La Pace, l’Ucraina e l’agricoltura

Marzo 14, 2022 6 Di storiedelbio

Chi conosce la storia del movimento biologico in Italia sa che per tutti i protagonisti delle origini, anche se di differenti estrazioni culturali, la pace era un valore prioritario. Del resto erano ancora recemti gli echi del movimento dei figli dei fiori e delle lotte contro la guerra del Vietnam. Con ancor maggior evidenza la non violenza, il pacifismo, l’etica gandhiana sono stati in quegli anni l’orizzonte che ha connotato molte situazioni di ritorno alla terra, prima ancora che la scelta di praticare un’agricoltura più rispettosa della natura. Da allora il rifiuto della guerra come forma di risoluzione delle controversie internazionali (come prescrive la nostra Costituzione) è diventato, anche grazie a quei giovani, senso comune. Anche perchè il processo di integrazione europea, pur con tutti i suoi limiti, ha concretamente mostrato come sia possibile superare quelle rivalità nazionali che avevano prodotto le due guerre mondiali. Dopo la caduta del muro di Berlino ci siamo cullati nell’illusione che la guerra in Europa fosse ormai impossibile, che la logica dei blocchi fosse superata, che la minaccia atomica fosse un retaggio del passato. Persino le sanguinose guerre seguite alla dissoluzione della Jugoslavia sono state presto rimosse.

Così ci siamo trovati tutti increduli e confusi di fronte al precipitare della crisi Ucraina. Ma il desiderio di pace non può significare disarmo morale. Come potremmo non sostenere con tutti i mezzi possibili la resistenza di quel popolo senza rinnegare tutto quello che abbiamo detto a difesa della resistenza dei popoli contro l’imperialismo americano? Come possiamo consentire che, nel cuore dell’Europa, la Russia faccia quello che è stato rimproverato al governo americano di fare in altre zone del mondo? Come possiamo accettare che chiunque detenga l’arma nucleare possa pretendere la sottomissione ai suoi voleri? Come possiamo dimenticare che la dignità e l’onore del popolo italiano furono salvati dai Partigiani, armi in pugno, contro l’invasore nazista e i suoi servi repubblichini?

Ma tra i motivi di inquietudine c’è anche qualcos’altro, che riguarda da vicino le nostre prospettive future. Non ci riferiamo tanto alle pur gravi difficoltà economiche causate nell’immediato dalla guerra e agli effetti sul nostro stile di vita, quanto all’impatto su scelte che ci condizioneranno per molti anni a venire. L’attacco del governo russo alla convivenza pacifica rischia di riportarci indietro di decenni e di farci rimettere in discussione scelte e conquiste faticosamente maturate nel corso degli anni. In nome dell’emergenza rischiamo non solo di tornare per un bel po’ al carbone e al gas, ma anche di piazzare ovunque generatori eolici e pannelli fotovoltaici senza alcun riguardo per la salvaguardia del territorio, del paesaggio e della produzione agricola. Ci auguriamo che l’urgenza di emanciparci dal gas russo non impedisca di trovare quegli accorgimenti che meglio possano limitare i danni a un patrimonio storico, artistico e naturale non riproducibile. E certo l’uso indiscriminato del termine nimby contro qualsiasi obiezione non fa ben sperare.

Per quanto riguarda più specificamente l’agricoltura, rischiamo di tornare a una politica agricola volta esclusivamente alla sicurezza alimentare, come quella che caratterizzò il dopoguerra e la fase iniziale della Politica Agricola Comune. Una logica che comportò l’industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, con i vantaggi immediati ma anche i gravi danni ambientali che adesso sappiamo. Questa guerra e le sue conseguenze hanno evidenziato, se ancora ce ne fosse bisogno, l’estrema fragilità del nostro sistema agricolo. E’ bastata l’impossibilità di importare mais e cereali dalla Ucraina e il blocco delle esportazioni di granaglie e di concimi chimici dalla Russia per generare allarmi sulla disponibilità e sui prezzi di generi di prima necessità come farina, pane, pasta. Per di più qualche governo, come quello ungherese, infischiandosi delle regole del mercato unico europeo, ha pensato bene di bloccare le esportazioni di grano e mais, e subito qui da noi si sono levate alte grida per il timore di dover abbattere migliaia di capi di bestiame.

Già nel 2021 il presidente Francese Macron, nel pieno della pandemia, aveva sollevato il tema della sovranità alimentare per mettere in discussione i trattati di libero scambio che la Commissione europea stava per approvare con alcuni paesi del Sud America e il Messico. Adesso però la sovranità alimentare, intesa proprio come autosufficienza, sembra diventata lo scopo principale delle scelte europee in materia agricola. Come scrive oggi Andrea Bonanni (la Repubblica Economia & Finanza): ” a Bruxelles le lobbies agricole…chiedono una revisione almeno temporanea delle restrizioni che la Ue aveva imposto soprattutto ai grandi produttori su scala industriale per motivi ambientali”. Si vorrebbe perfino che fosse consentito l’uso dei pesticidi anche nelle aree di protezione ecologica adatte alla produzione di alimenti proteici (ibidem). La stessa Commissione Agricoltura del Parlamento europeo propone di sospendere alcuni degli obiettivi ambientali dell’Unione per far fronte alle conseguenze sul settore primario della guerra in Ucraina. Per non parlare di chi, qui da noi , propugna una sorta di battaglia del grano i cui riflessi sulla nostra agricoltura sarebbero quantomeno discutibili. Non manca persino chi solletica una sorta di gastro-nazionalismo miope secondo cui il prodotto italiano, qualunque esso sia, è sempre il migliore. Affermazione non solo infondata , ma che rischia di produrre una reazione eguale e contraria nei paesi nostri partner commerciali.

E’ certo plausibile che sia necessario aumentare la produzione europea di granaglie per far fronte alle nostre esigenze immediate e alla necessità di aiutare quei paesi del Medio Oriente e dell’Africa che sono già in gravi difficoltà. Può anche darsi che, a più lungo termine, sia necessario diminuire la nostra dipendenza dall’estero in un mondo che, dopo la tanto criticata globalizzazione, sta sempre più chiaramente dividendosi in macro aree economiche.

Quel che preoccupa è che il Green Deal e la strategia Farm2Fork della Ue siano visti come un ostacolo in questa direzione e non come parte della soluzione. Si chiede a gran voce la sospensione persino dei blandi progressi contenuti nella nuova PAC quasi che questa fosse l’occasione propizia per un “liberi tutti” senza alcuna considerazione per le conseguenze sul cambiamento climatico.

Invece di cogliere questa occasione per trasformare in profondità la nostra agricoltura estendendo pratiche virtuose di coltivazione e allevamento come quelle biologiche, si pensa solo a chiedere di sospendere la strategia F2F (per quanto tempo?) quando invece è proprio questa la strada per avere un’agricoltura più sostenibile e resiliente. Anche se fosse vero che con la strategia F2F la produzione alimentare si ridurrebbe addirittura del 20%, come sostengono alcuni pareri pessimistici, basterebbe ridurre lo spreco alimentare, che già ammonta al 38%, per far tornare i conti. Per non parlare poi della possibilità di incentivare abitudini alimentari più virtuose.

Viene quasi da pensare che la soddisfazione recentemente manifestata da alcune associazioni di categoria per l’approvazione della nostra legge sul biologico fosse più di facciata e legata a interessi strumentali piuttosto che a una sincera convinzione.