TERRA DEVASTATA
Pacifico Aina, già socio di un importante studio di architettura, conduce, insieme al figlio Michele, Cascina Dulcamara ( https://cascinadulcamara.it/ ) un’azienda agricola a produzione mista le cui origini risalgono alla fine degli anni ’70. La cascina si trova a Romentino (NO) ai confini del Parco del Ticino. L’azienda è certificata biologica dal 2010. Insieme ad altre due aziende (Az. Agricole: Una Garlanda di Rovasenda e Priorato di Trino Vercellese) ha fondato nel 2019 l’Associazione di Produttori Agricoli Polyculturae ( http://www.polyculturae.it/ ) che propone il marchio collettivo BIODIVERSITAS per promuovere il recupero e la tutela della biodiversità degli agro-ecosistemi.
Sollecitato da Massimo Ceriani a esprimersi sui temi della biodiversità, del cambiamento climatico e sulle prospettive di quell’agricoltura che vuole andare oltre il biologico, Pacifico gli ha scritto queste e-mail ( riportate qui fedelmente ) che costituiscono, nell’ambito di un discorso più vasto, una denuncia efficacissima dei disastri prodotti dall’agricoltura convenzionale nell’area risicola più importante d’Europa e tratteggiano alcuni percorsi per uscire dal vicolo cieco in cui ci ha condotti.
Pacifico Aina, Cascina Dulcamara, Romentino (NO)
Caro Massimo,
a mio parere la questione del “biologico” si sta trasformando in questione “biodiversità”. Ormai è chiaro a tutti che l’idea del biologico ha avuto enorme successo, tanto è che lo troviamo ovunque, ma proprio per questo è diventato fragile.
Da una parte il falso biologico (fatto in modo sempre più spregiudicato, vista l’assenza se non addirittura la complicità del sistema di certificazione di controllo) dall’altra la legislazione che lo contempla e che lascia spazio a diverse interpretazioni e in qualche misura alla “chimica”, lo rendono sempre più fragile. In questo gioco i protagonisti sono sicuramente i “convenzionali”, la grande distribuzione, le grandi ditte dell’agroindustria e non ultimi anche alcuni “duri e puri” produttori biologici.
Oggi il termine in voga è “biodiversità” e anche se relativamente nuovo è già in bocca a tutti soprattutto , memori del biologico, a chi di fatto lo avversa. E’ chiaro, ma non per tutti, che è l’azienda produttrice che deve possedere i requisiti di biodiversità. Infatti pensiamo a quanti pensano di interpretare questo termine “affittando” un pezzo di biodiversità dall’altra parte del mondo: in Amazzonia piuttosto che altrove. A mio parere deve essere l’azienda a tutelare ed aumentare la biodiversità ed è ovvio che un problema così complesso non può essere risolto da soli o con un tecnico certificatore sostanzialmente di documenti. Un processo del genere per l’enorme complessità dell’argomento deve essere affrontato scientificamente, minimo da docenti universitari.
Nel nostro piccolo ci è voluto un anno di monitoraggio con l’università di Milano per studiare la sola botanica, figuriamoci la fauna piuttosto che funghi, batteri, microorganismi del terreno ecc. Però appare sempre più chiaro il nesso strettissimo tra tutto questo “vivente” e noi stessi. (azienda biodiversa). Questo percorso è folle se si considera l’organizzazione dell’attuale società. La società fa esattamente il contrario: semplifica, divide, specializza, replica a dismisura. In questi giorni (faccio solo a titolo di esempio) le nostre aziende hanno piantato alberi, arbusti, hanno creato stagni, messo nidi artificiali… insomma si sono date da fare per lo meno per non perdere quel poco di biodiversità esistente. Ma come ho constatato il deserto della monocoltura è aumentato. Hanno disboscato rive intere dei torrenti, diserbato le strade ecc. tutte cose che non potevano essere fatte, vista la legislazione vigente, ma che tranquillamente si sono fatte, magari negli stessi comuni che hanno fatto convegni su come salvaguardare la natura….
A giugno faremo le visite in azienda. A guidare la visita è sempre l’università. Ma mi rendo conto che il messaggio ha bisogno di essere enormemente ampliato.
Dobbiamo pensarci…
aprile 2021
Qualche giorno fa, dopo un lunghissimo periodo di siccità sono arrivati due temporali devastanti.
Parlo prima della siccità. Come ben sai la nostra pianura è irrigua e l’acqua teoricamente non manca mai. Però anche quest’anno c’è stata una riduzione da parte del Consorzio irriguo del 38%. Ma per la verità per il frumento o altri cereali non ci sono stati problemi, così come per il riso. Qualche problema per il mais.
Tutto bene allora? Si, a condizione di avere un’azienda “normale”. Cioè cerealicola o risicola. Il nodo sta qui. L’azienda cerealicola, come si è evoluta nel tempo, non è più economicamente sostenibile. Me lo confermano i miei amici risicoltori, si sopravvive per la sola PAC. Anzi anche questa comincia a essere erosa dai costi crescenti e dai redditi sempre più decrescenti. Così qualcuno tenta di coltivare il girasole piuttosto che la colza (con grande gaudio dei cittadini fotografi per il paesaggio colorato). Non ti tedio su tutta la questione che è complessa. Mi soffermo solo su alcuni aspetti della insostenibilità diciamo ambientale.
Tralasciando per questa volta di descrivere i problemi legati alla perdita totale di biodiversità e alla gestione scellerata delle acque di risaia (vedi gli appelli per coltivare il riso in acqua e conservare la stessa nei periodi invernali) appare chiaro che questo deserto costituito dalle monocolture, che nega l’esistenza di qualsiasi pianta o arbusto o dislivello di terreno per kilometri e Kilometri è un moltiplicatore delle catastrofi. (si contano “corridoi” senza piante lunghi 17 km)
Un vecchio mi diceva ”il vento si infila tra i campi, senza alcun ostacolo e dove arriva spazza via tutto”.
Ed è proprio quello che sempre più spesso succede. Negli ultimi anni abbiamo assistito per la prima volta alla caduta di querce secolari, ciliegi ecc.
Nonostante questo fatto evidentissimo si continua a tagliare quel pochissimo verde rimasto sulle rogge, sui torrenti, sui canali, favorendo l’erosione delle sponde.
Non esistono più ostacoli, una volta si chiamavano siepi frangivento. Non esistono più luoghi di ombra, di umidità trattenuta. Quel pochissimo che sopravvive è spazzato via dai disseccanti. La terra è nuda. Niente piante, arbusti, erba ed il sole riscalda e surriscalda una terra nuda e sempre più sterile.
Torno un attimo indietro per dirti che chi, come noi e ahimè poche altre aziende, ha scelto di coltivare anche altro, ortaggi e frutta alla ricerca della sostenibilità economica e ambientale ha sofferto moltissimo questa siccità.
Nonostante l’acqua del nostro pozzo, gli impianti di irrigazione e sub-irrigazione che abbiamo attuato, l’irraggiamento solare, la calura e non ultimo la deriva dei diserbi chimici dei vicini, le coltivazioni sono stentate.
Anche le cipolle, che non gradiscono l’acqua, erano in affanno.
Ma soprattutto tutti i nuovi impianti di alberi di noce e nocciolo e i 170 alberi diversi che quest’anno abbiamo piantato (con le risorse dei nostri clienti per il recupero della CO2) hanno sofferto tantissimo.
Pensiamo di aver perso la quasi totalità del nuovo impianto di 70 noci e metà delle circa 100 nocciole e tutti gli alberi.
Anche con irrigazioni di soccorso, molti alberi dopo aver germogliato sono seccati.
Sospettiamo anche di qualche diserbo sfuggito, oltre ai soliti vandali che sradicano i giovani alberi per dispetto.
Quantificare il danno è difficile e doloroso, perché se una coltivazione annuale può andar male per un albero la cosa è diversa dal punto di vista economico e ambientale.
Pensa cosa significa preparare di nuovo il terreno, procurarsi gli alberi, piantarli, sostenerli con tutori e aspettare un altro anno che crescano. Un albero di noce comincerà a produrre dopo 7 anni, un nocciolo dopo 5, un albero per assorbire 20 kg di CO2 almeno 20 anni.
Senza contare che sotto a questi alberi erano state seminate erbe mellifere per le nostre api. Tutto secco.
Ma non voglio fare il contadino che si lamenta, voglio solo far notare come il cambiamento climatico, in questo caso siccità prolungate, aggravano enormemente i problemi proprio e soprattutto con chi vuole cambiare rotta.
Chi invece contribuisce più o meno coscientemente a favorire questo cambiamento non ne avrà gran danno. Questi sono ben rappresentati laddove si decide. I contributi PAC saranno garantiti.
Mi ricordo un agricoltore che molti anni fa nel vercellese mi diceva ”io non mi preoccupo se non finanziano più il riso finanzieranno i pioppi ..”
Ma, Massimo, hai visto qualche istituzione dire qualcosa di diverso?
Non è finita. Dopo la siccità ecco i temporali violenti. Non abbiamo avuto la grandine ma il vento forte. Così due alberi di noce adulti (e con quelli del precedente vento salgono a 15) sono caduti, insieme a querce centenarie e ciliegi.
Pace per le querce e i ciliegi selvatici ma gli alberi di noci del 1993 di 28 anni, in piena produttività sono una sberla.
Il danno è difficilmente calcolabile se pensiamo che andranno eliminate e ripiantate e che daranno gli stessi frutti appunto tra almeno 20 anni!
Così guardo il cielo sempre bello e guardo questa sterminata pianura sempre più nuda.
Guardo i miei vicini felici per aver acquistato un trattore di ultima generazione con guida satellitare (con finanziamento agevolato).
Guardo i meccanici felici di aver venduto un trattore di ultima generazione. (con finanziamento agevolato)
Guardo il magazzino delle sementi felice di aver venduto l’ultimo seme per una super produzione.
Guardo lo stesso magazzino felice di aver venduto l’ultimo concime per una super produzione.
Guardo lo stesso magazzino felice di aver venduto l’ultimo diserbante per una super produzione.
Guardo lo stesso magazzino felice di ritirare l’ultimo raccolto “purtroppo di super produzione” al prezzo fissato da lui.
Mi assale l’angoscia. Per un po’. Poi sotto lo sguardo severo di una raganella gli sussurro “non ti preoccupare domani ricominceremo daccapo”.
P.S. Evito la Regione e la Coldiretti perché poveretti devono “tirare a campare”.
Inizi agosto 2021
Cosa si può fare di concreto nelle aziende agricole.
In primo luogo, secondo me, bisogna aggregarsi. Condividere problemi e prospettive per aiutarsi a vicenda.
Un’azienda singola dispone solo di alcuni prodotti, mentre l’offerta per essere efficace deve essere il più completa possibile. Al cittadino deve arrivare il messaggio, e la concretezza, che è possibile fare tanto e di più in modo cosiddetto e abusato “sostenibile”.
Questo significa anche attivare sinergie (trasformazione di prodotti) se non condividere in alcuni casi le stesse attrezzature.
Poi, analizzando la propria azienda e il contesto in cui è inserita (parco naturale piuttosto che città) progettare un riassetto che tenga conto anche della storia dei luoghi (cultura – di cui i cittadini sempre più hanno bisogno) e semplicemente ricostruire, riambientare, rinaturalizzare una parte. Qualcuno, credo anche la UE in alcuni programmi di sostegno, può pensare al 10% della propria superficie o altro.
Faccio alcuni esempi partendo dalla nostra esperienza:
Noi beneficiamo (al contrario di chi pensa che siamo penalizzati) dalla presenza di un Parco e quindi dei suoi fruitori. Confiniamo con un’area archeologica e quindi con una “storia” che risale a 2.700 anni fa che spiega chi eravamo ai tanti che ricercano le proprie origini.
Guardando le mappe e le foto aeree del primo dopoguerra si vedono le trame delle bonifiche avvenute dopo la realizzazione del canale Cavour, scoprendo che i canali e le particelle di terreno erano circondati da alberi. Bisogna pensare che allora la legna era un bene prezioso, così come i confini, così come l’ombra sulle strade o semplicemente per la sosta con gli animali da traino.
I filari erano di ogni specie, quella adatta per fare attrezzi – manici, rastrelli, ruote, ecc.(frassino) per fare legna, per dare cibo agli animali o per i bachi da seta (gelso) per gli uomini (pero, ciliegie). Così come le coltivazioni che prevedevano circa il 25% coltivato a riso, il resto era erba per il fieno, mais, grano ecc.
Insomma una varietà complessa di coltivazioni che però ha permesso il raddoppio della popolazione nel giro di una generazione o poco più. (l’Inviato del RE scriveva che i numerosi giovani di queste terre erano alti e robusti e quindi adatti alle guerre di Sua Maestà!)
Senza dilungarmi oltre, oggi invece è tutto diverso ma molto ingiustificabile se non nella profonda ignoranza che contraddistingue molti agricoltori e simili. Ti faccio sorridere ma in una famiglia famosa per l’imprenditoria agricola della zona mi dicevano “quando ad un contadino nasceva il primo figlio lo pensavano Dottore, il secondo figlio ingegnere, il terzo, quello non del tutto normale, lo tenevano in famiglia a condurre l’azienda”. Questo per generazioni, così a condurre le aziende erano sempre i “peggiori!”
Al di là della monocoltura favorita dagli aiuti economici della UE e dalle lobby dei trasformatori, non si capisce perché vengono abbattuti gli alberi su tutta la rete irrigua e sulle strade: la scusa è per favorire la manutenzione con le macchine ma in realtà così causano franamenti delle rive, con conseguente ridimensionamento delle strade, riscaldamento dell’acqua ed eliminazione di habitat naturali di immenso pregio. In una discussione che ci ha coinvolto abbiamo ricevuto con stupore questa risposta “dobbiamo dare del lavoro a degli uomini, altrimenti li dobbiamo licenziare”.
Mi è venuto in mente un tale che una sera in una pizzeria si lamentava del poco lavoro che aveva, sollevando la solidarietà di tutti i presenti: alla domanda di che lavoro svolgesse, disse “il becchino!”. A questo punto tutti lo mandarono a quel paese!
Eppure, gli enti di bonifica, che dovrebbero rappresentare la parte più lungimirante del settore hanno speculato su ogni cosa, vendendo la ghiaia di scavo dei canali, la legna, i canali come fognatura ecc. o rimettendo in funzione gli impianti idroelettrici solo per sfruttarne i contributi.
Insomma, tutto ciò che portava soldi in cassa, alla faccia di una visione più ampia e strategica o semplicemente per una più “pubblica utilità”.
Tornando semplicemente al tema, cosa si può fare:
Recuperare in primis l’ambiente naturale con scientificità. Allearsi con Istituti od Università per studiare e dimostrare la complessità dei processi naturali che però possano portare ad un benessere diffuso.
Non solo come ambiente ricostruito naturalmente (mi viene in mente la banalità dei giardini e delle aree pubbliche, progettati e misurati per contenere il costo di manutenzione – sob!) per il benessere psicologico del cittadino, ma come elemento rigeneratore di nuove tecniche di coltivazione ed opportunità di mercato. Esempio: quanti frutti e bacche ricchissime di vitamine od altro possono essere coltivate? Oggi le marmellate sono solo di pochi frutti ma il corniolo, le more, il pero spinoso o il melo selvatico ed altro possono essere nuove opportunità.
Senza parlare di tutta la lotta biologica che può giovare alle coltivazioni (pensiamo agli insetti predatori) e di tutte le specie adatte solo a quel luogo e che hanno qualche singolarità interessante.
Penso ai molti mais e alle infinite polente che si possono fare, così come i frumenti adatti agli usi più diversi.
Qui si pone il problema che le quantità in gioco sono minime rispetto alla richiesta dell’industria alimentare, per questo bisogna ingegnarsi in proprio o in associazione per trasformare il prodotto e farlo arrivare al consumatore.
Penso che la Grande Distribuzione strizzi sempre più l’occhio al biologico perché può rappresentare un affare, come qualsiasi altro affare però. E “rubi” volentieri parole e concetti che diventano così alla lunga privi di significato.
Eppure non sono così intelligenti: quando leggo “vendita sotto costo” mi si forma la visione dell’Amministratore Delegato che si percuote gli zebedei! Ma come è possibile che si rinunci al guadagno…! Oppure tutta la faticosa rincorsa per stare al passo con gli argomenti del giorno, dal surriscaldamento alla plastica, per poi fornirti le solite ricette con annesso controsenso “buoni come quelli della nonna” “serviti come al banco” ecc. per poi fornirti buste in plastica con 80 gr di prosciutto e tra una sottilissima fettina e l’altra, altra plastica di separazione.
Le mie riflessioni sono ridotte a pochi cereali e qualche frutto, penso che però il problema più grave siano gli allevamenti. Non ho esperienza e quindi non posso suggerire nulla se non il sempre più diffuso disagio nel vedere questi terrificanti allevamenti. Mi chiedo molte volte se prima o poi io stesso possa rinunciare alla carne o quantomeno ridurne l’uso.
Ho amici che fanno fieno, fino a ieri considerato l’unico cibo per le stagioni invernali, e che non riescono più a venderlo. Non c’è più richiesta. Mangimi, insilati ed altro stanno stravolgendo il settore.
Qualche amico sta rinunciando al prato per non si sa cosa. Penso alle marcite, ai fiori, alle api …
a quei dolci occhi delle mucche che guardano sempre più spaventate robot spandi-mangime…
Basta così per ora.
Ora sono arrivati i Tritoni nella nostra azienda. Belli con le loro branchiette rosse…tra un mese lasceranno lo stagno che gli abbiamo preparato e tra due anni aspetteremo il loro ritorno.
Loro insieme a tanti altri anfibi sono spariti perché contadini asciugano le risaie più volte per diserbare o per far accestire il riso oppure lo coltivano semplicemente in asciutta.
Esistono incentivi per non asciugare le risaie oppure per fare dei fossi profondi dove rimane l’acqua, ma che vuoi sono quisquilie per questi risaioli con il suv ultimo modello.
Invece di vergognarsi del loro di fatto fallimento si ripropongono per ulteriori aiuti statali.
La nostra terra è considerata area umida dalla UE e non so con quale coraggio si possa sostenere che questo deserto di riso possa essere ideale per i molti uccelli ed animali che storicamente vi abitavano.
Penso che una volta, un centinaio di anni fa solo, si faceva la pipì nel pitale e poi con noncuranza si buttava al mattino tutto in strada (Dickens). Oggi asciugano le risaie e sono passati cento anni, dobbiamo fare in modo che anche loro la smettano di distruggere…
Fine agosto 2021