riproduzione…sono andato a vedere…e mi hanno detto: da domani può cominciare…Sono stato due anni a Reggio Emilia… Il mio sogno era quello di mettermi in proprio, di tenere le vacche per conto mio…Così mi sono licenziato da Reggio, sono andato in banca per farmi dare sette milioni di lire per comprare sette vacche che ho portato giù da Reggio, ho caricato la motofalciatrice che un contadino mi ha regalato sulla R4…e sono arrivato in questa terra incolta. Il mio capitale era la motofalciatrice e le vacche con il mutuo da pagare…io non uso niente, né concimi, né diserbo e agli animali do il fieno che faccio io. Non sono certificato perché mi sembra una cosa assurda che chi mi certifica lo debba pagare io,,” [G. Canale, M. Ceriani “Contadini per scelta. Esperienze e racconti di nuova agricoltura” Jaca Book 2013, pag. 257e segg.]

Quello che mostrano con grande evidenza questi casi è la voglia di riscatto di una civiltà contadina di cui quei giovani erano gli ultimi eredi (proprio nel 1977 era uscito “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli). Ma tale motivazione, come rammenta Ottavio Rube, poteva esprimersi proprio perché stava cambiando nelle città l’atteggiamento verso la campagna e i contadini. Allo stesso tempo questi giovani che spesso avevano studiato, magari proprio perché i loro genitori non volevano che dovessero fare i contadini, condividevano gran parte della cultura giovanile e gli ideali dei movimenti di quegli anni. Sceglieranno in molti di dar vita a delle cooperative perché volevano essere senza padrone, ma più in generale condividevano con i giovani di città valori di egualitarismo, di solidarietà, di anti autoritarismo. Trovavano sponda in quei loro coetanei che sceglievano di lasciare le città, che erano contro il consumismo e pensavano che nella terra si potesse dar vita a forme di produzione e di socialità alternative al sistema.

Per queste ragioni ci sembra interessante pubblicare a confronto due testimonianze individuali – una di un figlio di contadini e l’altra di un cittadino, nati entrambi nel 1956.  Bruno Sebastianelli è uno dei fondatori e attuale presidente della cooperativa La Terra e il Cielo (Piticchio di Arcevia – AN). Di Renzo Garrone (scrittore e viaggiatore, RAM viaggi di turismo responsabile) abbiamo appena pubblicato il racconto delle occupazioni delle terre a Monte Peglia.

LA MIA VITA (prima di La Terra e il Cielo)

Bruno Sebastianelli     

Nato e cresciuto nella regione Marche, posso dire di essere Marchigiano DOC. Sono cresciuto in una famiglia di mezzadri, e ho vissuto gli ultimi anni della mezzadria e della civiltà contadina oramai scomparsa. Cos’è la mezzadria? Per chi non la conosce, nelle nostre zone dell’Italia centrale era la cosa più diffusa: solitamente c’erano grossi proprietari terrieri, generalmente nobili, che davano in gestione un appezzamento di terreno con la casa ad una famiglia di contadini. La grandezza del terreno variava secondo la numerosità della famiglia, soprattutto si guardava se c’erano uomini forti e robusti, spesso le famiglie erano composta da 20 o anche più persone. Questa numerosità però era più della generazione dei miei genitori, la mia famiglia era composta da 6 persone, i nonni, i miei genitori e una sorella di mio padre che poco dopo si è sposata, quindi siamo rimasti in 5, si viveva con 6 ettari di terreno a mezzadria e i miei hanno pure risparmiato! Molto diverso da oggi!

 Torniamo alla mezzadria: una volta assegnato il terreno al contadino, al momento dei raccolti il 58% andava al mezzadro e il 42% andava al padrone. Questo rappresentava però solo l’ultima conquista dei contadini prima del superamento della mezzadria: subito dopo la guerra infatti era 50% ciascuno, e prima della seconda guerra mondiale la maggior parte del raccolto lo portava via il padrone [vedi: Bruno Sebastianelli, “Contratto di mezzadria del 1911” – sezione Documenti ]. Spesso le famiglie numerose di contadini non riuscivano ad arrivare al nuovo raccolto con il grano per fare il pane e la pasta fatta in casa, quindi per arrivare a nuovo raccolto macinavano la ghianda per fare il pane.

Ho definito le famiglie che vivevano sulla terra una vera e propria “Civiltà Contadina” perché per loro l’economia circolare era la normalità quotidiana: la sostanza organica, il letame, veniva curato più di ogni altra cosa, esisteva una legge nazionale per come trattare e curare il cumulo del letame. Tutto si faceva in casa, anche se già ai miei tempi, negli anni 60, parecchio era scomparso. Si faceva il pane in casa, il bucato, e per detersivo si utilizzava la cenere, si facevano le scarpe e soprattutto gli zoccoli di legno, si coltivava la canapa per poi fare i vestiti che le donne tessevano al telaio. Un momento, non bello, ma importante per la famiglia, era l’uccisione del maiale. E qui mi vien di raccontare una piccola storiella: quella delle vacche che tornavano dal duro lavoro nei campi, passando davanti alla stalla del maiale, e il maiale dice alle vacche: come siete sfortunate, voi lavorate sempre invece io mangio e non faccio niente! Allora le vacche guardando il maiale gli dicono: ma attento caro amico! Se non sbaglio tu non sei quello dello scorso anno!

Ma la cosa più bella era la grande solidarietà che esisteva tra i contadini. I lavori si facevano tutti insieme e nei campi si cantava e si scherzava. Il momento magico, per me e per tutti, era la mietitura e trebbiatura del grano. Sarà perché era finita la scuola e quindi erano da poco iniziate le vacanze, ma soprattutto era l’entusiasmo, la gioia, la festa, tutto questo lo sentivi anche nell’aria, perché per i contadini era il momento del raccolto e da questo si decideva il destino della famiglia per l’anno che veniva, grasso se il raccolto era buono, magro se era scarso.  C’era poi il momento del raccolto del grano turco (mais), la vendemmia, la raccolta delle olive e poi si andava in letargo con l’inverno. D’inverno tutta la vita rallentava e spesso si passavano le serate con i vicini (la veglia) a giocare a carte o ballare nel periodo di carnevale. Mi ricordo, ma ero proprio piccolo, che durante il periodo invernale tutto rallentava, sia le persone che gli animali, si mangiava meno. Le vacche mangiavano due volte al giorno, il mattino e la sera, come noi uomini. E a mezzogiorno per noi era una cosa molto frugale, due olive con il pane o noci con il pane. Ma ho un ricordo meraviglioso di quel periodo, questo ha creato le fondamenta della mia vita. Non posso non ricordare quando noi bambini si andava a giocare nei fossi e si beveva l’acqua limpida che scorreva, ancora incontaminata.

Ma poi un giorno troviamo un liquido nero, e cosa sarà ci siamo detti! Eravamo verso la metà degli anni 60: a monte del nostro terreno era stato costruito un collegio di suore per bambini orfani e qui era stato realizzato uno dei primi riscaldamenti a gasolio: purtroppo non funzionava bene e disperdeva gasolio nel fosso, e da qui è iniziato il disastro ambientale.

 Nella nostra casa non c’erano riscaldamenti, proprio all’inizio degli anni 60 c’era solo un camino, poi è arrivata una stufa che scaldava molto meglio la cucina, ma le camere erano gelide e per scaldare il letto si metteva, si chiamava così, “il prete con la monica”. Il prete era un trabiccolo di legno che si infilava sotto le lenzuola con la monica, un tegame di terracotta con dentro carboni ardenti per scaldare il letto e quando si entrava sotto le lenzuola era caldo caldo. Devo dire che la mia camera era orientata a nord ed era particolarmente fredda e le notti di inverno sotto tante coperte, si sentiva il tintinnio dell’acqua sui vetri, ma se questo tintinnio era delicato come un leggero fruscio e il silenzio diventava diverso, particolare, vellutato, allora si capiva che nevicava ed io ero pieno di gioia perché ho sempre amato sin da piccolo la neve e poi il mattino se la neve era tanta non si andava a scuola, altro motivo di gioia!

La nostra casa non aveva il bagno, in inverno si andava in stalla perché era il punto più caldo, l’ambiente veniva scaldato dall’alito delle vacche, in estate c’era un casotto costruito sopra la letamaia che fungeva da bagno. Ci si lavava in una grande “mastella”, un grande recipiente prima di legno, poi di plastica, quando arrivò. I primi anni del 60 non c’era tv, non c’era frigorifero, c’era solo una radio per sentire ogni tanto le notizie. A scuola si andava a piedi, per me erano circa 2 km, ma per strada incontravo gli amici e si andava insieme ed era un momento di grande socialità.

 Il mio piccolo paese, Mondavio in provincia di Pesaro, per diversi anni è stato amministrato dall’allora Democrazia Cristiana, ma in un paese confinante, Barchi, per la prima volta aveva vinto il partito Comunista; questa nuova amministrazione come primo intervento ha acquistato un pulmino per portare i bambini a scuola e noi tutti entusiasti di questo comune che finalmente i bambini non dovevano più camminare! Ma oggi dico Maah!!!! Una volta per me era un progresso, oggi dico che è stato un grande regresso!

Crescendo però tutto questo mondo bucolico della campagna mi cominciava a pesare, anche perché gli anni 60 hanno rappresentato l’abbandono della campagna per andare a lavorare nelle fabbriche. A quei tempi si diceva: “en ce piov en ce nengue” non ci piove e non ci nevica, il 27 del mese si prende la paga! In quei tempi, ma anche prima, è iniziata la denigrazione dei contadini: i figli dei contadini facevano fatica a trovare una moglie, perché nessuno più li voleva, perché considerati arretrati. Una donna non voleva sposare un contadino per poi andare a lavorare nei campi, era iniziata, giustamente, l’emancipazione delle donne. Personalmente ho avuto problemi di amicizie di gioco: a volte si andava in paese per giocare anche con altri bambini, bambini che venivano a scuola con me, il figlio del farmacista, il figlio del sindaco, tanto per citare i più influenti, però questi mi hanno mandato via perché ero il figlio di un contadino. Questo, all’età di 8-10 anni, mi ha pesato enormemente, sfociando in un rifiuto della campagna, tra l’altro io ero figlio unico e i miei volevano assolutamente che non rimanessi in campagna, ma dovevo “studiare”! Finita la scuola superiore di “deperito elettrotecnico” ho iniziato diversi lavori, ma non trovavo la mia via, finchè, dopo sposato, nella casa dove attualmente abito, e dove c’era, e c’è, un piccolo appezzamento di terreno incolto, ho iniziato a far l’orto per casa. Ho vissuto i grandi impegni politici e sociali degli anni 70, ricordo, una su tutte, le 3 giornate di Bologna il [Convegno contro la repressione 22-24 settembre 1977].  E con l’orto piano piano sono tornato alle origini, mi è tornata la passione per la terra.

 Nel 76 ho iniziato a fare macrobiotica grazie ad uno dei primi negozi naturali nato a Senigallia nel 75 “Erb e Sument” [Erbe e Sementi]. La passione per la terra tornava sempre più, tanto che ho iniziato la ricerca di un appezzamento di terreno, però c’era un piccolo problema, non avevo i soldi per l’acquisto. Di terreno ai quei tempi se ne trovava tanto, perché tutti volevano vendere, c’era ancora il fuggi fuggi. Come fare senza soldi? Ho provato a chiederli ai miei, non l’avessi mai fatto! Al solo pensiero che io volevo tornare alla terra, per un mese non mi hanno più parlato! Allora con un amico abbiamo trovato un appezzamento di terreno di 2 ettari al costo di 5.000.000 di lire, con 2.500.000 a testa siamo riusciti a comperarlo. Evviva! Da lì è partita l’avventura. Col piccolo particolare che l’appezzamento si trovava in fondo ad una valle che per raggiungerlo ci voleva l’elicottero… Abbiamo iniziato la coltivazione, naturalmente biologica, ma non avevamo attrezzi, avevamo urgente bisogno di una piccola fresa per passare un appezzamento di terreno dove avevamo piantato una coltura da seme, il mio amico era un bravo meccanico e fabbro, abbiamo costruito una motozappa con fresa con un motore di una lavatrice e siamo riusciti a passare il terreno, risparmiando il costo di un terzista. Un’impresa da matti!

 Dopo questo appezzamento, ne ho preso un altro da 1,5 ettari in affitto, la sperimentazione stava crescendo, ma non ero ancora soddisfatto, lavorare da solo non era bello, avevo bisogno di condividere questa nuova avventura appena iniziata. Nel 78 ho trovato 2 libri in negozio, “Alce Nero parla” e “Ritorna la vita sulle colline” e sono rimasto folgorato dall’esperienza di biologico a Isola del Piano, della coop Alce Nero, creata da Gino Girolomoni. Sono andato a trovarlo, la cooperativa era nata da 1 anno, ma Gino la scelta personale l’aveva già fatta dal 71. La conoscenza di Gino è stata per me un grosso impulso, uno scambio importantissimo di pratiche agricole biologiche, le poche che ai quei tempi c’erano.

 La spinta alla creazione di qualcosa di collettivo è nata da noi, gruppo di giovani che ruotavamo intorno al negozio “Erb e Sument” di Senigallia. Da li si è concretizzata l’idea de La Terra e il Cielo. Nel negozio c’erano, già allora, diversi libri sul biologico e sulla biodinamica, la cosa che più mi ha affascinato e appassionato è stata la biodinamica. Sono partito nel 78 per fare il primo corso di Biodinamica che si è tenuto in Italia, alle Cascine Orsine, una delle prime aziende biodinamiche Italiane dagli anni 60. Qui ho conosciuto la proprietaria Giulia Maria Crespi, da poco scomparsa, e Fabio Brescacin, oggi presidente di Ecor. Questo corso mi ha dato l’impulso a partire con la biodinamica: da lì a poco sarebbe nata la coop La Terra e il Cielo e l’agricoltura praticata non poteva che essere la “Biodinamica”.

Monte Peglia: la mia vicenda personale

Renzo Garrone

Bisogna dire che avevo deciso di trasferirmi lì [a Monte Peglia] anche perché mi ero innamorato di una ragazza, Anna, che divenne la madre del mio primo figlio, Siel. Mi trasferii laggiù da Genova per questo motivo trainante, ma c’era anche il fatto che non avevo una strada precisa in quel momento. Andò in questo modo: con un amico ci recammo a trovare per qualche giorno Mario Cecchi, che avevo conosciuto appunto a Genova, dove al tempo vivevo. Con Mario c’eravamo incontrati tramite amici, una sera in un bar, a bere un bicchiere di vino. Era il 1979. Avevo appena finito di lavorare part-time, messo da parte quattro soldi, e disponevo di un furgone Wolkswagen classico, comprato in Olanda. Tornato in Italia, volevo venderlo. Poi incontrai Mario e quell’amico, Massimiliano, mi disse: dai, andiamo giù da lui qualche giorno. Così raggiungemmo il Monte Peglia, andammo a trovarlo. Rimanemmo una settimana, e lì conoscemmo due ragazze, Anna e Gioia.

Io mi innamoro di una di queste, e dico ad entrambe: adesso torno a casa, lavoro qualche mese e poi vengo a vivere qui. Promesso, e così ho fatto. Fin da subito decisi di non vendere più il furgone. Cominciai a usarlo per lavorare, invece, portando a Genova e a Roma formaggio, vino, olio buono, da vendere. Una volta al mese facevo un viaggio e vendevo ai privati. Andai avanti per parecchio tempo, con queste forme di sopravvivenza. In un mio articolo per Aam Terranuova [d’ora in poi AamTn ] del 1983 racconto parecchi casi di questo genere.

Negli anni in cui vivevo lì eravamo arrivati ad essere tanti (…). Quanto a me, sono stato tra i principali iniziatori del movimento del turismo responsabile in Italia, ma non un iniziatore nel movimento del biologico o delle campagne, assolutamente. Prima di me sono venute persone da cui ho imparato, che con l’esempio e l’apertura mostravano come fosse possibile vivere in quel modo(…).

Tutti gli occupanti si rendevano conto che si trattava di darsi all’agricoltura biologica, però molto spesso i poderi non avevano abbastanza terra. Per esempio, sui 25 della zona del Peglia, solo 5 o 6 possedevano un’estensione a seminativo adeguata. Io ce l’avevo, stavo a Fontanelle, a 700 metri di altitudine, e lì ho fatto le mie sperimentazioni. Ma non sono mai stato un agricoltore fatto e finito (…).  La mia esperienza è consistita nel mettersi alla prova. Non sono mai stato un grande agricoltore, in realtà, neanche quando me ne sono occupato, di agricoltura. A tutti i ragazzi che vogliono iniziare consiglierei di studiare, come per tutte le cose. Adesso gestisco solo un piccolo orto – che resta un grande piacere.

Però nel mio caso, forse la cosa più importante che ho imparato è cosa significhi fare il contadino, nel senso di cosa significhi questo lavoro dal punto di vista di coloro che della terra devono campare. E ho imparato, ovviamente, facendo tentativi e sbagliando. Compresi come fosse tanto più importante nel sud del mondo, che ospita una buona metà del genere umano, e che continua a dipendere dall’agricoltura. Mi misi nei loro panni. Viaggiare da quelle parti, del resto, dagli anni ’90, è poi diventato il mio lavoro.

Ma tornando al Peglia: quando la mia storia d’amore finisce cambio casa. Complessivamente sono rimasto lì 5 anni, dal 1979.

Nel 1984 mi viene offerto di accompagnare un gruppo di viaggiatori a Sri Lanka – lo avevo già fatto altre volte in India, Nepal, Thailandia. E lì trovo una mia strada; nel senso che viaggiare aveva un senso più compiuto perché mi divertivo, avevo grandi stimoli a scrivere, fotografare e con le persone, era quel che più mi piaceva. Ricordo però che, all’epoca dei miei primi viaggi nel sud del mondo, tanti contadini erano in miseria. Anni prima mi era rimasto impresso Paolo VI, il papa, quando dal suo balcone in Vaticano diceva che in India c’era la fame: era il 1966. Ma ancora molto dopo in Kerala, India (dove adesso vige come dappertutto un’agricoltura intensiva, sebbene accanto a poderi gestiti su piccola scala) incontrai un contadino con un appezzamento di terreno dove cresceva quattro spighe stentate, e diceva io qui non ci campo, è la miseria più nera. Ricordo bene, quel personaggio mi colpì molto.

Ma ancora sull’esperienza al Monte Peglia. L’agricoltura era un aspetto dello stare bene sulla terra, significava un rapporto dignitoso con tutto ciò che esiste. Aveva ed ha senso. Per me inoltre, cresciuto in città, e al mare, vivere in quel modo significava imparare cose che non conoscevo, molto lontane dalla mia formazione. A 17-18 anni, d’altra parte, prima di scegliere la campagna, ero piuttosto a disagio: non mi interessava né andare all’università né un lavoro qualsiasi. La spinta a stare sulla terra, e che lo si potesse fare in tanti, aveva anche degli aspetti di riscatto spirituale, psicologico, sociale, queste cose mi affascinavano (…).

Allargando lo sguardo c’erano poi tanti fermenti, in quegli anni. Tramite la frequentazione di AamTn venni a conoscenza dei Verdi in Germania, del loro messaggio, unico nel suo genere – oggi si parla tanto di ambiente a livello internazionale, ma i primi a farlo, a parlare di coscienza del limite, di nuovi paradigmi, furono i Grunen negli anni ’80.

Scrivere? Ho sempre scritto, ed allora in quelle campagne credo fossi l’unico che scriveva. Sulla nostra esperienza credo che vi sia poco altro, al di là del mio paio di articoli.  La mia India? Lì, ma anche in Thailandia e in Nepal, ho passato parecchi anni. D’altra parte tutti gli stimoli che ricevevo, in patria e all’estero, dalle campagne o dalle città, per me si saldavano in un unicum-si trattava di imparare da ogni cosa. Ma sì, ai tempi del Peglia il messaggio di Gandhi per me era molto importante. Ricordo di essermi commosso spesso volte leggendolo, e poi vedendo il film di Attemborough su di lui – anche se oggi quel film è legnoso, datato, vecchissimo.

Al Peglia c’erano anche dei momenti ludici, ma non li ricordo brillanti. Ci vedevamo per feste e incontri collettivi. Però in queste ultime di solito non mi trovavo bene, le trovavo improbabili, mi sentivo di solito fuori posto. Altri ci stavano meglio di me, ma io non legavo facilmente: sono sempre stato un intellettuale irrequieto, o forse ero solo ancora immaturo, e preferivo passare da una situazione all’altra. A me interessava scrivere, raccontarla e poi partire, è sempre stato così.

Contemporaneamente, comunque, ricordo il lavoro sulla terra. I grandi mazzi, la gran fatica del gestire l’orto ma soprattutto i campi con sistemi semplici. L’aver seminato ettari di grano, di orzo, di avena, di fagioli, usando un trattorino: un’epopea! (…). Eravamo 4 o 5, a Fontanelle, ma tra noi nessuno aveva le mani buone su tutta una serie di necessità. Viceversa, altri poderi potevano contare su persone molto, molto capaci a fare il falegname, il muratore. D’altra parte quando torni a casa alla sera e non hai il riscaldamento, non hai la corrente elettrica… era dura. Soprattutto d’inverno, era troppo freddo (…).

Ad un certo punto comunque, ero lì da 4 anni, mi misi in testa, con l’aiuto di Mario Cecchi, di andare in giro per fare una mappatura della nostra esperienza del Peglia. Riportata poi in Pane amore e fantasia, l’articolo per AamTn   [ vedi in sezione Documenti].

I limiti? In assenza di un’autentica autosufficienza, diventava obbligatorio andare a lavorare fuori. Lo facevano quasi tutti. L’autosufficienza era un mito, non la realtà delle cose. Nel migliore dei casi anche i migliori poderi la conseguivano solo parzialmente. Di questi limiti del nostro progetto, peraltro, mi rendevo conto anche allora. (…) Non ho mai avuto la passione della riserva indiana, ma è vero che sono stato molto utopista. Fino a che la vita non mi ha mostrato con chiarezza come alcune scelte non siano perseguibili, non siano realistiche, almeno in un dato contesto. D’altra parte, furono anni belli. C’era un clima di fondo, un’atmosfera… Nessuno steccato politico, sostituito da logiche libertarie. Tra parecchi di noi c’era cooperazione e amicizia, Mario o Giampaolo venivano a Fontanelle a cambiarmi un travetto del pavimento crollato, per dire, io andavo a dar loro una mano nei lavori. Io non sapevo fare quasi niente bene, ma ci mettevo sempre manovalanza, energia e disponibilità. Sapevo solo scrivere e parlare, in più avevo il furgone e infatti ero sempre in giro a dare una mano a chiunque (…)

Oggi penso che questa fu per la mia formazione un’esperienza fondamentale. Tanti errori, battaglie perse, però tutto quello che volevo fare l’ho fatto. Quantomeno ci ho provato. Il bilancio è molto positivo. Per me l’importante è sempre stato capire come le cose funzionano veramente (…), poi le cose stesse possono cambiare. Se la devo guardare in un’ottica sociale è stata una piccola seminagione di intenti. Sicuramente il vivere in campagna potrebbe essere ancora una soluzione con i mezzi che abbiamo oggi. Ma per una vera pienezza serve un maggiore senso della comunità tra coloro che scelgono questa strada, e non riscontro che questo senso esista, anche se il bisogno lo sentono tutti. Non mi pare che esistano dei presidi comunitari che funzionino veramente con la logica dell’autosufficienza, che si scambino le cose; anche se quelli di Granburrone dicono che da loro funziona così.

Per quanto riguarda il seme dell’agricoltura biologica invece sì, il seme fruttificò. Fu partendo dai percorsi di quegli anni che poi verranno scritte le prime leggisull’agricoltura biologica. Io stesso contribuii alla stesura della legge sull’agricoltura biologica qui in Liguria. Fu dall’86 in poi. A quel tempo stavano comparendo le cosiddette Liste Verdi [i Verdi si presentano per la prima volta ad una competizione politica nazionale in occasione delle elezioni politiche italiane del 1987]. E  nascevano da AamTn i coordinamenti città-campagna. Alcune regioni erano avanti su questo (…)

Conoscere quelli di AamTn a me regalò la necessaria prospettiva: non siamo soli, non siamo una riserva indiana. Siamo un movimento, pensai. Quella rivista costituiva una realtà piccola ma vivissima, socialmente la cosa più bella che abbia mai visto, il personale che diventa politico…Ma AamTn faceva tante cose: era il punto, lo snodo, dove diverse esperienze si incrociavano. Le loro feste-incontro, per esempio: bellissime.(…) Lì, l’idealità trovava una direzione, delle linee guida. Praticamente, queste feste cadevano durante solstizi ed equinozi, cioè i cambi di stagione. Di solito ci si trovava  presso un casale, o un parco, per 2-3 giorni. Si trattava di momenti collettivi, aperti a tutti, gratuiti, dove conveniva il popolo delle campagne e tanti interessati dalle città. Erano dei contenitori in cui potevi trovare di tutto, ma che disponevano di una regia, di contorni piuttosto chiari (…).  AamTn era questo; io in più col mio furgone facevo avanti e indietro con la città, cominciavo a scrivere, avevo una  vita molto piena di belle cose(…). E non è che dopo il 1984, dopo il mio primo viaggio di lavoro a Sri Lanka, smisi di occuparmene: negli anni seguenti collaborai alla stesura della legge sull’agricoltura biologica ligure, e mi appassionai al tema del naturale, approfondendo.

L’imprescindibilità dell’agricoltura è qualcosa che mi porto dietro, cerchiamo di introdurre ad essa le persone anche nei viaggi di turismo responsabile di RAM (che ormai da anni rappresentano il mio lavoro stabile, accanto alla scrittura).

Ho avuto una fase molto ideologica, nel periodo del Peglia e subito dopo. Ho fatto anche macrobiotica per un paio d’anni, e sono stato vegetariano per 5. Ma assai disordinatamente. Poi mi sono accorto che non stavo bene. Mi ci volle molto tempo per diventare adulto, per trovare maggiore equilibrio. Forse il peggior aspetto di quell’ideologia, una deriva che fortunatamente per me durò poco, era il timore di mangiare qualcosa pensando che potesse farti male (…); ma dentro ero più sano dicosì, e dopo quel periodo mi liberai di certi blocchi. Del resto, nessuno mi aveva mai imposto nulla. Non soggiacevo ai dettami di alcuna setta.

L’ecologia, nel senso di un rapporto semplice con la natura, restava un elemento determinante. Dell’ambiente sano te ne rendi conto forse di più quando non ce l’hai, quando vivi in città, ma soprattutto, quando la vivi male (…). Abitavo a Genova sopra Principe. Da bambino ero felice, spensierato, ma divenuto adulto mi sono sentito sempre più a disagio, quasi in colpa a vivere in città (…) stare in un appartamento era per me un elemento deteriore. Vivendo in campagna invece, almeno nel rapporto con ciò che mi circonda, mi sento in pace. E stare al Monte Peglia tra aria, luce, colori aveva un senso profondo. Il personale, appunto, era politico. Se ciò che fai tu, ragionavo, lo fanno anche gli altri, avremo un mondo più pulito.

In quegli anni ci accompagnava anche l’indignazione per le grandi catastrofi, gli inquinamenti: Bhopal, Seveso, e qui da noi in Liguria l’ACNA di Cengio, la Stoppani di Cogoleto, la Haven naufragata in mare ad Arenzano. Così poi dopo il Peglia ho fatto parte delle prime Liste Verdi, anche se era chiaro che per alcuni esistevano soprattutto i posizionamenti politici, di cui a me non importava nulla. Io al tempo ero solo un ragazzo. Ma oltre a AamTn , che rappresentava una componente molto sincera del movimento, in quegli anni c’erano altre imprese: la rivista La Nuova Ecologia, per esempio, organo della prima Legambiente, al tempo diretta da Paolo Gentiloni, per me rappresentò un punto di riferimento: cominciavo a studiare. Legambiente stessa nasceva in quegli anni, costituiva una delle anime forti del Movimento ecologista italiano. Io facevo il redattore di AamTn, gestivamo una redazione volante. Ogni mese o due chiudevamo il numero e ci vedevamo in un posto diverso, in 5 o 6, era bellissimo (…) In questo modo mi sono fatto le ossa, capitava di dover passare i pezzi di Alex Langer (…). Ero anch’io, come lui e tanti altri, nella Campagna Nord-Sud, per la cancellazione del debito dei paesi poveri.(…)

In Italia gli occupati in agricoltura sono una piccola percentuale della forza-lavoro. Ma se vai nel sud del mondo, dove pure la gente se ne va dalle campagne, trovi ancora società basate sull’agricoltura. Ed anche chi non vive più sui campi, tornanella stagione buona per il raccolto. Conosco società dove questo legame, nonostante i tira e molla con le città, non s’è spezzato.

Quindi si capisce perché i movimenti di liberazione dell’agricoltura, di sovranità sull’agricoltura vengano dal sud del mondo. Perché lì si tratta di esigenze chiare a tutti! Qui da noi l’agricoltura biologica è per quasi tutti un vezzo – non per tutti, chiaro, oggi sempre più giovani ne fanno un’occasione di lavoro. Ci può essere molta buona volontà, molta sincerità nell’occuparsi realmente di agricoltura ma dal punto di vista sociale noi in occidente comunque ce la caviamo, non ne abbiamo un disperato bisogno per vivere, disponiamo di uno zoccolo duro di benessere diffuso sul quale si può sempre fare riferimento.

Se invece prendi un diseredato del sud del mondo, hai a che fare con persone senza scelta. Per quello te le ritrovi sui barconi.

[estratto dall’intervista del 15/12/2018 – in archivio]