Un allevamento tradizionale di bovine da latte in Val d’Aveto
Nonostante il polverone sollevato in questi giorni da Coldiretti e dal suo Ministro della sovranità alimentare contro la carne “sintetica”, è ormai da tempo assodato che se vogliamo mitigare il cambiamento climatico dovremo consumare meno carne e latticini. Con che cosa sostituirli nella nostra dieta è da vedere, ma i grandi allevamenti intensivi costituiscono un grave problema per la CO2, per le deiezioni, per le polveri sottili, e non solo. E’ un problema che va in qualche modo risolto pur non penalizzando per questo coloro che di questo lavoro vivono.
Tuttavia, come bene ha spiegato il think tank francese La Fabrique Ecologique (vedi il nostro articolo dell’aprile scorso: https://storiedelbio.it/2022/04/26/ruminanti-addio/ ) non si tratta di eliminare del tutto il consumo di carne e latticini. Se i ruminanti vengono alimentati fondamentalmente a base di erba il bilancio tra la CO2 assorbita dai pascoli e dai prati e quella emessa dal bestiame è sostanzialmente positivo. In più questa soluzione presenta tutta una serie di vantaggi ulteriori relativamente al ripopolamento delle campagne, ai servizi ecologici, al paesaggio, che altrimenti verrebbero compromessi. Tutto ciò è relativamente facile e già in parte presente in un paese come la Francia che, esclusa la zona alpina, presenta una conformazione del territorio favorevole e che dispone di vaste zone prative che facilitano l’allevamento brado. Ma fino a che punto questa soluzione sarebbe attuabile in un paese in gran parte montuoso come l’Italia? Con l’abbandono delle nostre montagne abbiamo ancora abbastanza praterie per tornare a allevarci un gran numero di ruminanti? E in che forme e a quali condizioni ciò potrebbe avvenire senza generare ulteriori problemi?
Queste sono le domande che mi ponevo andando a parlare con Massimo Monteverde che alleva bovine da latte e produce formaggi in Val d’Aveto. Siamo sull’Appennino ligure-emiliano ad altitudini comprese tra gli 850 e i 1.500 metri. Pur trovandosi a poca distanza del Golfo del Tigullio la Valle è una tipica zona interna, difficilmente raggiungibile e povera di servizi, dove l’insediamento umano sopravvive principalmente grazie al turismo e alla resistenza di un piccolo numero di contadini-allevatori. La Valle, storicamente importante per le sue foreste che rifornivano di legname pregiato la Repubblica di Genova e nota per i suoi formaggi, ha conosciuto intorno alla fine dell’Ottocento una prima ondata migratoria verso l’America per poi venire progressivamente spopolata dopo la seconda guerra mondiale ( vedi: G. Canale, M. Ceriani, Contadini per Scelta. Esperienze e racconti di nuova agricoltura, Jaca Book 2013, pag. 117 e segg.).
Massimo, che ha qui profonde radici familiari, dopo aver studiato Agraria a Piacenza e lavorato in una cooperativa agricola dell’alta Val Trebbia, è tornato nel 1995 a occuparsi dell’azienda agricola familiare “Mooretti” situata ad Allegrezze, una delle frazioni del comune di Santo Stefano d’Aveto. Oggi conduce l’azienda, in cui alleva bovine da latte e produce formaggi, con l’aiuto di uno dei suoi tre figli e della moglie che si occupa del caseificio artigianale. Vicino all’abitazione, al caseificio e alla stalla si trovano circa 50 ettari occupati da pascoli, qualche seminativo, prati e pascoli arborati, questi ultimi peculiari di questa parte della Valle (vedi: “I pascoli arborati di Santo Stefano” in Mario Agnoletti, Atlante dei boschi italiani pag. 112 e segg.). Come avviene su queste montagne, in cui le superfici utili sono state strappate alla selva, la proprietà è costituita da piccoli appezzamenti sistemati con muretti e ciglioni, frutto del lavoro di generazioni e generazioni.
Colloquio con Massimo Monteverde
Allegrezze, 3 aprile 2023
Mi ero fatto l’idea che tu facessi un allevamento decisamente sostenibile già quando ci siamo conosciuti nel 2010. Allora avevo portato qui il mio caro amico Massimo Ceriani, oggi purtroppo scomparso, che stava iniziando quella ricerca che poi avremmo continuato insieme e pubblicato nel libro “Contadini per scelta”. Allora ci interessavano soprattutto le storie di vita e di lavoro, le motivazioni, che portavano alcune persone a fare un’agricoltura contadina, cercando anche di capire in cosa questo tipo di agricoltura ( e allevamento ) consistesse. Adesso vorrei invece comprendere in cosa consista la sostenibilità dell’allevamento bovino in zone come questa, dove alcuni pensano che sia possibile ripristinare un allevamento diffuso come un tempo. Cominciamo partendo da quante bestie hai.
Al momento ne ho 25 tra vacche, manze da latte e vitelli, più del solito perché quest’inverno non si riesce a vendere i vitelli. Nessuno prende un vitello nemmeno a regalarglielo; il cibo per il loro allevamento è costoso e quindi tutti procrastinano l’acquisto.
Dunque tieni solo mucche da latte per fare il formaggio?
Sì, la vendita dei maschi dovrebbe essere un ricavo utile per coprire le spese sostenute per la riproduzione.
Le cose che mi interessano sono tante, per esempio il tipo di animali. Molti tengono le Limousine. Tu che razza tieni?
Allevo le Bruna Alpina che pesano meno delle Limousine. Le Bruna, quelle proprio grosse, sono sui 6 quintali. Sono animali che sono adatti ad allevare in montagna. Sono una razza originaria delle Alpi svizzere, la loro evoluzione naturale è stata sulle montagne. Le Limousine invece vengono dalla Francia dove di montagne non ce ne sono tranne che nelle Alpi.
Questa è già una scelta significativa, ma come vedi in generale la questione della sostenibilità?
Ci sono molte cose da valutare. In primo luogo la produzione di CO2 dell’allevamento. Le attività zootecniche sono probabilmente la terza fonte di CO2 dopo la produzione di elettricità e quella del cemento. Il problema è che col sistema mercatista ci siamo infilati in una spirale per cui la cosa importante è la redditività economica, cioè gli allevamenti devono produrre molto. Da ciò deriva l’industrializzazione di tutti i processi. Per cui produzione industrializzata di cereali dedicati agli animali, allevamenti di un certo tipo e tutta la catena a cascata fino al consumatore finale industrializzata il più possibile. Questo serve in teoria per rendere accessibile il prodotto finito alla platea più larga possibile di utenti. Che in sé non è sbagliato perché l’accesso al cibo dovrebbe essere sacrosanto.
Ma è proprio necessario mangiare carne tutti i giorni?
Sicuramente se mangiassimo carne o prodotti animali 4 volte alla settimana invece che 7 avremmo quasi dimezzato l’impatto ambientale della nostra alimentazione. Fermo restando che poi bisogna vedere se è possibile impostare gli allevamenti in un altro modo. Nel senso che non è detto che le mie vacche debbano mangiare la soia che viene dal Brasile
Chi difende gli allevamenti intensivi sostiene che la CO2, emessa per kg di carne, negli allevamenti intensivi è minore di quella emessa dalle forme di allevamento a base di erba!
Però il problema è che sei dentro una spirale per cui devi produrre sempre di più. Cioè questa è una catena non si ferma mai: prezzi più bassi – margini più bassi – ingrandimenti/investimenti/debiti – prezzi più bassi – margini ulteriormente ridotti.
Secondo la logica produttivista che contesti nel momento in cui allevi la Bruna alpina sei già fuori…
Però se ci mettiamo a fare i conti economici vediamo che loro con questo sistema oggi sono più o meno in linea con la legge del mercato. Ma domani sono già sotto con i costi e quindi devono incrementare. Un anno sì e uno no devono sempre aumentare. Anche se inquinassero di meno per unità di prodotto, comunque in termini totali l’inquinamento è molto alto. In sostanza secondo me sarebbe meglio produrre meno e quindi, per la legge del mercato, avere un riconoscimento migliore in termini di prezzi dei prodotti. Chiaramente se ci mettiamo di mezzo tutta l’industria agroalimentare, questa si fa fuori una fetta enormemente superiore del prezzo finale rispetto a quella degli altri attori della catena. Anche questo sarebbe un discorso da rivedere, quantomeno rifletterci su. Effettivamente i piccoli produttori per un kg di prodotto forse potrebbero inquinare di più. Però io non sono tanto convinto. E’ vero che hanno rese minori però utilizzano molti meno cereali che sono la prima fonte di emissioni.
Secondo gli studi francesi che ho pubblicato nel blog l’aprile scorso i prati permanenti usati per l’allevamento a base di erba, e persino le praterie temporanee, compensano ampiamente il metano emesso dai bovini. C’è anche chi sostiene che si potrebbe allevare in stalla facendo per esempio l’erba medica come si faceva in pianura padana con le marcite. Poi c’è tutto il discorso di come allevi gli animali, del loro benessere. Su 365 giorni quanti riesci ad averne qui da te di lattazione?
Bisogna vedere quant’è l’intervallo tra un parto e l’altro che negli allevamenti intensivi dev’essere il più breve possibile perchè quando la mucca partorisce c’è il picco di lattazione, è il momento che fa più latte. Quindi più sono vicini i picchi di lattazione, più latte produce la mucca. Noi quando la vacca va in calore la fecondiamo e speriamo che resti gravida. Se invece di due mesi ce ne mette tre, pazienza. Delle 14 vacche che abbiamo, mediamente in lattazione ce ne sono 11-12, poi magari c’è il momento che lo sono tutte 14 e un altro in cui ce ne sono 9. Il problema è che ci hanno insegnato che l’animale per stare bene dev’essere libero, deve girare. E’ vero, ma fino a un certo punto perché negli allevamenti intensivi gli animali sono tutti liberi, non sono legati , però la vita media di questi animali è inferiore a 5 anni. Nel nostro allevamento dove d’inverno gli animali se ne stanno alla catena, sono riparati dal freddo, dal ghiaccio, dalla grandine, dall’acqua, dalla neve, mangiano e dormono, la vita media è tra gli 8 e i 9 anni. Nel complesso il discorso sul benessere degli animali va ribaltato. Il problema non è la stalla in sè che ha le sue ragioni come qui su questi monti, sono le grandi stalle degli allevamenti intensivi in cui sono confinate le mucche che sono trattate come macchine da latte.
Tra dire sempre all’aperto, come in certi paesi, o sempre in stalla bisognerebbe prima capire quali sono i motivi per cui si usa la stalla…
Su questi monti ci sono dei periodi in cui se gli animali li mandi fuori è controproducente, rovinano il pascolo. Il pascolo, anche se quasi nessuno ci pensa, andrebbe considerato una coltura come le altre, andrebbe coltivato come hanno sempre fatto i vecchi e come facciamo ancora noi. Qui da noi il cotico è molto sottile e se gli animali girano sul pascolo quando non c’è erba lo distruggono; così quando piove viene via tutto e non va bene.
Mi piacerebbe ricostruire con te tutte queste cose. Da come scegli le bestie e le allevi, a come coltivi pascoli e prati, a come le alimenti e le tratti, a quanto latte produci e come lo usi. Tra l’altro mi dicevano che su questi monti le mucche non le slegavano finché non si era finito di fare il fieno…
Il momento i cui mollavano le vacche sui prati non era lo stesso in tutti i paesi però la pratica era quella. Qui da noi ha sempre funzionato così: verso la fine di maggio cominciavano a far uscire gli animali. Si cominciava a fare il fieno verso la fine di giugno ma le vacche andavano nei pascoli e non nei prati dove si faceva il fieno. Su quelli ci andavano a settembre, ottobre, novembre, quando dopo i temporali era ricresciuta l’erba. Ma con moderazione perchè se gli animali rovinavano il prato, l’anno dopo non ci sfalciavi più, c’era poco fieno. C’è sempre stata un’attenzione maniacale a queste cose. Le mandrie erano molto piccole perché quelli che avevano 5 o 6 vacche erano già dei possidenti. Altrimenti ne avevano solo due o tre. Certo gli appezzamenti erano molto piccoli ma per ciascuna mandria c’era un pastorello che si assicurava che non facessero guai, che non sconfinassero, e via dicendo. Adesso la nostra organizzazione è che generalmente il primo sabato dopo la metà di maggio, a seconda di com’è la stagione, cominciamo a farle uscire. Sempre che ci sia abbastanza erba. Non puoi farle uscire se ci sono solo tre dita d’erba perché in un giorno se la mangiano tutta e cominciano a rovinare il cotico. Dev’esserci erba in abbondanza per gli animali così mangiano tranquillamente e non fanno casino.
Ho visto che hai diversi recinti. Quindi le sposti da una zona di pascolo all’altra?
Le mando subito nel posto dove l’erba è più precoce, dove matura prima. Quando hanno finito le sposto su un altro posto secondo l’ordine di maturazione, lasciando per ultimi quelli esposti al nord. Così ad agosto, quando magari ci sono 35 gradi lì ce ne sono 25, l’erba è bella fresca e le bestie ci stanno volentieri perché c’è fresco e così usano anche quello. Se ce ne hai delle porzioni che sono pascoli arborati o sono dei boschi radi, puliti, che sotto c’è l’erba, quelli li tieni per dopo perché l’erba si mantiene fresca più a lungo. Dove ci sono dei frassini mangiano volentieri anche le loro foglie ma vanno bene anche i sambuchi. Se ci sono delle manze, delle bestie giovani che non tornano la sera alla stalla, come invece avviene per le mucche in lattazione, a volte mangiano anche le foglie delle rose canine e pure quelle dei prugnoli.
In altre zone del nostro Appennino, vedo che le praterie si sono riempite di cardi e asfodeli che le vacche non mangiano…
Non è che una volta non c’erano questi tipi di essenze. Allora, quand’era stagione, i contadini andavano a toglierli in modo che non andassero in seme per la stagione successiva. Altrimenti se rimangono si moltiplicano. Se c’è tanta terra scoperta dove gli animali sostano troppo a lungo è chiaro che quelle attecchiscono e si allargano. Per dire la verità, metà dei nostri pascoli dove adesso mandiamo gli animali erano prati dove ci si faceva solo il fieno. I prati-pascolo sono quelli dove ci mandi gli animali dopo aver fatto il fieno. Quella metà dei nostri pascoli che una volta erano prati, prima ancora erano seminativi.
Quindi tenevano poche bestie anche perché seminavano…
Sì. Purtroppo non ci sono più fisicamente le forze per fare il lavoro che si faceva allora. Però la produzione di latte per il formaggio c’è sempre stata. Qui lo si fa da almeno mille anni, era la sola risorsa commerciabile che avevano, poi nell’Ottocento hanno messo le patate, ma per ricavare moneta c’era solo il formaggio. Però l’utilizzo del pascolo ha anche il vantaggio che, se gli animali mangiano l’erba, non rimane roba secca l’inverno successivo. Spesso non ci si pensa ma con il mutamento climatico il pericolo degli incendi diventerà sempre più grave. Negli ultimi 25 anni nella nostra zona non ci sono stati incendi. Ciò anche grazie al fatto che ci sono gli animali. Un contributo lo danno loro mangiandosi l’erba, un altro lo diamo noi facendo la fienagione.
Considerando l’inselvatichimento e la sparizione di molte zone prative del nostro Appennino, secondo te è possibile riportarle allo stato di pascoli e prati per mandarci, almeno in parte, il bestiame che ora sta negli allevamenti intensivi di pianura?
No, non c’è nessuno che abbia voglia e sia in grado di recuperarli. Quando c’è tempo io e mio figlio cerchiamo di recuperare qualche pezzo di terra abbandonato. Ma, in termini generali sarebbe un lavoro immane, non è una cosa economicamente sostenibile.
Ma non si potrebbero utilizzare anche i pascoli arborati tipici di questa valle?
Le bestie magari mangiano anche le foglie, però anche i pascoli arborati devono essere curati, dev’esserci l’erba altrimenti non ci vanno nemmeno. Vanno curati anche i prati che devono essere concimati. Se un appezzamento è troppo in pendenza per andarci con la spargitrice lo teniamo a pascolo, così ci pensano le mucche a concimarlo.
Per le 25 bestie che hai ora di quanti ettari di prato e quanti di pascolo hai bisogno?
Per ogni bestia servono un ettaro di prato e un ettaro di pascolo. Il problema è che sulle Alpi e sugli Appennini questo tipo di attività è sostanzialmente abbandonato, con tutta una serie di problemi compresi gli incendi. Dove c’è la zootecnia intensiva invece di un animale ogni due ettari ce ne sono quattro per ogni ettaro. Così ci sono grossi problemi di inquinamento. Nel caso in cui gli allevamenti di pianura facciano la monticazione ci sono in teoria dei regolamenti che stabiliscono quanti capi puoi portare in funzione della superficie. Stabiliscono anche quando puoi monticare e quando scendere a valle. Bisogna vedere se poi queste regole vengono fatte rispettare, altrimenti creano dei danni anche gravi in queste zone spesso in forte pendenza e con pochi centimetri di cotico.
Con questa tua forma di allevamento quanti litri al giorno di latte fanno, in media, le tue mucche?
Le nostre mucche fanno mediamente 14 litri d’inverno e 15-16 d’estate quando vanno al pascolo e c’è l’erba fresca.
Sono rese molto più basse di quelle che si ottengono negli allevamenti da latte intensivi…
Nelle stalle specializzate devono produrre da 35 litri in su per capo. Altrimenti il margine operativo è troppo basso ma per produrre tanto devi spendere tanto. Non c’è solo il problema dell’inquinamento che generano questo tipo di allevamenti. C’è anche un problema economico quando ad un animale devi dare 15 kg di cereali.
Ma tu con cosa le alimenti d’inverno?
Gli do il fieno e anche un po’ di cereali, ma non certo 15 kg. Do loro una miscela di orzo, soia e mais. Io uso anche la crusca che otteniamo dalla macinazione del nostro grano, ma è un alimento poco sostanzioso che è poco conveniente comprare. Però un conto e’ usare 15 kg di cereali e un altro è usarne 3 come facciamo noi. Per i ruminanti come le mucche, che devono comunque ricevere una quantità sufficiente di fibre, i cereali sono un aiuto a produrre e mantenersi in salute, però bisogna vedere la quantità che usi. Dal punto di vista sanitario, se non le spingi a produrre molto, generalmente non hanno problemi e vivono a lungo. Ne ho una che ha 14 anni e deve di nuovo partorire.
Qui, oltre le mucche, si allevavano altri animali come pecore e capre?
Una volta qualcuno teneva ancora le pecore ma una ventina di anni fa sono arrivati i lupi e hanno dovuto smettere. Capre non ce ne sono mai state perché sono animali molto difficili da gestire al pascolo. Quei pochi che hanno provato poi coi lupi hanno rinunciato. I lupi finora hanno tenuto lontani i cinghiali dai nostri prati ma generano a loro volta altri problemi.
Il fieno te lo fai tutto tu?
In generale ce lo facciamo noi sui nostri prati dove facciamo anche l’erba medica. Poi può succedere, come l’anno scorso, che ce ne sia mancato per la siccità e ne abbiamo dovuto comprare un po’. Se posso compro foraggio di erba medica che per le vacche da latte è l’ideale.
Ma il pascolo si può seminare come l’erba medica?
Volendo ti fai il tuo miscuglio di essenze. Sì, si possono arricchire anche i pascoli esistenti, ma puoi fare anche dei pascoli nuovi come hanno fatto in certe zone al posto delle coltivazioni che facevano prima. Per la concimazione, nei pascoli provvedono le vacche stesse, mentre nei prati provvediamo noi usando il concime che si produce d’inverno nella stalla.
Come valuti il tuo allevamento rispetto alla sua sostenibilità?
La sostenibilità al 100% non esiste. Per la legge dell’entropia non si torna indietro. Però i piccoli allevamenti che lavorano con questi sistemi piuttosto arcaici una sostenibilità ce l’hanno. Se mettiamo sulla bilancia tutti i fattori negativi e tutti quelli positivi, i fattori positivi sono senz’altro maggiori. Se poi avessimo la possibilità di fare gli investimenti necessari per generare noi stessi l’elettricità che ci serve e usassimo motori elettrici per i macchinari la nostra sostenibilità sarebbe ancora più alta.
Voi avete qualche contributo, qualche riconoscimento tipo PAC per i servizi ecologici?
La Regione ci da qualcosa che viene dalla Comunità europea per il mantenimento di prati e pascoli. Non sono incentivi alla produzione come viene di solito intesa tra di noi la PAC. Il contributo per prati e pascoli è stato introdotta in Liguria solo circa 25 anni fa, prima non era possibile. I fattori positivi devi imparare da solo a farteli riconoscere. Nel senso che se tu fai tutta una serie di operazioni meritorie e poi vendi il latte sul mercato, chiaramente nessuno ti riconosce il maggior valore del tuo latte.
Mi dicono che il latte biologico viene pagato bene, il tuo latte è certificato biologico?
No. Ci vorrebbe l’acquirente, sei sempre vincolato a quello. Qui da noi non ce n’è nessuno. Però se anche ci fosse un caseificio biologico a 200 Km di distanza, come fai a relazionarti col latte? Invece se fai semplicemente un buon formaggio, anche non certificato come nel nostro caso, e lo fai seguendo una certa filosofia, anche se non lo vendi a un prezzo più alto di quello che trovi in qualsiasi negozio, hai già il riconoscimento per il tuo lavoro. Certo rispetto a chi si limita a vendere il latte abbiamo in più i costi del nostro caseificio ma, facendo il formaggio, il margine può essere molto maggiore. D’altra parte se un mio cliente prendesse il formaggio da un caseificio di fondovalle alla fine lo pagherebbe come il mio. Anche per il consumatore finale il prezzo più o meno è sempre quello, non ci sono delle grosse differenze.
Parlami della Valle. Per voi allevatori ci sono stati dei cambiamenti rispetto a 13 anni fa quando ci siamo visti la prima volta?
Qui gli allevatori sono una razza in via d’estinzione. Andrebbe dato un contributo a chi adotta un allevatore. I caseifici artigianali come il mio che hanno le bestie si sono mantenuti, invece sono spariti gli allevatori che vendevano il latte. Fai conto che nel 1981 nel comune di Santo Stefano d’Aveto c’erano 1.500 vacche da latte, senza contare gli animali giovani. Adesso ce ne saranno rimaste 60-70; a 100 non ci arriviamo di sicuro.
Non ci sono più neanche le praterie, i pascoli di una volta?
Non ci sono più neanche i cristiani, figurati gli animali. Se guardi le foto di un tempo vedi che qui erano tutti prati fin sotto le cime con zone boscate piuttosto ridotte.
Quindi tu come vedi in generale la questione della sostenibilità?
E’ una strada obbligata. Anche nell’allevamento, come negli altri settori, ci sono un sacco di resistenze ma dovremo comunque cambiare le nostre abitudini. Però se produrremo di meno sicuramente i nostri prodotti varranno di più. Quindi da quel punto di vista ci sarà una compensazione immediata.
Secondo te una proliferazione di aziende come la tua, un po’ di ritorno alla montagna, è possibile?
No. E’ scomoda la vita in montagna. Mia figlia è arrivata adesso da scuola. Sono le 16 ed è partita stamattina alle 5.30 per andare a Chiavari. Quando io andavo a Piacenza per fare l’Istituto Agrario non era neanche possibile andare avanti e indietro, come ancora adesso. Non c’erano i collegamenti, ho abitato 4-5 anni fuori casa. I problemi sono sempre questi. I servizi sono in città, cosa vuoi che si torni nelle campagne. Non è solo un problema della montagna ma lo trovi anche nei piccoli comuni della pianura Padana, dove a volte è peggio che qui.
Ma se qualcuno volesse comunque avviare un nuovo allevamento come il tuo?
Se non avesse già casa, stalla e la terra dovrebbe fare un investimento esorbitante il cui ritorno è tutto da vedere. Gli aiuti che danno adesso ai giovani servono soprattutto per i figli di quelli che hanno già un’attività
Tutti dicono che in queste zone il clima è molto cambiato e che nevica molto di meno.
Il 6 giugno del 1967 quando sono nato ne è venuta mezzo metro. C’erano già su degli animali alla monticazione, sono dovuti andare a recuperarli di corsa perché c’era così tanta neve che dicono gli sia anche morto qualche animale giovane. Questa è una zona molto piovosa, generalmante cadono circa 2.000 millimetri all’anno, ma adesso il clima sta cambiando. L’anno scorso c’è stata una forte siccità e se succede lo stesso anche quest’anno saranno guai seri.
N. B. Ogni errore o omissione è di esclusiva responsabilità dell’intervistatore