LA POLITICA AGRICOLA EUROPEA A UNA SVOLTA?

Maggio 29, 2022 1 Di storiedelbio

Il prof. Franco Sotte, docente universitario di Economia e Politica Agraria, che tra i suoi meriti ha anche quello di aver studiato per cinquant’anni la Politica Agricola Comune (PAC), ha recentemente terminato una preziosa storia di questa fondamentale politica europea: La Politica Agricola Europea. Storia e Analisi ( Collana “Economia Applicata”, edizione online nel sito della rivista Agriregionieuropa ). A conclusione del suo lavoro Sotte ci avverte che: “Finché infatti mancherà un reale Governo dell’Unione e le trattative per la PAC si svolgeranno, come fin qui è accaduto nel tavolo negoziale del Consiglio, tra ministri nazionali dell’agricoltura, ciascuno dotato del potere di veto, è inevitabile che prevalgano obiettivi immediati. Qualcosa di simile può dirsi per il Parlamento europeo, dove ancora manca una visione realmente europea dei problemi e, non di rado i parlamentari, eletti su base nazionale, sono essi stessi portatori di visioni nazionali e rispondono ad istanze contingenti. Per cui l’obiettivo prioritario non è il futuro dell’agricoltura e la sua sostenibilità economica, ecologica, territoriale e sociale. Non è il suo sviluppo imprenditoriale. Non sono le sue interrelazioni con l’ambiente, il cambiamento climatico, lo sviluppo rurale, le relazioni di filiera, i rapporti con i consumatori e con i cittadini, che poi sono quelli che pagano la PAC. Queste sono tutt’al più variabili condizionanti. L’obiettivo è la prossima campagna elettorale che si svolge su temi di attualità scottante: una volta erano i prezzi, poi sono state le compensazioni, quindi i pagamenti diretti. Ora in uno, ora in un altro SM [Stato Membro], queste campagne elettorali sono così frequenti da rendere difficile affrontare seriamente il problema delle politiche per il lungo termine…

La PAC che si profila per il periodo 2023-2027, pur nelle novità positive che comunque ci sono e che abbiamo evidenziato, sarà dunque ancora una volta una PAC complessivamente inadeguata ai compiti che dovrebbero esserle assegnati”.

Pubblichiamo qui di seguito quella parte del 12° capitolo del suo lavoro in cui più dettagliatamente esprime il suo punto di vista sulla PAC che prenderà avvio a gennaio del prossimo anno. Dato che il Piano Strategico Nazionale del nostro paese è stato rimandato dalla Commissione al Mipaaf con 40 pagine di osservazioni e che è in corso il dibattito sulla sua revisione, riteniamo che queste considerazioni di Sotte, insieme alle altre contenute nel capitolo in questione e in quello conclusivo, possano aiutare a comprendere meglio gli sviluppi in corso.

Un giudizio sulla PAC 2023-2027

Franco Sotte

Una riforma diversa dalle precedenti

Se si confrontano i risultati conclusivi delle negoziazioni sulla PAC degli ultimi tre periodi poliennali di programmazione europea (2000-2006, 2007-2013 e 2014-2020), indubbiamente la PAC 2023-2027 introduce, date le premesse, dei cambiamenti molto significativi. Questi cambiamenti non sono ovviamente definitivi per trarre delle conclusioni, perché molto ancora dipende dalla attuazione di quanto previsto nei regolamenti del 2 dicembre 2021. Innanzitutto, dai contenuti dei PSN (Piani Strategici Nazionali) e dai risultati della negoziazione con la Commissione prima del loro varo definitivo. Successivamente, molto dipenderà anche dalla loro implementazione. Allo stato dei fatti, si può comunque affermare che i contenuti riformatori della PAC 2023-2027 si collocano allo stesso livello, se non addirittura più in alto, rispetto alle due principali riforme della PAC nel corso delle sua lunga storia: la riforma MacSharry del 1992 e la riforma Fischler del 2003. Rispetto alle quali la PAC 2023-2027 si distingue per il molto più deciso effetto ridistributivo che dovrebbe produrre tra i suoi beneficiari, e quindi anche tra territori e orientamenti produttivi. I cambiamenti sono segno dei tempi e indubbiamente dei rapporti tra le forze politiche e sociali a livello dell’Unione europea. Sia pure molto lentamente, nel Parlamento europeo si sta rafforzando la propensione a guardare alla politica agricola nella prospettiva degli interessi generali e non soltanto settoriali. Anche il Consiglio, che nelle negoziazioni ha avuto un atteggiamento più conservatore, alla fine qualcosa ha ceduto. La Commissione, con il Green deal, ha indubbiamente svolto un ruolo cruciale, non limitandosi soltanto a proporre e mediare, ma anche giocando un ruolo politico di sollecitazione e orientamento. In questo senso, la futura PAC ha internalizzato una più marcata ambizione ambientalista e verso la sostenibilità. Ovviamente, comunque, i cambiamenti sono condizionati dalle premesse. Dal fatto in particolare di essere partiti da una proposta di riforma della PAC avanzata prima del Green deal e fortemente condizionata dalla path dependency che, in seguito, non è stato più possibile riformulare. Il giudizio a posteriori del vicepresidente della Commissione Timmermans rivela un misto di soddisfazione e disappunto quando, a conclusione del trilogo, ha sostenuto che si era realizzata: «Una evoluzione piuttosto che una rivoluzione, ma comunque una svolta nelle regole del gioco, che avvia la PAC su una nuova strada, una strada più verde». E ha aggiunto quanto segue: «A forza di negoziare, la Commissione ha lavorato per una nuova PAC che possa essere di sostegno al Green Deal. L’accordo raggiunto oggi segna l’inizio di una vera e propria svolta nel modo di fare agricoltura in Europa. Nei prossimi anni, proteggeremo le zone umide e torbiere, dedicheremo più terreni agricoli alla biodiversità, promuoveremo l’agricoltura biologica, apriremo nuove fonti di reddito per gli agricoltori attraverso il carbon farming [ pratiche agricole mirate al sequestro di carbonio nel suolo] e inizieremo a correggere le ineguaglianze nella distribuzione degli interventi di sostegno al reddito »

La principale novità della PAC 2023-2027 è rappresentata dalla consistente ridistribuzione dei fondi che rende possibile. Non soltanto per effetto della soppressione dei titoli o, in alternativa, se si opta per conservarli, come conseguenza della consistente convergenza interna. Ma anche per effetto della possibile riduzione degli importi individuali più alti, dell’eventuale adozione del capping e del 10% del plafond per i pagamenti diretti riservato obbligatoriamente ai primi ettari delle aziende mediopiccole. A tutto questo si aggiunge il fatto che il budget riservato agli eco-schemi è opzionale per gli agricoltori e, se effettivamente gli impegni richiesti per ottenerlo non risultassero irrilevanti, potrebbe produrre un altro effetto ridistributivo. Una seconda fondamentale novità consiste nel fatto che, per la prima volta, tutta la PAC, primo e secondo pilastro è soggetta ad una programmazione integrata, orientata al raggiungimento di obiettivi europei. A questi obiettivi è associata l’assegnazione dei fondi e la loro liquidazione è frutto, in termini di impegni vincolanti, del raggiungimento di specifici target. Quanto all’impegno per la sostenibilità ambientale e climatica, esso è potenzialmente più stringente sia per la condizionalità rafforzata associata al “sostegno al reddito per la sostenibilità”, sia per la fissazione delle quote di spesa da riservare (25%) agli eco-schemi nel primo pilastro e (35%) per clima ambiente e benessere animale nel secondo. Questa riserva di spesa ovviamente non assicura di per sé una maggiore sostenibilità, ma conta il fatto che ad essa è associata una richiesta agli SM di dimostrare nei PSN una maggiore ambizione ambientale, anche fissando opportunamente gli indicatori di risultato e di impatto. Un’ulteriore novità nella PAC 2023-2027 consiste nell’introduzione, per la prima volta, della condizionalità sociale. Si tratta di un primo passo nella direzione della tutela del lavoro in agricoltura. Se non altro, si comincia a risolvere il paradosso di remunerare con i pagamenti diretti anche chi non rispetta le leggi. A riguardo, la Commissione è incaricata di compiere un approfondimento in vista di una eventuale estensione della lista delle norme da includere. Questi cambiamenti nell’impianto della PAC suggeriscono di condividere il giudizio in base al quale: «Se si concorda sulla path dependency come logica che guida le riforme della PAC, cioè della dipendenza delle decisioni attuali da quelle assunte precedentemente, possiamo affermare che questa riforma rappresenta un salto, più che un passo in avanti, rispetto al passato». Non mancano però aspetti critici che vanno attentamente valutati. Alla loro illustrazione è dedicato il resto di questo paragrafo.

Sussidiarietà e valore aggiunto europeo

Fin dal testo originario delle proposte del Commissario Hogan per la PAC riferita, a suo tempo, al settennio 2021-2027, la Commissione fa menzione più volte del fatto che, con il new delivery model, [ cioè una nuova struttura di governance che dovrebbe permette il passaggio dall’attuale approccio basato sulla conformità a un approccio basato sui risultati ] si persegue un «maggior grado di sussidiarietà», una «sussidiarietà rafforzata», una «maggiore sussidiarietà [per] tenere conto più specificamente delle condizioni ed esigenze locali». Si tratta, a nostro giudizio, di una mistificazione: i princìpi non si rafforzano né si estendono, ma si applicano. A riguardo, l’art.5 del Trattato sull’Unione europea recita: «In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione». Negli anni recenti, il principio di sussidiarietà è stato spesso associato a quello di “valore aggiunto europeo” inteso come: «il valore addizionale che risulta da un intervento EU rispetto al valore che sarebbe stato creato altrimenti dai singoli stati membri». Lo stesso testo della Commissione ora citato spiega che il valore aggiunto europeo può essere misurato sulla base dei seguenti tre criteri: «Efficacia: laddove è l’unico modo per ottenere risultati per creare collegamenti mancanti, evitare frammentazioni e realizzare il potenziale di un’Europa senza frontiere. Efficienza: laddove l’UE offre un migliore rapporto qualità-prezzo perché è possibile affrontare le esternalità, mettere in comune risorse o competenze e coordinare meglio l’azione. Sinergia: laddove l’azione dell’UE sia necessaria per integrare, stimolare e mobilitare azioni volte a ridurre le disparità, innalzare gli standard».

È evidente che, pur nell’ambito di queste precisazioni, resta un margine di flessibilità nell’allocazione delle competenze sulla base del principio di sussidiarietà e del criterio del valore aggiunto europeo. Ciò nondimeno, di fronte ad un così consistente trasferimento di poteri decisionali e attuativi dal centro ai singoli SM, quale quello disposto dai nuovi regolamenti PAC, è doveroso chiedersi se questo corrisponda ad una corretta applicazione di quel principio e di quel criterio. Come si è già avuto modo di annotare, anche nei regolamenti della PAC 2014-2020 una notevole lista di decisioni relative all’applicazione del primo pilastro erano state trasferite agli SM. Si era trattato, all’epoca, di un escamotage dovuto soprattutto alla necessità di concludere il trilogo in tempo per evitare di incappare nelle imminenti elezioni del Parlamento europeo. Le questioni controverse erano così state affidate agli SM. Questa volta si è andati oltre, lo si è fatto intenzionalmente, ma senza un disegno organico riguardo a quali competenze fosse opportuno mantenere al centro e quali riconoscere a livello nazionale. Il rischio che si corre è che per obiettivi sicuramente europei (la salvaguardia del mercato unico, il contrasto/adattamento al cambiamento climatico, la tutela dei consumatori, il sistema della conoscenza e dell’innovazione, la coesione e l’inclusione) si adottino, a livello di singoli SM, decisioni non conformi con le ambizioni unionali. Dall’altro lato, il rischio è che permangano a livello europeo responsabilità e relativi oneri di bilancio per finalità, quale il sostegno dei redditi, che sono chiaramente competenza nazionale. Come si ricorderà, questa contraddizione era stata già segnalata dal Rapporto Sapir (2003) e, prima ancora, dal Rapporto Padoa-Schioppa (1987). In ragione di una corretta applicazione del principio di sussidiarietà, sarebbe stato dunque necessario non un semplice travaso di funzioni, ma una ridefinizione e riattribuzione delle competenze tra le due sovranità (quella degli SM e quella dell’Unione europea), coerente con gli specifici compiti, riassegnando in rapporto ad essi le specifiche dotazioni e responsabilità finanziari.

Il new delivery model della PAC

Il passaggio di responsabilità nella gestione della PAC dal centro ai singoli SM suggerisce una domanda. Riuscirà Bruxelles a coordinare la futura politica agricola? Il rischio che con il new delivery model si accrescano le distorsioni nel mercato comune, che di “comune” alla PAC non resti altro che il nome, è particolarmente elevato. Il successo nel coordinamento è connesso a più di una circostanza. Innanzitutto, alla coerenza dei PSN con gli obiettivi strategici e, più in generale, con il Green deal. Occorre precisare a riguardo che Green deal, Strategia F2F e Strategia per la biodiversità al 2030 non sono ancora giuridicamente vincolanti. L’accordo sulla PAC 2023-2027 contiene comunque una clausola di revisione al 2025 della legislazione esistente su ambiente e clima, al cui rispetto vincolare i PSN della PAC. Nel frattempo, nelle sue raccomandazioni per la redazione dei PSN, la Commissione ha spinto gli SM a adeguarsi agli obiettivi del Green deal e ha preso l’impegno di uniformarsi a quegli obiettivi nel processo di approvazione dei PSN. Ma, a parte la moral suasion che possono esercitare i suoi commenti e le sue raccomandazioni, una volta che i PSN sono stati predisposti nel rispetto delle procedure di consultazione e hanno avuto il sostegno del partenariato, è difficile immaginare che, oltre a far pressione nel corso della negoziazione, la Commissione possa non approvarli. Data questa circostanza e considerando che, in particolare per gli obiettivi ambientali degli eco-schemi non sono fissati dei target minimi, è possibile assistere a una: « corsa al ribasso delle norme ambientali e climatiche, poiché le amministrazioni nazionali continuano a guardare a ciò che gli altri Stati Membri stanno facendo per evitare di mettere i propri agricoltori in una posizione di svantaggio troppo grande ». Un secondo aspetto critico che può minare il coordinamento della nuova PAC è nella possibilità per la Commissione di valutare pienamente e incontestabilmente i risultati prodotti dalle politiche messe in atto e dalla effettiva capacità di Bruxelles di sanzionare gli inadempienti. Una condizione non facile da realizzarsi in pratica. L’esperienza della PAC 2014-2020 è piuttosto una conferma che una smentita di questa difficoltà. Peraltro, nel corso della negoziazione per la PAC 2023-2027 i controlli, rispetto alle proposte originali, sono già passati da annuali a biennali, gli indicatori alla base delle “performance review” sono stati ridotti da 38 a 22 e il margine di tolleranza rispetto ai target intermedi all’atto del primo “Esame biennale dell’efficacia dell’attuazione” previsto nel 2025 è stato accresciuto da 25% a 35%. Così anche è cresciuto a due anni il tempo concesso allo SM per risolvere gli inadempimenti prima della eventuale sospensione dei pagamenti. D’altra parte, alla base di molti problemi di governance della PAC, c’è il fatto che, una volta che gli SM hanno avuto la loro parte di budget, la priorità per loro è quella di spenderla. Ne consegue che il loro obiettivo nei PSN è di fissare i target a livello più basso possibile. Anche perché non esiste alcun incentivo ad alzare l’asticella delle ambizioni. Quindi l’appello agli SM perché svolgano un ruolo proattivo nel perseguimento degli obiettivi della PAC rischia di restare disatteso. È facile immaginare che, ove si dovesse prendere atto, per le ragioni ora dette, di un insuccesso nel coordinamento della PAC verso il new delivery model, l’Unione europea possa essere malauguratamente indotta, sotto la pressione dei contributori netti al suo bilancio, a trasferire definitivamente ed esplicitamente la politica agricola post-2027 agli SM, affidando loro anche l’ultima incombenza rimasta comune: quella di finanziarla con il budget dell’Unione. È ovviamente impossibile sapere quale fosse il fine ultimo della vecchia Commissione Juncker quando ha avanzato la proposta del new delivery model. Ma, data l’evidenza dell’impossibilità, nel corso della lunga storia della PAC, di realizzare una più profonda riforma come da tanto tempo inutilmente evocata, si può essere portati a non escludere del tutto che il trasferimento sostanziale della PAC agli SM possa essere stato perseguito intenzionalmente. Una malaugurata rinazionalizzazione della PAC implicherebbe la rinuncia di Bruxelles alla politica che ha avuto un ruolo fondativo nell’Unione europea e che ancora, in tanti campi, necessita di una strategia comune: sicurezza alimentare (in termini sia di food security che di food safety), clima, ambiente, mercato unico, tutela del consumatore, riduzione del divario nei territori rurali. Ma potrebbe apparire una soluzione praticabile, sia pure con tempi dilazionati a dopo il 2027, per liberare quel 30% circa di 30 fondi del bilancio dell’Unione europea, che attualmente la PAC assorbe. Una dotazione finanziaria fondamentale, che potrebbe essere destinata in futuro alle nuove incombenti priorità, senza costringere gli SM ad aumentare la contribuzione.

Semplificazione o solo trasferimento delle complicazioni?

Una ulteriore questione si pone con riferimento al new delivery model. Il passaggio dagli adempimenti alle performance, si ricorderà, è stato presentato come un consistente esercizio di semplificazione. Dal punto di vista tecnico, la semplificazione si concretizza in una riduzione dei documenti di programmazione e gestione delle politiche agricole da sbrigare nei rapporti tra Unione europea e SM (da 209, tra programmi di sviluppo rurale e notifiche per i pagamenti diretti e per gli interventi settoriali, a solo 28 PSN). In realtà, la tanto enfatizzata semplificazione è tale solo per la Commissione. A livello nazionale, infatti, oltre alla complicazione propria della progettazione e gestione del PSN, si aggiunge l’aggravio di competenze amministrative trasferite dall’Unione europea agli SM. Quanto di questo aggravio si trasformerà in complicazione dipende dalla capacità degli SM di dotarsi di regole snelle, senza perdere di vista la necessità di perseguire un certo grado di selettività degli interventi. D’altra parte, a livello nazionale, il new delivery model impatta con modelli organizzativi e assetti amministrativi diversi. A trovarsi in maggiore difficoltà sono soprattutto gli SM come l’Italia, nei quali la competenza in materia di politica agraria, in base al titolo V della Costituzione, è decentrata alle Regioni e, in aggiunta, le Regioni, come l’evidenza del passato insegna, presentano capacità amministrative decisamente diverse. Con il rischio, quindi, che il mancato raggiungimento dei target a livello nazionale, causato dalle Regioni meno virtuose, penalizzi anche quelle più virtuose. Si tratta peraltro di passare da una PAC, il cui primo pilastro storicamente è stato gestito “misura per misura” e il secondo a livello regionale, ad una PAC organizzata e guidata da un unico programma organico nazionale. Come è stato giustamente rilevato in uno studio svolto per il Parlamento europeo: «Gli Stati membri hanno poca esperienza nella programmazione integrata di vari strumenti della PAC. Lo sviluppo delle capacità di pianificazione e attuazione costituirà una sfida importante per tutti gli Stati membri […]. Conferire agli Stati membri una maggiore sussidiarietà può comportare un notevole onere amministrativo a livello degli Stati membri. […] Senza seri investimenti in personale, processi, supporto analitico e preparazione inclusiva dei piani strategici, potrebbero esserci notevoli differenze nell’attuazione delle politiche tra i singoli paesi». La differente capacità di implementazione può ovviamente riflettersi in un aumento dei costi di transazione, come sottolineato in questa citazione: « In particolare, occorre fare attenzione a garantire che la modernizzazione e la semplificazione della governance sotto forma di piani strategici nazionali che dovrebbero ridurre i costi delle transazioni pubbliche a livello europeo non comportino un aumento di questi stessi costi a livello infracomunitario e un aumento dei costi delle transazioni private sostenuti dagli attori economici». Queste difficoltà si collegano ad un altro aspetto critico: quello dell’allungamento dei tempi per cui, nonostante il rinvio di due anni della data di avvio della nuova PAC, la promulgazione definitiva dei regolamenti della PAC 2023-2027 è avvenuta nello stesso mese in cui gli SM erano tenuti e presentare alla Commissione i propri PSN. Non a caso, molti PSN, tra i quali anche quello italiano, sono stati predisposti in gran fretta, lavorando alacremente tra Stato e Regioni ma riducendo le consultazioni del partenariato con le parti sociali a pura formalità. Altri SM non sono riusciti a rispettare la scadenza del 31 dicembre 2021: Belgio (sia Fiandre che Vallonia), Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Germania.

I due pilastri e i pagamenti diretti

Due peculiarità della futura PAC 2023-2027 si pongono in stretta continuità con il passato: la suddivisione in due pilastri con il mantenimento dei due rispettivi fondi e la conferma in posizione centrale del sistema dei pagamenti diretti. A fronte del new delivery model, del maggiore orientamento verso l’ambiente e il clima, indotto dal Green deal, e dall’approccio olistico e integrato della strategia F2F, l’innesto sulla nuova governance della struttura e delle tipologie di intervento preesistenti può rivelarsi al tempo stesso arduo e inefficace. Quando la PAC è amministrata con un unico PSN a livello nazionale, che senso ha il mantenimento dei due pilastri, dei due fondi FEAGA e FEASR (ciascuno con le sue regole) e dei due menu di misure? Non sarebbe stato meglio unificare i fondi, le procedure e il set dei possibili interventi evitando duplicazioni, sovrapposizioni e lacune? Quanto alla conservazione dei pagamenti diretti, frutto avvelenato della path dependency, essa si iscrive in una concezione superata dell’agricoltura, che considera il settore come costituzionalmente incapace di reggere al confronto con il mercato. Per cui l’impresa agricola (anche la più efficiente dal punto di vista tecnico e meglio gestita sotto il profilo economico) necessiterebbe di un sistematico e consistente sostegno congiunturale, finalizzato a coprire il differenziale di reddito rispetto a quanto accade in altri settori dell’economia. L’agricoltura, se sostenuta da politiche di lungo periodo che risolvano, con adeguati incentivi, i “fallimenti del mercato” e che paghino, su base contrattuale, i beni pubblici che essa tutela e produce per la collettività, è potenzialmente in grado di remunerare i fattori di produzione in maniera adeguata e compatibile con quanto avviene in ogni altro settore dell’economia. Lo dimostra il relativo successo registrato nel tempo dai comparti dell’agricoltura stessa che sono stati meno (o per niente) sovvenzionati con aiuti diretti al reddito e che semmai hanno beneficiato di interventi strutturali o di organizzazione dell’offerta, come vino, ortofrutta, fiori, prodotti suinicoli e avicoli, agriturismo. Dove gli agricoltori hanno saputo farsi imprenditori al passo con i tempi, mirando all’efficienza e alla competitività. Non tragga in inganno la nuova denominazione attribuita al pagamento di base: “sostegno al reddito per la sostenibilità”. A dispetto della terminologia, non si tratta di un sostegno né al reddito, né alla sostenibilità. Non è un sostegno al reddito perché è concesso indipendentemente dal reddito del percettore, tanto che si concentra nelle tasche dei più ricchi e lascia le briciole in quelle dei più poveri. Una circostanza, questa, che sarà leggermente attenuata, ma non risolta dall’introduzione obbligatoria del “sostegno ridistributivo complementare al reddito per la sostenibilità”, dalla eventuale riduzione degli importi più elevati e dal capping. Allo stesso modo, se fosse un pagamento per la sostenibilità, sarebbe calcolato in rapporto ai costi in più e ai ricavi in meno per l’agricoltore, in relazione alle pratiche di cura dell’ambiente che gli si chiede di adottare. Oppure sarebbe commisurato alla necessità di incentivarne la permanenza o l’insediamento nelle localizzazioni dove la sua presenza gioca un ruolo cruciale. Invece, fin qui è stato calcolato con riferimento ai pagamenti diretti ricevuti in passato dallo stesso beneficiario e, in prospettiva, sarà costituito da un importo fisso per ettaro, rivelando esplicitamente in questo modo la sua natura di rendita. Non si trascurino le conseguenti implicazioni di un tale pagamento. Innanzitutto, come bene dimostra con chiara evidenza un recente studio del Joint Research Center della Commissione europea, contribuisce ad accrescere i valori fondiari e i costi d’uso della terra, ostacolando l’ampliamento delle aziende e l’ingresso dei nuovi agricoltori.Un esplicito richiamo all’anacronismo dei pagamenti diretti e all’intenzione di sopprimerli è presente anche nell’Accordo di coalizione della nuova maggioranza “semaforo” tedesca che ha recentemente affidato il ministero dell’agricoltura al verde Cem Özdemir: «L’architettura attuale sarà riesaminata al più tardi entro la metà della legislatura e adattata per raggiungere gli obiettivi. Per un ulteriore sviluppo affidabile a partire dal 2027, il governo tedesco sta formulando uno schema per valutare come i pagamenti diretti possano essere adeguatamente sostituiti dalla retribuzione dei servizi climatici e ambientali forniti. Questo serve anche a sostenere il reddito». Quanto alla politica di sviluppo rurale (finanziata dal FERS), è il caso di sottolineare come essa sia ora inglobata con il primo pilastro nel PSN, mentre la politica regionale e di coesione europea (finanziata dagli altri i Fondi strutturali e di investimento europei: FESR, FSE, ecc.) sia rimasta decentrata, come in passato, a livello regionale. Il mancato allineamento tra politica di sviluppo rurale e politiche regionali è stato sempre giudicato un limite molto serio che ha ridotto l’efficacia della politica territoriale europea, soprattutto nelle regioni periferiche e in quelle condizionate da limitazioni naturali, economiche e sociali. Questo divario in futuro potrebbe essere ancora più accentuato e sarà necessario uno sforzo aggiuntivo per far convergere obiettivi e strumenti dei diversi livelli istituzionali.

La nuova architettura verde

Grande enfasi è stata data, nel confronto e nello scontro, alla cosiddetta nuova “architettura verde”, cioè al sostegno ambientale e al contrasto/adattamento al cambiamento climatico fondati su tre misure: la condizionalità rafforzata, gli eco-schemi e le misure agroambientali della politica di sviluppo rurale. Se fosse stato possibile ritirare l’originale proposta del Commissario Hogan, si sarebbe probabilmente dibattuto, alla luce del Green deal, sulla razionalità di questa triplicazione. Ci si sarebbe chiesti innanzitutto se ha senso la cross-compliance, una soluzione la cui funzione primaria è di giustificare i pagamenti diretti nella forma, nell’entità e nella distribuzione che hanno, imponendo ai loro beneficiari di rispettare delle norme (BCAA e CGO) al cui rispetto sarebbero comunque tenuti anche se non fossero beneficiari. Si sarebbe dedotto che sarebbe migliore una politica agro-ambientale fondata sulla direct compliance: il pagamento cioè su base contrattuale degli impegni agro-ambientali. Ci si sarebbe anche interrogati, dopo l’esperienza deludente del greening nella politica agricola corrente, se fosse proprio il caso di ripetere l’esperienza di inserire l’agroambiente tra i pagamenti diretti del primo pilastro. Qualcuno ha sostenuto che gli ecoschemi non sono altro che un “greening rafforzato”. Non è così. Indubbiamente, la formula degli eco-schemi è migliore di quella del vecchio greening, nel quale la maggior parte degli agricoltori non doveva fare niente per beneficiarne. Ma di fronte alle grandi sfide agro-ambientali europee c’è da domandarsi se possa essere realmente efficace una politica fondata su un menu di misure opzionali, tra le quali ogni SM sceglie “à la carte” quelle che intende applicare. Con il risultato di non dotare l’Unione di una coerente politica agro-ambientale, quanto piuttosto di un patchwork di eco-schemi tra di loro incoerenti. Il diavolo è peraltro nei dettagli ed è notevole il timore che la delusione si ripeta attraverso l’inclusione tra gli eco-schemi di pratiche che hanno poca o nessuna valenza ambientale. L’azione di annacquamento su questo fronte è già cominciata a livello europeo e seguitata nei PSN. Le organizzazioni ambientaliste hanno evidenziato come tra i possibili ecoschemi sia stata introdotta l’agricoltura di precisione (ipotizzando che consenta di ridurre l’impiego di fertilizzanti e pesticidi), ma senza includere nessun vincolo per imporre che la riduzione degli input sia effettiva. Analogamente, nel menu degli eco-schemi è inclusa l’agricoltura conservativa, ma senza imporre limiti all’uso di erbicidi, né comportamenti complementari, quali la rotazione e la copertura costante del suolo. Occorre quindi stare particolarmente accorti per salvare la sostanza rispetto all’apparenza ed anche rispetto alle pressioni che, sfruttando le circostanze contingenti, mirano a rimettere tutto in discussione. Ci riferiamo qui alle decisioni, conseguenti alla guerra in Ucraina e ai connessi shock nei mercati agricoli, di abbandonare o allentare le regole degli eco-schemi, così come quelle della condizionalità rafforzata, volte a rendere l’agricoltura europea più sostenibile. Come è stato giustamente osservato in un appello firmato da oltre seicento personalità del mondo scientifico europeo, significativamente intitolato “Abbiamo bisogno di una trasformazione del sistema alimentare – di fronte alla guerra in Ucraina ora più che mai”: “Ridurre la regolamentazione ambientale per aumentare la produzione alimentare non risolverebbe la crisi. Ci allontanerebbe ancora di più da un sistema alimentare affidabile che sia resiliente agli shock futuri e offra diete sane e sostenibili”.

C’è poi da temere anche un altro effetto distorsivo relativamente alla selezione da parte degli SM delle pratiche da sostenere con gli eco-schemi e nella politica di sviluppo rurale nell’ambito del menu delle opzioni possibili. Il Green deal pone al centro della strategia per la neutralità climatica al 2050 i beni pubblici globali, quali la biodiversità, il cambiamento climatico, lo sviluppo e l’adozione delle tecnologie pulite, la salute dei cittadini e dei consumatori, ecc. Ma il trasferimento delle decisioni a livello nazionale rischia di spostare l’attenzione verso le azioni che puntano a valorizzare beni pubblici regionali o locali e che trovano migliore riscontro tra gli stakeholder dei singoli SM. Le scelte compiute nella proposta di PSN italiano , ad esempio, seppure compatibili con quanto previsto nel regolamento in materia di eco-schemi, sembrano mosse (sia nella selezione dal menu delle scelte possibili, che nella distribuzione dei fondi) più dall’intenzione di attenuare l’impatto della ridistribuzione operata dalle altre disposizioni in materia di pagamenti diretti, che da una genuina ambizione ambientalista. In conclusione, la soluzione adottata con la nuova architettura verde rischia di fallire gli obiettivi enunciati, per non dire della estrema complessità della gestione delle tre formule e del rischio di sovrapposizioni, duplicazioni, obiettivi non adeguatamente coperti e dissipazione delle risorse di bilancio. Sarebbe stato più opportuno e più efficace trasferire tutti i fondi green in una strategia agro-ambientale organica. Si sarebbe potuto valutare, in relazione agli obiettivi agro-ambientali e relativi al clima europei, nazionali e locali, e in relazione alla distribuzione dei diritti, se accompagnare le misure incentivanti con misure dissuasive. Se applicare, in altre parole, anche in agricoltura come è norma in tutti gli altri settori, il mix più opportuno tra provider gets principle, che è l’unico ed esclusivo concepito fin qui nell’ambito della PAC e polluter pays principle. A riguardo, l’art. 191 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea recita: «La politica dell’Unione in materia ambientale […] è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”». È paradossale che mentre questa norma è universalmente applicata in tutte le altre politiche europee, la PAC non solo la disattenda, ma addirittura paghi gli agricoltori per il rispetto di regolamenti e direttive (i CGO) e di leggi nazionali (le BCAA) che tutti, anche chi non riceve alcun pagamento, sono comunque tenuti a rispettare.