Claude Aubert e il biologico industriale
Claude Aubert è una delle persone che più hanno contribuito allo sviluppo del biologico, non soltanto in Francia. Ingegnere agronomo laureato nel 1959 all’INA di Parigi, dopo un’importante esperienza di lavoro in Africa, nel 1965 entra in contatto con Nature et Progrès, l’associazione nata nel 1964 per promuovere l’agricoltura biologica, ancora oggi attiva. Nel 1969, forte della sua esperienza diretta di orticoltore biologico e alla sua conoscenza delle esperienze internzionali più significative, pubblica il libro “L’agriculture biologique, pourquoi e comment la pratiquer” che ebbe larga diffusione ed è stato a lungo rieditato. Nel 1970 diventa segretario generale di Nature et Progrès che nel 1972 organizza a Versailles il congresso internazionale che da vita all’Ifoam ( International Federation of Organic Agriculture Movements). Nel 1979 fonda la cooperativa Terre Vivante che pubblica una rivista, varie collane di libri e svolge altre importanti funzioni per la diffusione della cultura ecologica. Già allora la sua attività di studioso e di pubblicista, che continua ancora oggi, era molto sviluppata. Nell’ambito della sua più generale attività di promozione del biologico bisogna ricordare anche il ruolo da lui svolto in Italia, in particolare in Toscana, negli anni in cui prese forza anche qui da noi il movimento biologico. A testimonianza di ciò ci sembra opportuno pubblicare ( nella sezione Documenti ) la sua relazione “I principi fondamentali dell’agricoltura biologica” al convegno “L’agricoltura alle soglie del 2000” tenutosi presso la facoltà di Agraria di Milano il 28 maggio 1982.
Ma Claude Aubert non è solo un testimone privilegiato di 60 anni di storia del biologico, è anche uno studioso attento alle più recenti acquisizioni scientifiche e un divulgatore efficacissimo che ancora oggi, a 85 anni, continua a essere un punto di riferimento. Siamo perciò lieti di riportare qui di seguito, tratta da france culture, una sua recente intervista rilasciata in occasione del congresso di Rennes dell’Ifoam dal titolo categorico – Claude Aubert: “Le pire ennemi de la bio, c’est la bio industrielle”. L’intervista ricostruisce il percorso che ha condotto Aubert a diventare un pioniere del biologico e racconta in modo sintetico ma efficace le resistenze che ha dovuto superare il movimento del biologico in Francia, peraltro non dissimili da quelle incontrate qui da noi. Ma quando viene a parlare dell’oggi salta agli occhi l’affermazione che è stata posta a titolo dell’intervista.
Non sappiamo se un’affermazione così tranchant sia una semplificazione indotta della necessità di esprimere in breve ragionamenti complessi o se sia invece una riformulazione a effetto degli stessi a opera della sua intervistatrice. Abbiamo provato a cercare una risposta nel libro “Le pari fou du bio” che Aubert ha pubblicato nel 2020 e che, pur focalizzato sull’esperienza francese, affronta argomenti di carattere generale che meritano di essere considerati anche qui da noi (Claude Aubert, Le pari fou du bio, ed. Terre vivante, Mens, France, février 2020).
Nel libro (cap. VI in particolare) Aubert distingue due tipi di agricoltura biologica. C’è una concezione del biologico, puramente tecnica, che si limita a eliminare i prodotti chimici di sintesi (concimi, diserbanti, pesticidi e ogni altro additivo), ma che pratica la monocultura e l’allevamento intensivo per mercati globalizzati e non si preoccupa della biodiversità, nè delle condizioni di lavoro, nè delle coseguenze delle filiere lunghe. Questo biologico non è quello che intendevano i suoi promotori delle origini e cioè un’agricoltura bio di piccola scala, diversificata, prevalentemente locale, attenta alla fertilità del suolo, al benessere animale e, non ultimo, a quello dei produttori. Una concezione, ecologica e etica, che era allora implicita perchè veniva data per scontata. Ma allora, si chiede Aubert, bisogna rifiutare il bio cosiddetto “industriale”? La risposta che si da è assai più articolata e pragmatica di quello che si potrebbe arguire dal titolo del capitolo: La mortifére industrialisation de l’agriculture biologique. Scrive Aubert: ” …bisogna combatterne le deviazioni [del bio industriale] perchè non prende in considerazione aspetti essenziali dell’agricoltura biologica come la biodiversità, l’emissione di gas serra e i criteri sociali. Nonostante ciò presenta, rispetto al convenzionale, il vantaggio di mettere fine all’inquinamento ambientale dovuto ai pesticidi e agli apporti eccessivi di azoto e di assicurare agli animali d’allevamento migliori condizioni di vita. Inoltre rifiutare, come fanno certuni, la commercializzazione dei prodotti bio da parte delle Grande Distribuzione non fa che limitare gli sbocchi per questi prodotti, e dunque il numero di agricoltori che scelgono questo modo di produzione. Sta ai consumatori di scegliere un’altra concezione del bio optando per le diverse forme di vendita diretta, approvvigionandosi nei negozi specializzati e dando la preferenza, quando possibile, a uno dei marchi privati che ho citato in precedenza [ Nature et Progrès, Bio Cohérence, Demeter – per la Francia]. Si può d’altra parte osservare che molti consumatori che si avvicinano al bio cominciano a farlo nella Grande Distribuzione, pensando così di ridurre il costo della loro spesa alimentare, ma poi passano progressivamente ai negozi specializzati e ai circuiti corti. Modificando le loro abitudini alimentari scoprono al tempo stesso che diminuisce anche la loro budget alimentare.”.
Con ciò ci sembra che in definitiva quel che Aubert vuol dire sia che non serve a molto deplorare l’industrializzazione del bio ma che invece convenga impegnarsi per andare oltre la certificazione biologica europea: un tema all’ordine del giorno anche qui da noi.
Claude Aubert: “Il peggior nemico del biologico, è il biologico industriale”
Anne-Laure Chouin / Settembre 2021
Per Claude Aubert, ingegnere agronomo pioniere dell’agricoltura biologica, l’agricoltura in generale e il biologico in particolare sono ad una svolta. Si confida nel momento in cui la Francia accoglie per la prima volta il Congresso Mondiale dell’agricoltura biologica a Rennes (dal 6 all’11 settembre). Dai primi balbettii dell’agricoltura biologica in Francia al suo slancio sul mercato del consumo alimentare, sono passati quarant’anni. Quarant’anni durante i quali dei pionieri hanno tentato di far valere l’importanza di un’agricoltura rispettosa del suolo e della biodiversità. Claude Aubert è fra questi: preso per una tipo originale all’inizio, è oggi considerato come un precursore. Questo ingegnere agronomo ha dedicato la sua vita a promuovere l’agricoltura biologica su basi scientifiche. In pensione, continua a scrivere dei libri su questo argomento. E ritiene che il biologico, come si dice, è oggi ad una svolta della sua storia.
Quale percorso l’ha condotto ad interessarsi dell’agricoltura biologica quando essa era solo agli inizi ?
Sono di formazione agronomo, ho quindi fatto “Agro” come si diceva all’epoca (una scuola per ingegneri agronomi NDLR). Completati i miei studi, alla fine degli anni 50, ho in seguito lavorato per una società di ricerche (la SEDES), che si occupava di sviluppo agricolo in Africa. Per tre anni, ho quindi lavorato su progetti africani e mi sono presto posto delle domande. Sapevo che in condizioni tropicali i suoli maltrattati perdevano molto rapidamente il loro contenuto di materia organica. Ora, era il momento in cui, in Africa, si cominciava a raccomandare caldamente i fertilizzanti chimici, l’aratura e i pesticidi. Vedendone gli effetti – perdita del contenuto di materia organica dei suoli – mi sono detto che, manifestamente, quello che mi avevano insegnato durante i miei studi, non funzionava molto bene nei paesi tropicali. Poi mi sono chiesto: tutto questo funziona bene da noi, nei paesi temperati? Bisogna sapere che per distruggere un suolo in condizioni tropicali, è sufficiente qualche anno. In condizioni temperate, occorre tutta una generazione. Ma all’epoca dei 30 anni gloriosi [1945-1973], nei quali si scopriva l’utilizzo generalizzato dei pesticidi e dei fertilizzanti, quando le rese agricole venivano moltiplicate, non si poteva o non si voleva accorgersene. Era tutto meraviglioso.
All’epoca quindi non c’era praticamente agricoltura biologica in Francia, salvo due associazioni di cui una si chiamava Nature et Progrès. L’ho conosciuta del tutto per caso tramite un agricoltore di cui ho dimenticato il nome. Mi ha chiesto se conoscevo l’agricoltura biologica, io non ne avevo mai sentito parlare. Ma dato che mi ponevo seriamente delle domande su quello che mi avevano insegnato, ho voluto capire di che cosa si trattava. Mi sembrava interessante ma io sono prudente per natura, quindi sono partito per i paesi che la praticavano e che avevano 10 anni di anticipo su di noi: la Germania, l’Inghilterra e la Svizzera. Ho fatto il mio piccolo giro d’Europa incontrando associazioni e agricoltori. E mi sono rapidamente convinto che era la strada buona. Ho lasciato perdere la mia società di ricerche e mi sono impegnato a fondo in Nature et Progrès.
Qual era stato il percorso di questi agricoltori che praticavano già l’agricoltura biologica?
All’epoca, esistevano già due modi di vedere le cose: forse avete sentito parlare dell’organizzazione Lemaire-Boucher, la primissima organizzazione che ha promosso l’agricoltura biologica in Francia. Questa organizzazione aveva un’ottica commerciale, vendeva in particolare dei fertilizzanti organici.
E poi c’era un piccolo gruppo di agricoltori che facevano parte della Soil Association , un’associazione britannica che aveva più esperienza. In ogni caso, buona parte degli agricoltori che hanno fatto la conversione in quegli anni, lo hanno fatto perché constatavano che i loro animali avevano sempre di più dei problemi di salute. E’ attraverso la salute del loro bestiame che si sono convinti che quello che gli avevano insegnato non funzionava. Il resto, cioè l’impatto dei pesticidi e fertilizzanti chimici sulla salute e sull’ambiente è venuto dopo.
Come definirebbe oggi ciò che dev’essere l’agricoltura biologica ?
Due elementi la definiscono in maniera negativa, due aspetti fondamentali del disciplinare: niente pesticidi e niente fertilizzanti chimici. Ma la base della base, quella che ci hanno trasmesso i pionieri che hanno iniziato a rifletterci già dal periodo fra le due guerre, è il suolo. Tutto viene dal suolo. Ogni agricoltura degna di questo nome dovrebbe partire dalla conservazione della fertilità del suolo. Del resto, sono questi pionieri che hanno inventato il compostaggio per esempio. Oggi, questa base resta fondamentale: dal suolo dipende la salute delle piante, degli uomini e degli animali. Oggi, ciò ha condotto a queste regole che possono sembrare un po’ arbitrarie: nessun pesticida chimico e nessun fertilizzante chimico. Il primo disciplinare del biologico secondo questi principi è stato scritto dagli Inglesi. E in seguito ha ispirato tutti gli altri.
Ritorniamo al suo percorso dopo la “conversione” se così si può dire: per anni, lei si è dedicato a promuovere il biologico ……
Sì. Da una parte, ho iniziato un’attività di consulenza per gli agricoltori che desideravano passare al biologico. Dall’altra, ho operato attraverso Nature et Progrès per informare il grande pubblico, agricoltori e soprattutto consumatori. All’epoca, il presidente di Nature et Progrès era riuscito, pur non avendo soldi, ad affittare il Palais des Congrès di Parigi per organizzare un grande congresso, che ha segnato i nostri inizi mediatici. E’ stato nel 1974 credo, e è in quel periodo che si è iniziato a parlare di noi sulla stampa e a suscitare un sempre maggiore interesse. Interesse benevolo dell’opinione pubblica, ma interesse assai critico della professione.
Come eravate percepiti all’epoca dall’ambiente agricolo e dagli organismi di ricerca agronomica?
Come degli sprovveduti, degli idioti, delle persone che volevano ritornare all’agricoltura del secolo scorso. Veramente, senza nessuna sfumatura. Non era neanche il caso di discuterne, in particolare presso l’ INRA (Institut National de la Recherche Agronomique).Mi ricordo che dopo il 1968 ero invitato nelle aule magne dagli studenti di agraria, che apprezzavano molto tutto quello che era alternativo, dato che noi contestavamo il modello agricolo dominante. Non c’era mai un professore in sala. Uno o due volte qualcuno di loro mi veniva a dire “Allora M.Aubert, abbiamo marinato i corsi a Agraria?” oppure “Avete deciso quale parte della popolazione francese morirà di fame quando il vostro sistema sarà adottato?”. Eravamo a questi livelli. Mi ricordo molto bene che, molto più tardi, quando l’Inra ha iniziato ad interessarsi e a studiare l’agricoltura biologica, ho chiesto loro perché invece di criticare non erano venuti a vedere sul campo quello che accadeva, perché non avevano fatto delle prove comparative? Mi hanno risposto che si pensava che il biologico fosse una moda e si supponeva sarebbe passata. Non è passata, fortunatamente, ma l’Inra ha messo molto tempo ad interessarsene seriamente. Il biologico ha iniziato a svilupparsi fortemente negli anni 90, trent’anni dopo gli esordi. Quel che è sicuro in ogni caso, è che noi eravamo considerati degli stravaganti.
Molti pensano ancora, come all’epoca, che l’agricoltura biologica non è in grado di nutrire tutta la popolazione di un paese come la Francia.
Sì, perché le rese nel biologico sono più basse, e lo sono sempre del resto, benché oggi non sia più vero per certe colture. Ma il calcolo matematico che non si produrrebbe a sufficienza per nutrire una popolazione è sbagliato, come dimostrato oggi da numerosi studi apparsi di recente. Ma bisogna ritornare a quel contesto: all’epoca, le rese in tutti campi, in particolare nell’agricoltura, erano moltiplicate per quattro. Ci si era messi a esportare molto e l’obiezione era anche che con l’agricoltura biologica non si sarebbe più potuto esportare. Ho conosciuto dei direttori di ricerca che hanno passato il loro tempo a dimostrare che l’agricoltura biologica non presentava nessun interesse, che i prodotti non erano di qualità migliore, ecc. All’epoca, per sfortuna, non si avevano molti elementi per provare che si sbagliavano.
Il fatto è che trent’anni dopo l’agricoltura biologica esiste ancora e soprattutto, ha dimostrato di avere dei risultati interessanti. Il biologico ha trovato il suo posto negli istituti di ricerca che lo esaminano in modo altrettanto rigoroso che l’agricoltura convenzionale, e si è visto che poggia su basi scientifiche solide.
Su questo punto il suo ruolo è stato determinante …..
Determinante non so, ma significativo sì. Nel 1972, ho pubblicato un piccolo libro intitolato “L’agricoltura biologica, perché e come praticarla”. Aveva per obiettivo precisamente di dimostrare le basi scientifiche del biologico. Molte persone che incontro oggi mi dicono che è grazie a questo libro se loro hanno scoperto l’agricoltura biologica. Ho provato a spiegare per esempio perché e come questa agricoltura faceva a meno di azoto di sintesi ma trovava altre fonti di azoto naturali per svilupparsi. Il fatto di spiegarlo razionalmente e scientificamente ha aiutato molto.
Oggi, il biologico è in pieno sviluppo, sia come consumo e che come produzione: è perché l’agricoltura convenzionale ha mostrato i suoi limiti ?
Ci sono due fenomeni paralleli: da un lato, i dati scientifici che provano l’importanza dell’agricoltura biologica per la salute, per l’ambiente e per il mantenimento della fertilità del suolo, si sono accumulati. Dall’altro, anche le prove degli effetti catastrofici dell’agricoltura convenzionale si sono accumulate. E’ la somma di queste due accumulazioni che ha permesso al biologico di svilupparsi e di essere preso seriamente, anche se è ancora ben lontano dall’essere dominante. E poi ci sono questi consumatori che accettano di pagare più caro i prodotti provenienti da questa agricoltura più rispettosa del suolo. Sono loro che trainano lo sviluppo del biologico.
Nel momento in cui la Francia accoglie il 20° Congresso Mondiale del Biologico, lei direbbe che la vostra battaglia è vinta?
Innanzitutto siamo riusciti a dimostrare l’importanza di questa agricoltura. Ma niente è acquisito sul piano del consumo e della produzione poiché i prodotti biologici, anche se si sviluppano fortemente, rappresentano sempre una piccola parte dei prodotti consumati. E poi il biologico resta un affare di paesi ricchi, anche se i paesi del Sud la praticano sempre di più, ma non abbastanza. In breve, l’agricoltura industriale resta dominante.
Quali sono le sfide più importanti che deve affrontare oggi questa agricoltura biologica ?
In termini generali, l’agricoltura è a una svolta fondamentale della sua storia: in certi settori dell’agricoltura convenzionale, le rese non solo non aumentano più ma cominciano a diminuire, gli effetti del riscaldamento climatico sono manifesti, in breve, è necessario fare delle scelte. Ma la situazione è complicata. In particolare, secondo me, perché una parte dell’agricoltura biologica è stata sviata: essa è rimasta biologica nel disciplinare, ma si è industrializzata nei suoi principi. Dimenticando quello che costituiva la base dell’agricoltura biologica: una certa rotazione delle colture, della biodiversità nei campi, delle azienda agricole con policoltura, bestiame, ecc. Oggi, una parte degli agricoltori biologici hanno adottato degli schemi convenzionali (monocoltura per esempio). Ciò fa si che essa sia mal considerata da altri agricoltori che stimano che sia meglio, per esempio, fare un’agricoltura di conservazione del suolo (ACS), e che sia questo il futuro e non il biologico. In poche parole, io penso che oggi il peggior nemico del biologico sia il biologico industriale. Un’agricoltura certamente biologica, ma non sostenibile.
Lei non è il solo a deplorare questo fenomeno. Che cosa bisogna fare secondo lei ? Quali strumenti utilizzare ?
Bisognerebbe forse migliorare il disciplinare dell’agricoltura biologica. Oggi per esempio, non è compresa la biodiversità delle colture. E’ del tutto aberrante. All’epoca, questo non era necessario perché tutti gli agricoltori del biologico avevano fattorie con policoltura e bestiame, cosa che determinava naturalmente una biodiversità. Ma quando questo biologico ha iniziato a specializzarsi, tutto questo è sparito. E cambiare questo disciplinare oggi per 27 paesi non è facile. Altro problema importante secondo me: si è finito per separare completamente l’agricoltura dal suo obiettivo primario che è l’alimentazione. In questi ultimi anni diversi scenari hanno dimostrato a livello europeo che l’agricoltura biologica può assolutamente nutrire l’Europa, a una condizione: dimezzare il nostro consumo di prodotti animali, e in particolare di carne. Fino a quando non si comprenderà che bisogna cambiare le nostre abitudini alimentari – attenzione non parlo né di vegetarianesimo né di veganesimo, per me consumare la carne di manzo per esempio, è molto importante – ma fino a quando non si comprenderà che bisogna smettere di mangiare carne ogni giorno, non si potrà mai generalizzare l’agricoltura biologica. Abbiamo preso delle abitudini alimentari disconnesse dalle possibilità del nostro suolo. L’informazione comincia a farsi strada, specialmente tramite i programmi Nutrition Santé, che raccomandano per esempio nel loro ultimo aggiornamento, di mangiare più cereali. Ma la maggioranza non è ancora convinta.