Mimmo Tringale racconta

Settembre 29, 2022 2 Di storiedelbio

Continuiamo la nostra ricerca sulle origini del biologico con questa intervista a Mimmo Tringale. La conversazione avuta con lui ricostruisce alcuni importanti passaggi relativi alla storia del biologico, non solo in Toscana, e sul ruolo in essa avuto dalla rivista AamTerranuova. La considerazione degli eventi passati non poteva mancare di concludersi con una riflessione su alcune rilevanti questioni del presente.

Nel mondo del biologico Mimmo Tringale non ha certo bisogno di presentazioni. Tuttavia, per chi ancora non lo conoscesse, ci limitiamo qui a ricordare che è stato per molti anni presidente del Coordinamento toscano agricoltori biologici. Entrato molto presto a far parte del team di AamTerranuova, la rivista che ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del movimento biologico in Italia, ne è poi stato per lunghi anni direttore. Ha anche dato vita al periodico di Aiab Bioagricultura ( vedi sezione Documenti ) di cui è stato per vari anni direttore. Oggi è direttore editoriale di Terra Nuova edizioni nonché autore di diversi libri e manuali. Queste sue esperienze, insieme a molte altre di cui parla in parte nell’intervista, ne fanno un testimone privilegiato delle origini e dello sviluppo del movimento biologico; ben oltre la dimensione toscana che pure costituisce lo spunto dell’intervista che qui pubblichiamo.

I primi anni l’atmosfera era quella di vivere una rivoluzione

intervista a Mimmo Tringale ( 15/03/22 )

Parlaci un po’ di te….

Sono nato nel 1954 a Catania, ma quando avevo quattro anni i miei si sono trasferiti a Manfredonia, in Puglia. Sono cresciuto lì e a vent’anni sono venuto via per conoscere il mondo, il paesino del Sud mi stava un po’ stretto. Ho frequentato Agraria, a quei tempi, forse la facoltà più reazionaria di Firenze. In quegli anni studiare agraria non era molto di moda, molti degli studenti erano figli di proprietari terrieri, e mentre il resto dell’Università era in fermento – da lì a poi sarebbe scoppiato il ’77 – la facoltà di Agraria era la più retriva, per cui ho passato gli anni dell’università più nella facoltà di Architettura che in quella di Agraria; ho fatto anche due esami di Architettura, allora si poteva fare. Agraria era un ambiente dove stavo davvero male, l’ho frequentata a singhiozzo, poi quando ho cominciato a lavorare regolarmente l’ho abbandonata del tutto.

Come hai iniziato a occuparti di agricoltura?

Non sono figlio di agricoltori, i miei erano commercianti e quindi avevo un grande desiderio di mettere le mani nella terra. Così appena ne ho avuto l’occasione, ho collaborato alla nascita di una cooperativa, nata sulla base di una legge il cui obiettivo era quello di mettere in produzione le terre incolte [ L. 285/77, ndr]. L‘intento della legge, che non ha avuto alla fine un grande successo, era quello di agevolare la nascita di cooperative giovanili, facilitando, era questa la speranza, l’assegnazione di terreni agricoli rimasti incolti per più di tre anni. Con gli altri soci della cooperativa abbiamo partecipato prima al censimento delle terre incolte promosso dalla regione Toscana e poi individuato una grande azienda agricola alle porte di Firenze abbandonata da molti anni. Le pratiche per l’assegnazione di quel terreno ci hanno assorbito per molto tempo, ma alla fine grazie a vari cavilli, il proprietario riuscì ad avere la meglio e il nostro progetto fallì.

Non era per caso la cooperativa La Ginestra?

No, la nostra cooperativa si chiamava Vie Nuove. La Ginestra era un’altra cooperativa giovanile di Firenze, più fortunata di noi perché il proprietario era una vecchia marchesa, che ignorando del tutto la legge, non si è preoccupata a costruire prove farlocche di coltivazione e alla fine ha dovuto subire l’assegnazione. Così i nostri amici de La Ginestra sono riusciti a ottenere in affitto una bellissima azienda, tutt’ora attiva. Noi invece siamo stati più sfortunati perché il proprietario è stato molto più furbo ed è riuscito per il rotto della cuffia a fare una passata di trattore nell’ultimo mese utile per poi dimostrare, con tanto di avvocati, che il suo terreno non era abbandonato (sic!).

A quel punto abbiamo deciso di praticare l’unica attività agricola possibile senza terreno: l’apicoltura. In pochi anni, insieme a Fabrizio Pignatelli, Marco Nocci e Francesco Filipponi abbiamo messo su una bella attività apistica con oltre 300 arnie. Grazie anche alla bravura di alcuni di alcuni soci apicoltori, siamo arrivati a fare una buona produzione, anche perché praticavamo il nomadismo, non solo di miele, ma anche di polline, propoli e pappa reale. Poi nell’84 è arrivata la Varroa [un acaro parassita molto nocivo per le api, ndr] che soprattutto i primi anni ha falcidiato migliaia di alveari in Italia. All’epoca, l’unico mezzo disponibile, ma non autorizzato, contro la Varroa era l’Amitraz, già utilizzato contro gli acari dei bovini. Un potente acaricida, che oltre a essere tossico per gli stessi operatori, lasciava residui nel miele e nella cera. In realtà c’era chi proponeva come alternativa naturale, dei preparati a base di oli essenziali, principalmente timolo e mentolo. Si trattava di tentativi molto sperimentali, senza una grande garanzia di successo, e a quel punto c’è stato uno scontro tra me e gli altri soci della cooperativa che temevano non solo una vistosa riduzione della produzione, ma anche la perdita di tutte le famiglie. Così io mi sono dimesso dalla cooperativa e ho cominciato a dedicare più tempo ed energia alla mia altra passione: lo scrivere. In realtà, da diversi anni mi ero avvicinato al gruppo di AAM Terra Nuova, la prima rivista italiana che dava voce alle esperienze di agricoltura e alimentazione naturale (il biologico arriverà qualche anno più tardi). Di AAM Terra Nuova fui prima assiduo lettore, poi diffusore militante e infine collaboratore, quando la redazione si spostò da Roma nel Mugello, in provincia di Firenze. AAM rappresentava in quegli anni un riferimento concreto per chi cercava un’alternativa concreta al consumismo, ma anche la possibilità di mettere in pratica gli ideali della nonviolenza e di uno stile di vita rispettoso della natura. Le finanze di AAM, nata come associazione, non consentivano di assicurare compensi ai vari collaboratori, tutta l’attività si reggeva sul volontariato cosicché per mantenermi iniziai a collaborare con altre riviste come La nuova ecologia, Airone, Buono e naturale, Erboristeria domani, Terra e vita. Intanto, anche sulla spinta di Terra Nuova in diverse regioni nascevano le prime associazioni di produttori biologici, al cui interno spesso i consumatori svolgevano un ruolo centrale. Erano quelli, gli anni eroici del biologico. Anche in Toscana c’era un grande fermento e grazie ai contatti nati collaborando a Terra Nuova, mi feci promotore di una serie di incontri che porteranno nell’83 alla nascita del Coordinamento toscano dei produttori biologici (Ctpb), di cui fui presidente per i primi dieci anni. Insieme a me e Rossella Mori, unici non agricoltori, ben presto intorno al Ctpb si aggregano i pionieri del biologico in Toscana come Amos Umfer, Antoine Luginbhul, Stefano Pereira, Laura Drighi, Hubert Bosh, Enzo Pinferretti e tanti altri ancora. I primi anni ad aderire al coordinamento furono soprattutto aziende di dimensioni ridotte, poche decine di ettari; ma col tempo arrivarono anche realtà produttive di una certa importanza. Ricordo che fummo molto contenti quando si unì a noi anche la “Tenuta San Vito in Fior di Selva” un’azienda agricola di oltre 100 ettari che produceva Chianti DOCG grappa e olio esportati in gran parte all’estero. D’altra parte, essendo in Toscana, non poteva non essere il vino il prodotto bio più ricercato. Ricordo una piccolissima azienda di San Gimignano, condotta da una coppia di ex fisici nucleari che si erano licenziati dal CNR per produrre un’ottima Vernaccia di San Gimignano DOCG bio, che esportavano quasi interamente in Giappone.

Cos’è che spingeva queste persone a interessarsi del biologico?

C’erano diverse ragioni. Una motivazione molto importante che univa consumatori e agricoltori era ovviamente quella della tutela della salute e dell’ambiente. Ma c’era anche la componente del “ritorno alla terra”. Nel coordinamento c’erano molti neo-agricoltori provenienti dal nord Europa o dal nord Italia che avevano acquistato della terra in Toscana e non avevano nessuna voglia di ricorrere a pesticidi tossici. Ma anche agricoltori con una certa esperienza che avevano cominciato a pagare sulla propria pelle l’utilizzo dei pesticidi. Ricordo, a questo proposito, un vecchio viticoltore della zona di Arezzo con una grave patologia respiratoria, il cui medico gli aveva suggerito di smettere di distribuire pesticidi. Infine c’era il filone cristiano-gandhiano che faceva riferimento a Giannozzo Pucci e alla “Fierucola del pane”. [vedi storiedelbio – maggio 2022, ndr]

Qualche anno più tardi, nel 1988, il coordinamento toscano partecipò alla fondazione dell’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (AIAB) a cui aderirono poi le varie associazioni di agricoltori biologici sorte in quegli anni in Italia: il coordinamento Veneto (decisamente il più attivo), il consorzio Il Salto (con sede a Vignola), il coordinamento siciliano, l’associazione produttori biologici cuneesi, l’associazione marchigiana per l’agricoltura biologica, il consorzio friulano agricoltori biologici e tanti altri. E la prima sede dell’Aiab, fu proprio a Firenze, presso la sede del coordinamento toscano. C’era una grossa collaborazione tra i coordinamenti regionali, tra l’altro uno dei più attivi era anche il Coordinamento Siciliano. Una cosa poco conosciuta è che in Sicilia si producevano agrumi biodinamici già dagli anni ’40, agrumi che andavano direttamente dalla Sicilia in Germania. Sono state queste produzioni a fare poi da traino al biologico, stimolando la nascita del coordinamento siciliano, i cui soci producevano essenzialmente agrumi e ortaggi, che tramite la cooperativa El Tamiso” di Padova venivano poi commercializzati in tutta Italia.

Ho sentito dire che il coordinamento siciliano aveva posizioni molto rigide rispetto alle normative sul biologico: era contrario alla coltivazione in serra…

C’era un grosso dibattito tra i friulani, che ovviamente per produrre ortaggi avevano bisogno di ricorrere alle serre e i siciliani che potevano benissimo farne a meno. Era il purismo dei primi anni. Ricordo che nei primi regolamenti relativi alla trasformazione, c’era chi sosteneva che il pane biologico doveva essere preparato esclusivamente con farine integrali. C’erano questi integralismi, posizioni che nascevano da una visione un po’ ingenua del mercato e dei meccanismi della filiera agricola. C’era il timore che il biologico venisse fatto proprio dalle grandi industrie, come poi in realtà è successo.

E i biodinamici invece?

Com’è noto le origini del movimento biodinamico italiano risalgono agli anni ’30 del secolo passato e poi nel 1985 all’associazione per l’agricoltura biodinamica si è affiancata la Demeter Associazione Italia, che si occupa del controllo e della certificazione. In Toscana esistevano diverse aziende biodinamiche, ma per molti anni non c’è stato molto dialogo con loro, forse anche per nostra diffidenza e chiusura. Erano molto gelosi della loro organizzazione e del loro approccio.

Hai accennato all’importante ruolo dei consumatori all’interno del coordinamento toscano. In cosa consisteva concretamente?

Essendo stati due consumatori, io e Rossella Mori, a fondare l’associazione, sin dall’inizio il Coordinamento toscano è stato caratterizzato da una presenza attiva di consumatori. In realtà, l’alleanza tra agricoltori e consumatori è stato uno dei valori fondanti del movimento del biologico delle origini. L’idea era quella di rafforzare i due anelli centrali, ma anche i più deboli della filiera agroalimentare, appunto i produttori e i consumatori, con l’obiettivo di assicurare una giusta remunerazione ai primi e alimenti sani e di qualità ai secondi. Mi chiedevi di cosa discutevamo. Uno dei principali temi oggetto di dibattito era proprio questo: come costruire e rafforzare questa alleanza. Purtroppo quest’obiettivo è stato il primo a essere sacrificato sull’altare del successo di mercato del bio. È proprio per dare concretezza a quest’obiettivo il coordinamento toscano si fece promotore del primo negozio di prodotti biologici a Firenze. Il negozio era gestito interamente da un gruppo di volontari e il ricavo delle vendite andava interamente ai produttori, tranne una quota minima che serviva per pagare affitto e bollette. La cosa buffa di quest’esperienza è che a un certo punto, era mi pare il marzo dell’88, ricevemmo nel nostro negozio un’inattesa visita dei Nuclei Antisofisticazioni e Sanità (NAS). La crescita del biologico in quegli anni era affiancata da una diffusa critica ai danni prodotti dai rischi di residui di pesticidi sull’ambiente e nel cibo. Parallelamente sorgono un po’ in tutta Italia negozi di prodotti biologici. Le autorità agricole del nostro Paese invece di accogliere positivamente questo fenomeno, che fanno? Corrono in difesa dell’industria agroalimentare messa sotto accusa: il ministero dell’agricoltura invia una circolare ai NAS di tutta Italia per ispezionare i negozi di prodotti biologici. Quasi contemporaneamente, con un’azione coordinata, soprattutto nelle città di Firenze, Roma, Milano, Bologna, Verona, fioccano multe e sequestri. Viene contestato il reato di “frode alimentare” poiché, ci spiegano i carabinieri dei NAS, in assenza di una legge specifica, immettere sul mercato prodotti qualificati come “biologici” vuol dire raggirare i consumatori. Come presidente del coordinamento toscano ero responsabile del negozio e quindi mi vedo appioppati tre verbali (uno per ognuno dei prodotti sequestrati) con tre multe ognuna di 333.000 lire. Per fortuna, multe e sequestri analoghi furono effettuati in tutta Italia, l’azione che voleva essere repressiva nei confronti del crescente movimento del biologico si rivelò un vero e proprio boomerang. Uscirono articoli di denuncia sui principali quotidiani, “Come? Si chiedevano in tanti, invece di sostenere, si puniscono coloro che sperimentano metodi di coltivazione senza veleni?”. Come risposta, circa un mese dopo i sequestri fu organizzato a Bologna un incontro con tutti i negozi che avevano ricevuto l’ispezione dei Nas. E qualche settimana dopo, grazie ai Verdi che in quegli anni in Parlamento contavano qualcosa, riuscimmo a ottenere un incontro con Giovanni Zarro. Per farla breve, grazie all’intervento in Parlamento dei Verdi e alla pressione dell’opinione pubblica queste multe vennero annullate e tutta la vicenda finì per accrescere la necessità di una legge per tutelare, ma anche definire meglio, le norme di coltivazione dell’agricoltura biologica.

A parte il negozio di cui hai già detto, come avveniva allora la commercializzazione?

Uno degli obiettivi del coordinamento era quello di aprire nuovi canali di vendita per i prodotti dei soci. A quei tempi esistevano essenzialmente tre canali, il più diffuso era ovviamente la vendita diretta in azienda o attraverso i mercatini del biologico, che lentamente si sono diffusi un po’ in tutt’Italia. A Firenze eravamo facilitati perché c’era la “Fierucola del pane”, diventato presto un punto di riferimento per produttori e consumatori. Poi c’erano i negozi specializzati che, come dicevo, cominciavano a sorgere un po’ dovunque e che svolgevano una preziosa funzione di promozione. Erano luoghi di informazione e d’incontro per tutti coloro a cui stava a cuore il rispetto dell’ambiente, la crescita personale e non l’intenzione di fare commercio. I primi negozi del biologico erano centri di diffusione della cultura del bio e dell’alimentazione naturale. Veri e propri punti di incontro, dove trovavi la gente come te, che faceva yoga, che era interessata al biologico e alle terapie naturali. Nel ’92 nasce NaturaSì che ben presto diventerà la catena dello specializzato più presente in Italia e con il tempo, si sono aperte al biologico anche alcune catene della GDO, le prime sono state la Coop e l’Esselunga.

Quindi hai vissuto in prima persona anche tutta quella fase della commissione “Cos’è biologico”, del primo disciplinare e della fondazione di Aiab. Puoi raccontare di cosa si discuteva? Quali erano i vostri riferimenti?

In questo quadro di grande fermento culturale da una parte e di ricerca di soluzioni agronomiche rispettose dell’ambiente e della salute dei consumatori dall’altra, viene promossa da AAM Terra Nuova la “Commissione Cos’è biologico” che vede per la prima volta riuniti intorno a un tavolo tecnici e consumatori per definire quelle che poi saranno le “Norme italiane per l’agricoltura biologica”, il primo disciplinare del biologico adottato nel nostro paese.

Nella fase iniziale del biologico, gran parte dei riferimenti venivano dall’estero. Ho conosciuto personalmente Claude Aubert, agronomo francese di Nature et Progrès, la più importante associazione bio d’oltralpe fondata nel lontano 1964. Poi c’era l’Ifoam (International Federation of Organic Agriculture Movements) attiva in molti paesi europei, negli USA e anche in Asia, il cui apporto scientifico e normativo fu molto prezioso. L’unica realtà organizzata del biologico presente in Italia, prima della fondazione dell’Aiab era Suolo e Salute presieduta da Francesco Garofalo. Di grande importanza fu anche l’apporto del professor Luciano Pecchiai, primario patologo emerito dell’Ospedale dei bambini “Vittore Buzzi” di Milano, uno dei primi medici a sostenere l’agricoltura biologica. C’era una grande collaborazione tra lui e Garofalo. Poi naturalmente c’erano i primi agronomi e periti agrari che autonomamente stavano sperimentavano in prima persona la possibilità di coltivare senza l’uso di pesticidi e concimi di sintesi. Il loro contributo è stato fondamentale per dimostrare la validità del biologico e superare le resistenze che venivano da molte parti e in primo luogo dall’ambiente scientifico e accademico. Il ritornello che ci sentivamo ripetere era che senza pesticidi e concimi chimici era impossibile fare un’agricoltura moderna e contrastare la fame nel mondo.

L’apporto di questi agronomi è stato importante, in particolare mi piace ricordare Ivo Totti, di cui tra l’altro raccolsi le memorie in un libro [ L’azienda agricola biologica: l’esperienza di Ivo Totti, a cura di Mimmo Tringale, Jaca Book 199, ndr], lui era molto legato a Gino Girolomoni, purtroppo è morto qualche mese prima che uscisse il libro.

C’era anche l’aspetto della certificazione…

Prima che arrivasse il regolamento europeo sul biologico del ‘91, così come gli altri coordinamenti, anche in Toscana avevamo già una commissione tecnica, composta da consumatori e da tecnici, che si occupava dei controlli con dei sopralluoghi in azienda. Andavamo regolarmente a visitare le aziende per verificare che rispettassero davvero le norme per il biologico. Era un sistema molto simile a quella che adesso si chiama Certificazione Partecipata. In Toscana facevamo questi controlli, prima ancora della nascita di Aiab. Negli anni del pionierismo fare il biologico era una scelta molto impegnativa, c’era ancora poca esperienza e quindi si rischiava continuamente di perdere la produzione, era una continua sperimentazione. Tra l’altro non era scontato che fare biologico assicurasse dei vantaggi nella vendita. Fare il biologico era davvero una scelta politica, una scelta di campo. Peraltro, il biologico non aveva, specie nel campo dei vini, una grande immagine. Per cui i primi anni l’atmosfera era quella di vivere una rivoluzione.Una rivoluzione controcorrente perché l’università era contro, l’industria, i giornali erano contro. Molti consideravano l’agricoltura biologica come una sorta di ritorno al passato

Se non sbaglio nel 1987 era cominciata per te l’avventura di Demetra…

Si Demetra, edita da La Casa verde, è stata la mia prima esperienza da direttore di una rivista. Il biologico cominciava a diffondersi in tutte le regioni d’Italia e Demetra è stata in assoluto la prima rivista dedicata interamente ed esclusivamente al biologico. Ma sicuramente ancora più entusiasmante è stata per me l’esperienza di direzione di Bioagricultura.

Com’è nata l’idea di Bioagricultura?

L’Aiab era appena nata [ nel 1988, ndr], in molte regioni erano state approvate leggi regionali per regolamentare il biologico e da qualche anno anche a livello europeo si discuteva di una normativa comunitaria. Si sentiva il bisogno di uno strumento di collegamento in grado di far dialogare le varie anime del biologico, fare pressione sul quadro politico nazionale, ma anche per promuovere una cultura del biologico. Da qui la scelta del nome Bioagricultura, il cui primo numero venne pubblicato nel febbraio del 1990. La rivista, realizzata in grande economia, era finanziata direttamente dai vari coordinamenti regionali che contribuivano direttamente anche con i contenuti. Io mi occupavo di raccogliere fondi, impaginare la rivista, correggere e raccogliere gli articoli e potevo contare su un comitato di redazione di tutto rispetto, composto dagli artefici del biologico in Italia: Antonio Compagnoni (Il Salto), Adriano del Fabro (consorzio friulano), Armando Mariano (produttori biologici cuneesi), Paolo Rizzo (coordinamento siciliano), Leonardo Valenti (associazione marchigiana), Franco Zecchinato (coordinamento Veneto) e Carla Sbalchiero (AAM Terra Nuova).

A quel punto tu eri già direttore o, comunque, lavoravi già a Terra Nuova?

Pur collaborando con diverse riviste, avevo conservato un forte legame con AAM Terra Nuova, che sentivo molto vicino ai miei ideali. Dopo l’uscita di Pino de Sario, uno dei fondatori insieme a Rosalba Sbalchiero, la rivista visse anni di grande difficoltà, anche per l’alternarsi alla direzione di diverse persone in pochi anni, finché maturò l’idea di professionalizzare maggiormente la rivista, puntando su una redazione di giornalisti. Così fui chiamato a lavorare in pianta stabile, prima come redattore e poi, dal marzo del 1990, come direttore responsabile.

Ma prima di te come veniva gestita la rivista?

Per molti anni, la conduzione della rivista si è basata su un “comitato di gestione” molto allargato che si riuniva regolarmente e da una direzione operativa incentrata principalmente sulla coppia Pino de Sario e Rosalba Sbalchiero, affiancata a livello amministrativo da Mariagrazia Frison. La rivista era distribuita nelle varie città attraverso un’estesa rete di volontari e soprattutto tramite i negozi di prodotti biologici, ristoranti bio e associazioni del settore che hanno rappresentato da sempre il principale canale di diffusione di AAM Terra Nuova.

Tu che eri contemporaneamente Coordinamento Toscano e AAM Terra Nuova, puoi spiegare meglio cosa ha comportato il Regolamento europeo del ’91 sia per l’Aiab che per la rivista?

Sicuramente l’approvazione del regolamento europeo ha decretato il definitivo riconoscimento della validità tecnica e ambientale del biologico, assicurando un grande impulso al settore e trasformando l’Aiab nell’associazione più rappresentativa del settore. Ruolo che però ha perso repentinamente negli anni successivi, quando da Bruxelles è stata imposta la separazione tra l’attività di rappresentanza e quella di certificazione.

Anche per Terra nuova è cambiato qualcosa….

Nei primi anni, il biologico ha costituito uno dei temi centrali della rivista, tant’è vero che si può dire che il biologico in Italia è nato con AAM Terra Nuova che ne era il punto di riferimento. Poi, quando il biologico da “scelta di vita” si è lentamente trasformato in una nicchia di mercato sempre più ampia e appetibile, ha perso di interesse, è diventato solo uno dei temi, non più quello centrale, della rivista. D’altra parte, la lungimiranza di Terra Nuova, sin dai primi numeri è stata quella di avere uno sguardo a 360 gradi su tutto quello che di innovativo e di ecologico si muoveva in Italia dall’alimentazione alla medicina naturale, dalla ricerca interiore agli ecovillaggi, dalla bioedilizia agli ecotessuti. C’è stato poi negli anni, e in questo non c’entra il regolamento europeo, un processo di maturazione, il fogliettone militante di un tempo si è trasformato in un mensile di 100 pagine prodotto da una casa editrice di tutto rispetto con un catalogo di oltre 400 titoli. Insomma, anche Terra Nuova ha fatto i conti con il mercato e debbo dire, alla luce dei 45 anni di attività, vincendo la scommessa.

Come vedi l’evoluzione del biologico in Italia alla luce dei più recenti fatti: approvazione legge sul biologico, trattative tra NaturaSì e Coldiretti…

Penso che la nuova legge sul biologico non porterà grandi novità. Il biologico ormai si è molto consolidato superando i 2 milioni di ettari a fine 2021, con un’incidenza delle superfici bio sulla SAU nazionale del 17,4%, la più alta in Europa. Certo, è probabile che grazie ai maggiori finanziamenti anche gli agricoltori meno sensibili alle problematiche ambientali saranno portati a scegliere il biologico. D’altra parte, penso che il destino dell’agricoltura italiana sia quello di una produzione di qualità e quindi, soprattutto per un discorso di opportunità commerciale, penso che sempre più agricoltori sceglieranno il biologico. Ma a lungo andare, questo può rappresentare anche un rischio perché il biologico non può essere solo una scelta di comodo.Se si tratta di una scelta esclusivamente di natura commerciale, il rischio di trovare delle scorciatoie diventa molto grande.

E delle trattative tra Coldiretti e Naturasì cosa mi dici?

Non conosco nei dettagli la natura delle trattative in corso, ma se tale accordo può facilitare la collocazione della produzione sul mercato nazionale è sicuramente da salutare positivamente. Purtroppo, mentre gran parte della produzione bio italiana viene esportata, si assiste parallelamente all’importazione di alimenti bio dall’estero. Quindi un’alleanza fattiva tra un’associazioni di produttori come la Coldiretti da una parte e una catena a grandissima diffusione come NaturaSì potrebbe essere la soluzione ideale per far diventare il chilometro zero una pratica comune.

C’è l’esempio Biocoop in Francia. Però mi sembra molto diverso quel che ha fatto NaturaSì

Si tratta di due esperienze profondamente diverse, anche se hanno qualcosa in comune. Purtroppo in Italia, nonostante i numerosi tentativi, i negozi di prodotti biologici non sono riusciti a trovare una forma di cooperazione tra di loro. E’lo stesso problema dei piccoli agricoltori: ogni negozio pensa di essere più furbo dell’altro. Se in questi anni di crescita del biologico, ci fosse stata una maggiore capacità di intesa e di collaborazione, fino alla creazione di una struttura consortile come Biocoop molti negozi forse non avrebbero chiuso.

Ma ci sono stati dei tentativi seri qui da noi?

Sì. Negli anni ci sono stati almeno tre tentativi importanti di creare una qualche forma di consorzio. Tantissime riunioni, ma niente di fatto. “Toscana biologica” è forse uno degli esperimenti più riusciti. Conta due negozi uno a Firenze e uno a Pisa, a cui fanno riferimento una cinquantina di aziende. Ma non si può dire che le cose vadano a gonfie vele.

E i GAS in tutto questo tu come li vedi?

Io penso che i GAS svolgono una funzione di sostegno molto importante per i produttori e di sensibilizzazione nei confronti dei consumatori. Conoscere i produttori locali va nella direzione della creazione di quell’alleanza di cui parlavo prima tra produttori e consumatori. Purtroppo far parte di un GAS richiede una grande disponibilità di tempo. Per molte famiglie può essere difficoltoso, ma dipende molto dalla capacità organizzativa dei singoli GAS e dalla viabilità delle varie città. Sicuramente bisogna inventarsi nuove soluzioni. In passato ci sono stati tentativi di negozi ibridi che ospitavano in qualche maniera anche un gas. E’ chiaro che la GDO, oggi svolge un ruolo ambiguo, da una parte ha fatto conoscere il biologico a una platea infinita di consumatori, abbassando i prezzi, ma anche la qualità. Dall’altra ha ammazzato i negozi specializzati che non posso usufruire dei vantaggi della grande scala. Ma ammazza anche il mercato perché abbassa i prezzi pagati ai produttori locali, che via via poi sostituisce con le produzioni a basso prezzo dei paesi dell’Est, del Nord Africa o di oltre oceano. Nel futuro vedo l’affermazione del biologico di qualità. Ci saranno prodotti biologici di qualità standard che diventeranno la normalità e prodotti biologici di qualità che prenderanno non so ancora quale forma.

Qualcuno, come Rete Humus, lo intende come tutela dei valori storici del bio, qualcun altro invece è andato avanti sul terreno della biodiversità e propone delle certificazioni che sono molto più significative di quella standard, tipo Biodiversitas per il riso. Ma questo pone il problema di ulteriori marchi….

Sì, c’è qualcosa che si sta muovendo in questa direzione. Il problema della moltiplicazione delle certificazioni, non è da poco. Io ricordo che agli inizi del biologico ero tra quelli che credevano fermamente nella necessità di una certificazione. Ma col senno di poi, mi domando se davvero un prodotto biologico di qualità, chiamiamolo come vogliamo, possa fare a meno di una certificazione partecipata. Mi convinco sempre di più che una certificazione istituzionalizzata, burocratica e in gran parte cartacea, come quella attuale non sia sufficiente per garantire un metodo di coltivazione che oltre a fare a meno di principi attivi nocivi, offra qualcosa di più a favore della biodiversità, dell’equità sociale e della qualità nutrizionale.