Uno sguardo sul bio di Roberto Pinton

Dicembre 14, 2022 6 Di storiedelbio

Da qualche tempo circolano, non solo in Italia, voci allarmate circa la crisi del biologico. Ce ne eravamo già occupati l’agosto scorso pubblicando alcuni documenti sulla situazione del bio in Germania. Allora avevamo accennato alla lettura un po’ controcorrente che Roberto Pinton sembrava dare della situazione, ma non avevamo avuto modo di riportare compiutamente il suo pensiero. Da allora continuano a apparire, anche in Francia e Germania, analisi piuttosto preoccupate per quanto sta accadendo nel settore. Abbiamo perciò chiesto a Roberto di precisare meglio il suo pensiero alla luce di quel che sta ancora accadendo. Qui di seguito pubblichiamo la sua analisi ( simpaticamente intitolata “A ruota libera”), che prende le mosse dall’analisi della situazione in Germania (e parzialmente in Austria ) per considerare poi quella italiana. Della situazione francese, che meriterebbe una considerazione specifica approfondita, ci occuperemo magari in seguito.

Roberto Pinton, che ha avuto un ruolo importante nella nascita del biologico in Italia, svolge attività di consulenza per aziende e amministrazioni pubbliche in Italia e all’estero da oltre trent’anni. Collabora come free lance a testate giornalistiche agroalimentari su temi economici e normativi. Già membro dello Sherpas group all’High Level Forum for a Better Functioning Food Supply Chain della Commissione europea, è componente del Comitato Settoriale di Accreditamento delle Produzioni Agroalimentari di ACCREDIA.

Dalla fondazione al 2020 ha ricoperto per 14 anni il ruolo di segretario e responsabile tecnico normativo di AssoBio. E’ al secondo mandato come componente del board di IFOAM Organics Europe, in rappresentanza delle imprese di trasformazione e distribuzione europee. Nella federazione è componente dello steering commitee dell’IGOP Interest Group of Organic Processors and Traders e della task force sull’implementazione del nuovo regolamento.

A RUOTA LIBERA

Roberto Pinton

Ho aspettato la pubblicazione del bilancio di Alnatura dell’esercizio 2021/2022 chiuso il 30 settembre e presentato la settimana scorsa.

Il retailer e grossista tedesco (suo il primo supermercato biologico in Germania 35 anni fa) alla fine dell’esercizio contava 147 punti vendita Alnatura Super Natur (sei completamente ristrutturati e sette inaugurazioni nell’ultimo anno, prevista nei prossimi mesi una decina di altre aperture).

Il fatturato dell’esercizio fiscale a cavallo di due anni (ma in ogni caso con nove mesi nel grigio 2022) è stato di 1.12 miliardi, un 2.5% in meno dell’esercizio precedente 2020/2021, che aveva totalizzato il record di 1,15 miliardi, in crescita del 7% rispetto al 2019/2020 della buriana COVID, che a sua volta aveva sfiorato il 20% di crescita rispetto al 2018/2019.

L’anno scorso, alla presentazione del bilancio 2021, il fondatore Götz Rehn aveva attribuito il successo (+7%) all’apprezzamento dei prodotti “autentici” da parte dei consumatori (e cosa puoi dire di diverso in una conferenza stampa?).

Diamo pure credito al peso delle riflessioni su quanto la nostra vita dipenda dall’equilibrio della natura e sulle conseguenze dello sfruttamento del pianeta che si erano sviluppate come fiammata nei mesi iniziali della pandemia. A leggere i dati generali e quelli specifici (crescita molto sopra la media per gli ingredienti per la preparazione di pane, dolci e pasti domestici, pasta, scatolame, surgelati e qualsiasi cosa potesse essere conservata a lungo), però, anche qui era evidente la modifica (temporanea!) dei carrelli della spesa dovuta al lockdown, con coprifuoco da marzo ad aprile 2020 e relativa corsa alle scorte, con successive diverse misure di confinamento da novembre 2020 a maggio 2021.

Nella presentazione dell’ultimo bilancio (-2.5%) il commento è stato che, considerata la straordinarietà degli aumenti di vendite dei due anni di pandemia e della situazione di crisi generalizzata, il calo è stato nettamente inferiore alle previsioni, con il corollario “Siamo molto lieti che i clienti siano rimasti fedeli ad Alnatura e così sostengano l’agricoltura biologica e quindi la protezione del clima con i loro acquisti, un buon segnale, soprattutto per i nostri agricoltori biologici”.

Fatto sta che le vendite di Alnatura (più o meno metà nella propria rete di vendita, il resto ad altri specializzati e GDO, per cui buon campione dell’intero settore) sono state di 0.9 miliardi (2019), 1,08 miliardi (2020), 1.15 miliardi (2021) e 1.12 miliardi (2022) , il che a ben vedere sta a dire un tasso di crescita annuale composto del 5.6%.

L’orizzonte di un anno non può restituire risultati attendibili, né per Alnatura né per il leader Dennree (fondato nel 1974, 330 pdv tra Germania e Austria e partnership con 150 indipendenti, 14mila referenze da mille fornitori), che aveva chiuso l’esercizio 2019 con vendite per 1.1 miliardi, quello 2020 a 1.4 miliardi (in crescita drogata dal COVID di oltre il 24%) e quello 2021 a 1.47 miliardi, in ulteriore, ma contenuto aumento dell’1,4%, con tanto di premi per 10 milioni ai 7.700 collaboratori.

L’anno fiscale di Dennree coincide con quello solare, per l’ufficialità del risultato 2022 bisogna attendere qualche mese, ma già si sa che l’andamento non si discosta sensibilmente da quella di Alnatura.

L’economia è una faccenda complicata e i suoi risultati si leggono in modo diverso a seconda di cosa interessa.

Se il focus è sul colpisci e fuggi dei dividendi trimestrali, a fronte di un fatturato in discesa di 2,5 punti ci si strappa i capelli, se la prospettiva è a medio termine, si è soddisfatti di un CAGR ( Compound Annual Growt Rate ) del 5.6%, se è a lungo termine e ci si ricorda che nel 2010 Alnatura fatturava 399 milioni, si stappa una birra biologica festeggiando l’incremento medio annuo dell’8.3% per dodici anni di fila.

Sulla carta la situazione dei due big del mercato richiede attenzione, pur senza sembrare drammatica, ma l’impennata dei prezzi dell’energia, degli affitti e l’inflazione seguite alla guerra in Ucraina hanno comunque cambiato la scena, impattando di brutto su negozi biologici piccoli e grandi, che pure nel periodo di pandemia erano sembrati impermeabili alla crisi: secondo i dati di GfK, nella prima metà dell’anno hanno perso il 16,5% delle vendite, secondo il Bundesverband Naturkost Naturwaren (BNN) i numeri sono appena poco meno negativi, con un -15%, tuttavia ancora in crescita rispetto al 2019, ultimo anno normale.

Per Reformhaus-Genossenschaft le vendite dei negozi Reform-Haus associati hanno addirittura ripreso il segno positivo ad agosto, ma il loro core business è più sui rimedi erboristici e sui cosmetici naturali e la ripresa pare guidata da farmaci antistress e antifatica, oltre che ai prodotti per rinforzare il sistema immunitario in vista di una nuova ondata del virus.

Eccettuati quelli che hanno potuto riempire i buchi delle forniture ucraine (e, per alcuni mesi, di quelle turche, quando Ankara ha sospeso temporaneamente l’export) i produttori tedeschi lamentano difficoltà di vendita e prezzi non remunerativi: la distribuzione non accetta aumenti di prezzi, di conseguenza nemmeno l’industria; calano anche l’afflusso ai mercati contadini e l’adesione agli schemi di abbonamento.

La catena Superbiomarkt, con una trentina di filiali nella Renania settentrionale-Vestfalia, è in procedura d’insolvenza da agosto, il canale specializzato, specialmente gli operatori più piccoli, sta soffrendo una situazione di aumento dei costi operativi a fronte della contrazione delle vendite.

Non è un fenomeno di questi mesi: se nel 2012 un negozio specializzato su tre aveva una superficie di vendita inferiore a 100 metri quadrati, oggi è meno di uno su cinque; da anni in Germania il settore si sta razionalizzando (o “normalizzando”, se si preferisce), con le aziende più grandi che diventano sempre più importanti e quelle più piccole che stanno scomparendo o sono assorbite dai big; il “piccolo è bello” pare passato di moda da un po’.

Anche se l’eco-attentitività dei tedeschi è da sempre nettamente superiore a quella mediterranea e non cala (bene o male, alle elezioni federali del 2021, i Grünen hanno sfiorato il 15%, esprimono il vicecancelliere, guidano i ministeri dell’economia e clima, dell’agricoltura, dell’ambiente e della famiglia; dovrebbero fischiare molto fastidiosamente le orecchie dei responsabili della distruzione del potenziale del movimento verde italiano) si sta vedendo un divario tra i valori dei consumatori e i loro comportamenti d’acquisto.

Nonostante i prezzi al consumo dei prodotti biologici siano aumentati meno (5,2%) rispetto a quelli dei convenzionali (8%), si registra lo spostamento verso prodotti più economici (con un ritorno agli ingredienti biologici a scapito dei prodotti trasformati, se non ai prodotti convenzionali locali: complice una narrativa ruffiana, al “km zero” è riuscita la magia di posizionarsi come alternativa ai prodotti biologici) o verso altri canali, come supermercati, discount e on-line, dove alle considerazioni legate ai prezzi, si aggiunge l’opportunità di one-stop shopping: vai a far la spesa solo una volta e trovi quanto ti serve per la settimana, pazienza se ti devi accontentare di quel che c’è.

Lo sviluppo del biologico nella ristorazione collettiva aiuta un po’ (da marzo Deutsche Bahn offre tre piatti di stagione biologici che cambiano ogni tre mesi, più di metà dei prodotti forniti a bordo è plant based, tutta la gamma di caffè, tè e cioccolata già da qualche anno è Fairtrade), ma non basta.

Servono nuove strategie, un mercato irrisolto non incentiva nuove conversioni, il che, oltre a non consentire di raggiungere gli obiettivi della strategia Farm to Fork, nel medio periodo provocherà tensioni dell’offerta, con un ulteriore avvitamento e l’incremento dell’import.

Non pervenuti i convitati di pietra Rewe, Edeka, Kaufland, Aldi, Lidl ecc., dal canto suo Alnatura ha già annunciato che abbandonerà le offerte speciali per brevi periodi, concentrandosi sull’everyday low price per fidelizzare i clienti e richiamarne di nuovi nelle filiali, c’è chi dà enfasi su una provenienza locale (che rischia di trasformarsi in un angusto sciovinismo); il BNN sta facendo campagna per una riduzione dell’IVA allo zero per cento per i prodotti biologici vegetali, con aliquote variabili per i prodotti di origine animale in funzione della loro eco-sostenibilità.

Per quanto sensata, la proposta cozza contro il parere della Corte di giustizia dell’Unione europea, secondo la quale gli Stati membri sono sì liberi di applicare un’aliquota ridotta, ma rispettando il principio di neutralità fiscale, che preclude il trattamento diverso ai fini dell’IVA di merci simili in concorrenza tra loro.

Nonostante l’impegno istituzionale di BNN e del Bund Ökologische Lebensmittelwirtschaft (BÖLW), finora la competizione tra i big Dennree e Alnatura, ma anche Basic, BioCompany ed EBL, ha stimolato le catene a migliorare profilo, offerta e servizi, ma, focalizzandosi sulla convenienza dell’insegna, si è trattato di comunicazione d’impresa e non di settore, che ha messo in secondo piano gli aspetti “orizzontali” ed è mancata di parole d’ordine comuni (su cui ha invece marciato il greenwashing dell’agroalimentare convenzionale), che si dimostrano sempre più necessarie per contribuire a consolidare atteggiamenti e comportamenti dei consumatori: meno brand e più concetti (che riverbereranno positivamente anche sui brand), gli argomenti non mancano affatto. Questa consapevolezza è ormai diffusa e il settore, unitariamente, sta confrontandosi sui prossimi passi.

Detto della situazione in Germania, i numeri dell’Italia non differiscono di molto.

Il canale specializzato soffre, e ben da prima che Putin desse il via all’invasione.

Ecor Naturasì, fatturato 2021 sopra i 470 milioni, ma in affanno dal 2018, ha elaborato il piano pluriennale 2022-2025 che prevede scorporo di attività, chiusure e spostamenti di negozi in aree commercialmente più interessanti (ma inevitabilmente con affitti più onerosi), riorganizzazione dell’offerta Biotobio con un occhio di riguardo alla ristorazione commerciale, revisione dell’approccio all’e-commerce e al delivery, rilettura dell’assortimento, ricorso alla cassa integrazione per 392 collaboratori da febbraio.

Baule Volante, Fior di Loto e Finestra sul cielo sono stati assorbiti da più o meno tempo dalla bulimica Ecor NaturaSì, Ki Group è alla canna del gas (il titolo ha perso il -99,64% in un anno), Probios ha fatturato nel 2021 qualcosa più di 25 milioni (+7.8%) ed è rimasta praticamente l’unico competitor, se la differenza di valori consente questa classificazione.

La situazione di sostanziale monopolio non ha stimolato grandi miglioramenti tra i retailer né comunicazione, se si escludono campagne di Alce Nero e di Almaverde Bio e poche uscite di altri che facevano accapponare la pelle (del genere “il vero biologico”, “il biologico senza compromessi”).

Venendo ai “piccoli”, alle aziende agricole che valorizzano le produzioni con la trasformazione, l’andamento è stato particolarmente positivo dal 2014 al 2019, anno più brillante, poi è arrivato l’inceppamento.

Non aiuta i piccoli il fatto che il costo della certificazione non sia in percentuale al fatturato, ma in base al numero di prodotti, di etichette autorizzate e di visite ispettive: un piccolo agricoltore che coltivi e venda piccole quantità di una gran varietà di prodotti preserva la biodiversità, ma sopporta costi maggiori di un’azienda molto più grande che venda un unico prodotto a decine di tonnellate.

Più aziende, pur continuando a rispettare le norme tecniche, hanno rinunciato alla certificazione: costi elevati di burocrazia, troppo tempo da dedicare ai controlli distogliendolo da altre attività importanti. Per un’attività piccola e a livello famigliare hanno un impatto devastante e non sono per niente compensate dai premi PAC, che con l’istigazione delle organizzazioni agricole generaliste, sono sovente più bassi che per l’integrato.

I costi diretti e indiretti della burocrazia non solo inducono molti a lasciare, ma scoraggiano anche altrettanti dall’entrare nel sistema.

Le ultime annate sono state di gravi difficoltà: insetti nuovi mai conosciuti prima che distruggono le produzioni, grandinate, gelate, prezzi dell’energia impazziti (da agosto 2019 a agosto 2022 quello del gas è decuplicato, come ben sa chi ha trasformato pomodoro, è andata poco meglio a chi gestiva celle frigorifere), aumento praticamente di tutto, dal gasolio ai vasi di vetro, fino ai guanti da lavoro.

Non ci sono più listini: ti servono bottiglie di vetro o cassette da frutta? Chiama e chiedi la quotazione a oggi. A oggi, e sempre che ci siano, ritieniti fortunato.

Tutto questo scombina le relazioni con i clienti sulla base di contratti o listini annuali: le aziende cercano di sostenere i costi fino a quando possibile, ma nell’ultimo triennio il divario tra prezzo di vendita e costi di produzione si è assottigliato in maniera preoccupante.

“Come possiamo lavorare così?” chiede una piccola impresa che trasforma, per poi rettificare “Per quanto potremo ancora lavorare così?”

“Togliamo filari” è una frase che si sente sempre di più, ma un riequilibrio tra domanda e offerta che passi per “togliere filari” e vendere terreni è una bruciante sconfitta, su cui non si può non riflettere.

Lasciando i laboratori in campagna, il canale GDO rallenta per i prodotti “secchi” (con segno positivo solo i discount), l’ortofrutta tiene, ma arranca.

Su 25 categorie di prodotto secco per i dodici mesi terminanti a ottobre 2022 in ipermercati, supermercati, discount e libero servizio si registra un calo medio del 6.4% in valore e del 7.9% in volume rispetto ai dodici mesi terminanti a ottobre 2021 (il che sta a dire che, nella media, non si registrano aumenti di prezzo).

Se ci concentriamo sui discount, invece, registriamo un aumento di vendite del 6.3% in valore e del 3.5% in volume (quindi in media con un incremento di prezzo, anche se nettamente inferiore all’inflazione); il tasso di crescita è superiore a quello registrato nel canale per l’assortimento complessivo delle categorie in esame (bio e non bio), che è del 4.2% in valore.

Escludendo i discount, in iper, super e libero servizio il calo è del 10% in volume e dell’8.2% in valore.

Visto l’andamento, tra i buyer non serpeggia soddisfazione, ma per ora nemmeno il panico (per le stesse categorie nel complesso bio e non bio non c’è alcuna variazione in valore, ma il volume è calato del 3.9%), sono ancora possibili nuovi inserimenti, mentre si rinviano ampliamenti di gamma.

Per l’ortofrutta si usciva da un triennio con vendite medie intorno ai 300 milioni e volumi intorno ai 68 milioni di kg (relativamente ai prodotti a peso imposto, sia a marchio del produttore che a private label).

annoValore (EUR)Volume (kg)
2021304.769.30171.681.578
2020304.690.37562.578.067
2019295.688.25470.009.422

Il 2022 era partito bene, ma l’invasione dell’Ucraina ha cambiato le carte in tavola, con pesanti rincari in primis per l’energia, poi per gasolio, carta e altri materiali per imballaggio, personale e manutenzioni, per finire con la minor propensione all’acquisto.

Mentre produttori e trasformatori subivano questi rincari, la GDO si è lanciata in sconti e promozioni per dimostrare la sua vicinanza alle famiglie. Come investimento a tutela dei consumatori e del mercato, produttori e grossisti non han scaricato gli aumenti sui clienti, salvo qualche correzione in casi eccezionali di prodotti ricercati, ma di difficile reperibilità (le proverbiali zucchine ad agosto e settembre e i limoni a giugno, gli avocado siciliani che, con il blocco dei container, si sarebbero potuti vendere a peso d’oro).

Nel frattempo, nonostante le difficoltà in molti mercati, l’export ha tirato ed è stato redditizio, il che ha comportato qualche difficoltà a garantire le quantità e la pezzatura richieste dalla GDO nazionale.

Il 2022 ha visto un incremento dei costi dei trasporti del 25/30%, dal 20 al 70% per il materiale da imballaggio, con enormi difficoltà di reperimento dei materiali biodegradabili o compostabili ormai standard nella GDO.

Un’altra criticità da non sottovalutare è stata l’aumento della frequenza delle assenze del personale per malattia, con il corollario della difficoltà a trovare sostituti a chiamata, della necessità dei distanziamenti e di formazione continua.

Anche a causa del lancio del residuo zero (che, come in Francia il marchio patacca Haute Valeur Environnementale HVE, confonde i consumatori) e della scelta di alcune catene di inserirlo in assortimento come categoria intermedia tra il prodotto di massa e il biologico, le vendite di ortofrutta a novembre sono intorno al -1% in volume e al -2% in valore, ma questo grazie al circa +15% del primo semestre.

Dopo anni di crescita, anche a doppia cifra non solo nel biennio contrassegnato dal COVID, da agosto in poi alcuni operatori sfiorano il -20%.

In valore le vendite 2022 segnano all’incirca un -4% rispetto al 2020 e un +3% rispetto al 2019.

Le referenze che hanno sofferto di più sono quelle i cui costi in produzione sono aumentati di più e per cui i clienti sono più esigenti: finocchi, tutti i cavoli, ma anche le pere, buonissime, ma meno belle che negli anni precedenti, con gli uffici controllo qualità della GDO che spesso le hanno respinte al mittente, senza nemmeno farle arrivare sui banchi.

Buono l’andamento dei prodotti esotici, che ormai per i cambiamenti climatici si coltivano anche in Sicilia (avocado, zenzero e mango), come pure quello delle mele, in cui produttori e distributori hanno concordato promozioni efficaci che hanno aumentato i volumi. Bene anche prodotti che hanno avuto una stagione più lunga, come susine e uva e gli articoli preparati (zucca a cubetti, cuore di sedano, la mezza verza).

È escluso che i prezzi possano essere ritoccati verso l’alto, viste le comunicazioni con cui le catene comunicano di non poter più accogliere aumenti di listini, “in quanto rischierebbero di ricadere sui consumatori”: ricadano pure sui produttori.

Ora, ci sta che il consumatore sia preoccupato dall’incremento del carrello della spesa (+12,8%, secondo l’ISTAT) e per le bollette energetiche.

Ma diciamoci anche che, ci piaccia o meno (ricordo che quando Franco Zecchinato mi illustrò la sua idea di quella che poi diventò la cooperativa El Tamiso, pensava a una mensa biologica da istituire in piena zona industriale, perché gli operai avevano diritto a un’alimentazione sana e sicura, vivaddio), la maggioranza dei consumatori è costituita da un ceto medio a reddito fisso, che ha attraversato indenne la crisi finanziaria del 2007/2008 e uscirà senza troppe ammaccature anche da quella in corso.

Per carità, non voglio imporre il concetto di sobrietà obbligatoria, ma anche se bollette e scontrini sono più pesanti, si deve ammettere che la qualità della vita non crollerà se invece di acquistare l’iPhone 14 pro si tiene in tasca per un altro anno o due l’iPhone 8 che funziona ancora da dio.

Cazzo, avrebbe detto mia nonna Jolanda: ci si lagna per il prezzo delle patate e intanto abbiamo 9 milioni di abbonati a Netflix, 4 milioni di abbonati Sky, 3 milioni e mezzo di abbonati a Disney+.

Con 0.99 EUR per 1 kg di arance, 1 EUR per 2 kg di clementine, 0,78 EUR per 700g di carote, 0,67 EUR per 1 litro di aceto (promozioni on line prese oggi) non si pagano i costi della logistica, i margini della GDO e il materiale da imballaggio, immaginiamoci se si pagano prodotto, mezzi tecnici, costi delle macchine, assicurazioni, manodopera e contribuiti, contributi consortili, ammortamenti e costi opportunità (e per comodità lasciamo stare i costi ambientali esternalizzati).

Non possono essere i prezzi di riferimento né per noi, né per il consumatore, ma dobbiamo riuscire a farlo capire.

Nelle gare d’appalto vige il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, quello del massimo ribasso è stato messo in soffitta da mo’.

Non c’è alcun dubbio che una produzione agroalimentare biologica (che magari tenga anche conto di tutti i “considerando” dei regolamenti e non solo degli articoli tecnici e degli allegati) è nettamente più vantaggiosa – per tutti – rispetto a una produzione convenzionale che letteralmente avvelena i pozzi, dissesta il suolo, maltratta gli animali, devasta il tessuto sociale delle aree rurali, attenta al clima e ha come output alimenti impoveriti.

Né il monopolista né le organizzazioni sono state in grado di consolidare questo concetto nel vissuto del consumatore, lasciando, invece, che si stratificasse quello del prodotto biologico costoso e radical chic, come se la sostenibilità della produzione fosse non un ovvio pre-requisito, ma un optional trendy.

Non solo, c’è una preoccupante assenza di proposte che non siano la stupidaggine del credito d’imposta per i costi di certificazione.

Vent’anni fa in Francia (che al momento non se la passa meglio di noi, casomai possiamo tornarci) il settore ha saputo ottenere Agence Bio, il gruppo di interesse pubblico-privato incaricato dello sviluppo, della promozione e della strutturazione del biologico nazionale.

Nei giorni scorsi la Maison de la Bio (l’organizzazione unitaria del biologico nazionale) e IFOAM-France sono riusciti a ottenere dalministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare 750mila EUR per una nuova campagna di comunicazione a cui tutte le organizzazioni interprofessionali sono state invitate a dare un contributo finanziario e di contenuti.

Garantite ad Agence Bio anche ulteriori risorse finanziarie per avviare entro fine anno uno studio per acquisire rapidamente una comprensione dettagliata della crisi, allocati 13 milioni di EUR ai Fonds Avenir BIO per finanziare progetti volti a strutturare e sviluppare il mercato, assunto l’impegno a un nuovo programma Ambition Bio per raggiungere l’obiettivo del 18% della superficie agricola biologica di qui al 2027 e messi a disposizione 340 milioni di EUR l’anno nel nuovo piano della PAC 2023-2027 per sostenere gli agricoltori nella conversione. 

Sono risultati che si possono ottenere (o che almeno ci si può ragionevolmente impegnare per ottenere) se si hanno le idee chiare a fronte di una discussione unitaria, di una consapevolezza e di una sintesi unitaria e di un’azione unitaria.

Da questa parte delle Alpi il settore biologico è invece affetto da almeno trent’anni dalla malattia infantile del frazionismo e dell’interesse particolare.

È funestato dal fatto che, magari dopo averci provato senza gran costrutto, gli imprenditori han smesso di impegnarsi nelle organizzazioni e s’impegnano nelle loro imprese, lasciando spazio a galletti sazi di essere primi in Gallia piuttosto che secondi a Roma.

Le collaborazioni sono sporadiche, tattiche e non strategiche; dopo che IFOAM Organics Europe è riuscita a far istituire l’European Organic Day di settembre per celebrare il biologico continentale e per promuovere la transizione agroecologica non si è nemmeno stati capaci di organizzare unitariamente una giornata biologica italiana richiamando i riflettori dei media sul settore.

No, correggo, qualcosa di corale si è visto: il plauso alla legge 23/2022 (ex DDL 988) che non ci tutela, non sostiene lo sviluppo e la competitività del settore e rischia di regalarlo –acciaccato- a chi per anni lo ha visto come fumo negli occhi e non ha affatto mancato di dimostrarlo, ampio archivio a disposizione degli studiosi…