Quale futuro per i negozi bio indipendenti?
I negozi bio specializzati hanno svolto per molto tempo un ruolo fondamentale nella promozione e nella diffusione dei prodotti biologici in Italia. Tuttavia è ormai da qualche anno che questi negozi, specialmente quelli indipendenti, diminuiscono di numero e, salvo eccezioni, hanno sempre più difficoltà a tirare avanti. Le ragioni sono dovute a una pluralità di fattori che sono, almeno in parte, comuni. Negli anni scorsi il fattore comune più importante è stato il successo stesso del biologico che ha fatto scendere più decisamente in campo nuovi e potenti attori: non solo la GDO e le nuove realtà dello e-commerce ma anche NaturaSì che ha sussunto molte delle realtà indipendenti. I negozi bio indipendenti che sono meglio riusciti affrontare la nuova situazione sono stati quelli che hanno saputo trovare formule commerciali capaci di differenziarli rispetto a questa più agguerrita concorrenza per, quantomeno, fidelizzare la propria clientela. In questo quadro già difficile la pandemia, la guerra e le loro conseguenze economiche, hanno costituito una miscela esplosiva che, se in un primo tempo può aver portato ad alcuni dei benefici, adesso fa emergere con più forza il tema dei prezzi mettendo in luce vecchie e nuove criticità.
A questo punto non è detto che le forme di differenziazione suggerite da più parti possano costituire da sole una strategia vincente. Urge un confronto e una riconsiderazione delle linee d’azione fin qui adottate ma rimane pur sempre decisivo, com’era fin dalle origini, il rapporto con i produttori.
A questo scopo si è tenuto a Parma il 14 maggio scorso, presso ReteBio, un incontro tra operatori del settore, dei cui sviluppi potremo tener informato chi ne farà richiesta. Per quell’occasione alcune personalità del settore hanno prodotto dei documenti di lavoro che, pur nelle loro caratteristiche eterogenee e contingenti, riteniamo possano interessare un pubblico più vasto. Vorremmo in questo modo stimolare un confronto e una riflessione più ampi sugli argomenti trattati.
Il primo dei testi che seguono è una specie di canovaccio dell’intervento introduttivo tenuto da Roberto Pinton (IFOAM – Bioqualità). I testi successivi, di Renzo Agostini ( TerraeSole – Rimini ), Alberto Berton ( bioeco.net ) e Pacifico Aina (Cascina Dulcamara – Polyculturae), sono stati mandati da chi, per varie ragioni, non ha potuto partecipare all’incontro. L’ultimo testo, quello di Marco Bignardi (già coordinatore di Toscana Biologica ), è anche una sorta di bilancio di un’esperienza purtroppo ormai conclusa.
ROBERTO PINTON
Nel caso della precedente crisi economica generale del 2008/2009, a dispetto di chi vaticinava un crollo delle vendite biologiche, sono iniziati 11 anni di crescita costante dei consumi, che in GDO hanno portato la quota di mercato dall’1.34 della spesa alimentare (2008) al 3.55% (2019), pur molto meno della quota in Danimarca, Svizzera, Austria, Germania e Francia.
A dire il vero in GDO la seconda metà del 2019 già evidenziava segni di rallentamento (poi accentuati nel 2020 e 2021), ancora più sensibili nel canale specializzato (uno dei cui problemi è che è sempre mancata una rilevazione puntuale delle vendite, con i numeri presentati nei convegni più o meno “aggiustati” dalle organizzazioni a fini promozionali). 2020 e 2021 non sono anni normali, hanno avuto andamenti drogati dagli impatti del Covid prima e dalla guerra poi, ma sono gli anni che stiamo vivendo e in qualche maniera dobbiamo ragionarci.
Rispetto alla crisi legata alla guerra in Ucraina, quella di 15 anni fa si differenziava per una serie di motivi.
In primis l’inflazione del 2008/2009 era irrilevante (3.2% nel 2008, 0.7% nel 2009, contro l’8.4% del 2022 e l’8.23% ad aprile 2023, che sale al 12.3% per gli alimentari; nel 2022 l’ipotetica famiglia media di 4 persone a parità di consumi ha speso oltre 3.000 euro in più del 2021 (+110,4% per l’energia elettrica, +73.7% per il gas, +33.3% GPL e metano, 700 euro in più solo di spesa alimentare, con aumenti del 10.9% per pane e cereali, dell’11.8% per gli ortaggi, del 9.5% per i lattiero caseari, del 7.2% per la carne eccetera), risparmiando meno, senza risparmiare o bruciando risparmi (il che innesca anche una spirale psicologica negativa), al contrario di quanto accaduto nel 2008/2009, quando la crisi non aveva intaccato la disponibilità di spesa degli impiegati pubblici e della massima parte di quelli privati che costituiscono lo zoccolo duro del consumo biologico (anzi, in uno scenario di prezzi bloccati, la cauta austerità aveva aumentato i risparmi).
Registriamo quindi il fenomeno di una migrazione verso la GDO dei consumatori che il canale specializzato non è riuscito a fidelizzare offrendo elementi di insostituibilità.
Semplificando, anziché acquistare pane posto in vendita a sette euro al kg, molti consumatori biologici hanno ripreso a farlo in casa, e a questo punto tanto vale acquistare la farina biologica al supermercato (“Che differenza vuoi che ci sia, sempre farina integrale biologica è”) dove, a differenza che in Francia, i prodotti biologici spesso costano meno, rimpiazzando così i consumatori meno abituali che hanno rarefatto i loro limitati acquisti biologici in GDO.
A marzo 2023 con 387 milioni di vendite (1.1/31.3) nella GDO si registra una ripresa, che nonostante il rallentamento dei nuovi inserimenti, ha riportato la quota della spesa alimentare coperta dal biologico al 3.17% contro il 2.93% del 2022 (nel 2021 si era al 3.42%, ma la spesa alimentare nel 2022 si è contratta e quindi ci sta).
Che siamo ridotti a considerare confortante una crescita di quota dello 0.2% mostra quanto la situazione sia abbastanza desolante (a ritmo costante, ci vorrebbero dieci anni per far entrare l’equivalente di due pacchetti di pasta biologica – e manco al farro o ai grani antichi, per non parlar del kamut® per il quale, per anni, colpevolmente si è assecondata e sviluppata la fissazione del consumatore – in una spesa da 100 euro e ci vorrebbe più di un secolo per arrivare al 25% di spesa biologica ventilata dalla strategia Farm to Fork), il che ribadisce che probabilmente stiamo sbagliando più di qualcosa.
Certo, abbiamo molte palle al piede.
Una è senz’altro la mancanza di concorrenza nella distribuzione, con un monopolista che ha via vi appiattito il mercato fagocitando via via i concorrenti, lasciandone in vita solo uno, un highlander che deve preoccuparsi di non essere dereferenziato dalla rete.
In Francia la concorrenza tra BioCoop, La vie Claire, Biomonde, Naturalia eccetera, senza impedire il crollo di un Bio c’Bon gestito in modo avventurista, ha stimolato una vivacità del mercato che non si è tradotta solo in una guerra di prezzi.
Lo stesso è accaduto in Germania, dove Denree, Alnatura e gli altri quasi big attirano i consumatori vecchi e nuovi con offerte coerenti, servizi e valori (anche qui senza evitare la fine di Basic, che comunque era scritta da anni: quando il tuo fornitore è il maggiore dei tuoi concorrenti non puoi aspettarti vita facile).
Un’altra palla al piede (mica mi han chiesto di essere diplomatico o gentile) è la testa di parte dei negozianti biologici: credo che una piccola parte, se invece di vendere prodotti biologici (che per un certo periodo si vendevano quasi da soli) avesse venduto casalinghi o abbigliamento avrebbe già chiuso da tempo, e senza poter dare la colpa ad Amazon).
Un’altra palla è la povertà della rappresentanza.
Manca del tutto la rappresentanza dei dettaglianti, ma anche quella degli agricoltori, anch’essi troppo diversi come struttura (dal pioniere alla seconda generazione che vive di vendita diretta al socio delle grandi cooperative che hanno avviato una linea biologica per aggiungere dei pallet bio al rimorchio che va al CEDI della catena cliente che curiosamente glieli chiede), come quella dell’industria e della distribuzione.
A fare la politica del biologico sono le organizzazioni agricole generaliste (che con l’obiettivo di convincere il pubblico che l’agricoltura italiana è la più buona, sicura e sostenibile del mondo – non importa se siamo di gran lunga i maggiori utilizzatori di pesticidi per ettaro e di antibiotici per chilo di biomassa- e che il prodotto non italiano è cacca, non supporta, ma sopporta il biologico, usandolo ogni tanto, bontà sua, come spot nel gran mischione di chilometro zero/residuo zero/prodotti tipici/eccellenze/naturale che perturba il mercato e confonde i consumatori).
A ruota segue qualcuno che si è autonominato rappresentante di 86mila operatori che perlopiù ignorano serenamente di essere rappresentati (quanti sono notificati solo per i premi PAC? quanti arrivano al mercato?), gli organismi di controllo e, di volta in volta, l’organizzazione agricola o confindustriale più direttamente interessata alle questioni.
Difficile elaborare un’idea coerente del movimento e portarla al consumatore.
Cosa possono fare i negozi quasi indipendenti?
Intanto resistere: in assetto costante dopo l’estate la situazione comincerà a raddrizzarsi, e nel frattempo pensare al da farsi.
Poi rimettere davvero al centro il consumatore, rendendo l’esperienza d’acquisto più insostituibile anche con le scelte assortimentali, con la qualità dell’offerta e dei servizi.
Per quanto riguarda le sinergie, non vedo spazio per una BioCoop all’italiana (e andrebbe anche capito quanta indipendenza rimane quando si è uno dei 750 negozi soci della cooperativa che fattura un miliardo e mezzo), ma di sicuro c’è la necessità di conoscersi, discutere, proporre, riprendendosi un po’ del protagonismo che si è lasciato per strada quando si è deciso di fare solo il professionista.
E c’è la necessità di cacciar fuori qualche centinaio di euro a testa l’anno: non si va da nessuna parte senza una segreteria tecnica che oltre che stimolare dibattito e sintesi, sia in grado di intervenire negli ambiti in cui si discute di regolamenti e decreti legislativi (ma anche negli ambiti politici, per non essere del tutto tagliati fuori dall’indirizzo del Piano Nazionale e delle altre politiche).
E sia in grado di far circolare le informazioni.
Tutte le organizzazioni hanno emanato grandi comunicati gioiosi per l’approvazione oltre che di una legge nazionale piena di buchi (tra l’altro con qualche stupidaggine identitaria che l’Unione europea non consentirà), della strategia Farm to Fork, ma senz’averla letta e concentrandosi solo sull’obiettivo di raggiungere il 25% della SAU europea (come se ciò comportasse che, automaticamente, nel 2030 il 25% dei consumatori sarà ordinatamente in fila per acquistare prodotti biologici) e della previsione dell’uso di prodotti biologici nelle mense scolastiche di tutta Europa, trascurando di analizzare il resto.
La strategia prevede numerosi altri punti che impatteranno enormemente non solo sul segmento biologico, ma sull’intero comparto agroalimentare, e un professionista non può non tenerne conto.
Tra gli obiettivi c’è sì il 25% di SAU biologica, ma c’è anche il taglio del 50% dei pesticidi e degli antibiotici negli allevamenti e di almeno il 20% dei fertilizzanti (va da sé, con la netta contrarietà delle organizzazioni agricole generaliste che si sono impossessate della rappresentanza del biologico) su tutta l’agricoltura, con ovvia crescita in parallelo del “basso impatto”, dell’ “agricoltura sostenibile”, del “senza antibiotici negli ultimi tre mesi” e del “residuo zero”: se non sapremo spiegare che il biologico non è “egologico”, ma “ecologico” lo spazio di mercato si ridurrà, a favore di chi si limita a ridurre il glifosate e i neonicotinoidi.
Andrà rivista la normativa in vigore in materia di benessere degli animali (non solo sul trasporto e sulla macellazione) e possiamo prevedere che si moltiplicheranno bollini e patacche con vacche che ridono e polli che sgambettano sull’aia (non nei capannoni, come quelli biologici).
Andranno introdotte iniziative sul sequestro del carbonio nei suoli agrari (con patacche “meno emissioni”).
Verrà introdotto l’obbligo per l’industria alimentare di integrare la sostenibilità nelle strategie aziendali (saranno pronte le nostre imprese di trasformazione?), verrà elaborato un codice di condotta per pratiche commerciali e di marketing responsabili nella filiera, verranno avviate iniziative per promuovere la riformulazione degli alimenti trasformati, con la definizione di livelli massimi per limitare lo spazio degli alimenti ricchi di sale, zuccheri e/o grassi.
Cambierà la normativa sui materiali a contatto con gli alimenti(è in discussione anche una direttiva che propone di eliminare l’imballaggio monouso per l’ortofrutta).
Sarà introdotto il Nutriscore che non piace all’Italia perché teme di perdere quote di mercato ufficialmente di Parmigiano Reggiano e Prosciutto di Parma (e ‘fanculo la salute dei consumatori), ma in realtà vuole evitare un semaforo rosso sulla Nutella fatta nello stabilimento in provincia di Cuneo da una società con sede in Lussemburgo con grasso di palma malese e nocciole turche.
Sarà introdotto un quadro per l’etichettatura di sostenibilità degli alimenti (aspetto che va presidiato con la massima attenzione, il criterio del LCA che per ora abbiamo stoppato non va bene, non tiene conto della biodiversità né del benessere animale, è da vedere come tiene conto della contaminazione di suolo, acqua e aria: c’è il rischio che una cola con aspartame e acesulfame K imbottigliata in alluminio riciclato in uno stabilimento ricoperto da pannelli solari venga considerata più sostenibile di un succo di mela biologico con capsula twist off).
Eccetera eccetera.
Nei prossimi sette anni ci cambierà il mondo, il tutto sarà sostenuto dai “regimi ecologici” nell’ambito della PAC, che offriranno un importante flusso di finanziamenti per promuovere non solo l’agricoltura biologica, ma anche pratiche solo genericamente sostenibili e ancora non ben definite (agricoltura di precisione, agroecologia, agricoltura rigenerativa), rendendo la semi-conversione allettante, con un aumento enorme dell’offerta proposta come “green” presente sul mercato.
Togliamoci dalla testa di contrastare la strategia: oltre a porre l’obiettivo di un quarto della superficie condotta con metodo biologico (obiettivo che, da soli, certamente entro il 2030 non avremmo raggiunto), prevede altri passi che erano parte della nostra visione dell’avvio di una grande conversione del sistema di produzione agroalimentare.
Quello che dobbiamo fare è trasformare in opportunità le minacce che, inevitabilmente, il quadro porta con sé.
Ci riusciremo soltanto dedicando il giusto tempo, le giuste energie e le giuste risorse.
RENZO AGOSTINI
Oltre ai fattori evidenziati nella convocazione [ richiamati in principio ], credo che i negozi “indipendenti” oggi siano a rischio di estinzione, per altri motivi:
- Il primo è quello di aver pensato solo al proprio negozio, non aver fatto gruppo e quindi di non essere mai stati interlocutori veri per nessuno: per i produttori (che sono andati avanti per i fatti propri, non considerando i negozi come soggetti con cui interfacciarsi, alleati, prima linea per la divulgazione e la crescita del biologico; ma come semplici clienti, come tanti altri e non certo i più importanti); per i grossisti bio (che spesso si sono voluti sostituire ai negozi, in concorrenza, provando a fare un mestiere che non sono capaci di fare); per le associazioni dei consumatori (troppo attente solo ai prezzi); per il governo (che è sempre intervenuto solo a sostegno della produzione, come se poi, una volta nelle cassette, il prodotto non dovesse essere venduto). Non abbiamo avuto la capacità di uscire dalla porta del negozio e di farlo insieme, come “categoria”. In questo modo non abbiamo avuto voce in capitolo, siamo rimasti soli e quindi facilmente vulnerabili. Al massimo si è provato a fare dei “gruppi di acquisto” (il più delle volte con scarso successo), ma mai e poi mai abbiamo assunto una “identità politica”. E questo da una parte è strano, perché la gran parte di noi ha militato o milita in associazioni, ha aperto il negozio per portare il biologico a quante più persone possibile, ha fatto formazione, ha una mission che va al di là dello scontrino; dall’altro però è conseguente alla scarsa considerazione che spesso si ha della figura del “negoziante”, lontanissimo da quella nobile del coltivatore, questo santo, l’altro peccatore. E invece non è così: il biologico cresce e diventa bene di tutti, se funziona tutta la filiera. Se ognuno fa bene la sua parte, senza pestarsi i piedi, senza trovare scorciatoie, senza prendere in giro i consumatori.
- Altra considerazione: cosa significa oggi essere negozio indipendente? Bella domanda: sono forse in grado di acquistare dal produttore che più mi piace? È ormai impossibile visto il monopolio di EcorNaturasì. Certo, posso avere qualche fornitore locale di prodotti freschi, chi le verdure, chi l’olio, chi la farina… Ma di cosa stiamo parlando? Oggi un negozio deve poter avere un assortimento all’altezza, di almeno 2500 referenze fra prodotti freschi e confezionati: impossibile non passare da EcorNaturasì, altrimenti si riportano i negozi alle botteghe di trent’anni fa (e questa è una follia, da “belli e puri e quattro gatti!”). E quindi come si fa a dire che siamo indipendenti? Perché non abbiamo l’insegna Naturasì? Troppo poco. Non riusciamo a condizionare la qualità e la ricerca dei prodotti e dei produttori. A rendere trasparente una filiera che è sempre più nebulosa, sporca e contaminata dalle politiche della grande distribuzione.
- Quindi essendo negozi “relativamente indipendenti”, cosa possiamo fare?
- Nessuno ha la soluzione in tasca, ma penso che potrebbe essere importante cominciare a mettere insieme un gruppo di “negozianti”, non per parlare di prodotti, acquisti, promozioni, marketing (tutto questo non è mai riuscito ad unirci; ognuno ha le sue idee e preferenze), ma per provare a ridare un senso al nostro lavoro, per capire perchè e per chi vogliamo continuare a farlo, per essere interlocutori dei produttori (noi siamo in prima linea e possiamo raccontare tanto, a chi produce, delle richieste e delle tendenze dei consumatori), delle persone che hanno a cuore l’ambiente e la propria salute. Avere voce in capitolo, non per spartizione di poltrone, ma perché si è portatori di conoscenze, strutture e servizi fondamentali per lo sviluppo del settore.
- Possiamo mettere insieme le nostre esperienze; possiamo organizzare corsi; diventare noi “influencer” del bio (chi meglio di noi che lo mangiamo tutti i giorni – almeno lo spero!); possiamo conquistarci la fiducia e il rispetto delle persone, che ci apprezzeranno per la coerenza, l’impegno, la conoscenza, l’empatia che dobbiamo trasmettere (scaffale contro essere umano, nella maggioranza dei casi vince lo scaffale – di plastica o virtuale che sia – ma ancora tanta gente sceglie di rapportarsi con l’essere umano – noi, con il grembiule e il berretto in testa). Abbiamo un patrimonio immenso fra le mani che sono le nostre conoscenze e la nostra passione, di cui abbiamo lasciato che ne beneficiassero soggetti lontanissimi dal bio (vedi gdo). È arrivato il momento di metterle a frutto, di metterle in rete, a disposizione di tutti.
- Ma vale ancora la pena di battersi per il biologico, oppure è arrivato il momento di fare altro? A me non è mai piaciuto buttare il bambino con l’acqua sporca e per me il biologico è come un figlio al quale ho dedicato la gran parte della mia vita. Per questo non sono d’accordo con chi lo snobba, lo bypassa, vorrebbe farne a meno. Andare “oltre il biologico” non può essere una scorciatoia, per appagare il proprio ego, risparmiare due soldi e un po’ di tempo. La certificazione biologica è un bene comune, tutto il resto si può aggiungere, ma mai e poi mai sostituire.
ALBERTO BERTON
“Il passato è prologo” amava ripetere Giorgio Nebbia citando la famosa frase presente in The Tempest, l’ultima opera teatrale di Shakespeare.
Per cercare di rispondere all’importante questione sul futuro dei negozi bio indipendenti, vale quindi la pena ricordare qualche fatto della storia del movimento biologico relativo all’attività di vendita al dettaglio.
Per prima cosa, nonostante il fatto che i primi negozi specializzati -addirittura strutturati in “reti”- fiorirono nei paesi di lingua tedesca già all’inizio del secolo scorso (Reformhaus e negozi biodinamici), è soltanto con il passaggio dal Biologico 1.0 al Biologico 2.0 che l’apertura di negozi bio diventa un elemento fondamentale della strategia di sviluppo del movimento.
Se pensiamo al movimento inglese, quello dell’organic agriculture, esso era sorto con l’obiettivo di riorientare verso il biologico la politica agricola e la ricerca sperimentale. Ricordo che Soil Association venne fondata nel 1946 per istituire un piano di ricerca, l’Haughley Experiment, volto a dimostrare l’assunto centrale del movimento ovvero la relazione tra suolo e salute. Il primo negozio biologico inglese, Wholefood, nascerà diversi anni dopo: nel 1965, a Londra.
È in quel breve ma intenso periodo che va dal 1969 al 1972, che sempre il nostro Nebbia amava chiamare “la primavera dell’ecologia”, che si assiste, a partire dagli Stati Uniti, al primo fiorire, o meglio allo sbocciare data la rapidità degli eventi, di una serie di iniziative rivolte a “cambiare il mondo” partendo dall’attività di produzione e di vendita di alimenti biologici.
Nel contesto più generale della controcultura che colorò il periodo, si trattò dell’applicazione della strategia di cambiamento dal basso descritta in Small is beautiful di Fritz Schumacher che proprio in quegli anni divenne il presidente di Soil Association, riorientando l’associazione dalla ricerca scientifica alla pratica di produzione e di vendita “alternativa” a quella allora come oggi dominante.
Per dare un’idea della portata del fenomeno, ricordo che in questo periodo, solo negli Stati Uniti, si stima siano state create circa 3000 Food Co-ops collegate al movimento biologico ed ecologico. Queste cooperative, in gran parte indipendenti le une dalle altre, ma allo stesso modo focalizzate sulla vendita di alimenti biologici e locali prevalentemente veduti sfusi, hanno di fatto trainato lo sviluppo dell’agricoltura biologica, contribuendo in maniera sostanziale alla nascita del “mercato del biologico” che proprio grazie ad esse raggiunse nel 1973 negli USA il valore di 500 milioni di dollari.
Fu proprio guardando all’esempio delle Food Co-ops nord-americane che nel corso degli anni ’70 si formarono in Francia le prime cooperative di consumo che successivamente, nel 1986, l’anno di Chernobyl, daranno vita a Biocoop, organizzazione di matrice cooperativa che ancora oggi domina il mercato specializzato in Francia.
Nonostante sia del 1973 l’apertura della cooperativa Il Girasole a Milano, il primo punto vendita di alimenti biologici, in Italia il boom delle cooperative avvenne intorno al 1978 e riguardò soprattutto la parte produttiva con la nascita quasi simultanea di quelle realtà che poi hanno costituito il tessuto produttivo del biologico italiano fino ai primi anni del Duemila: Alce Nero e La Terra e il Cielo nelle Marche Il Sentiero e Iris in Lombardia, Nuova terra e Valli Unite in Piemonte, Ottomarzo e El Tamiso in Veneto e Agricoltura nuova a Roma, solo per citarne alcune…
Con lo sviluppo del sistema produttivo, in Italia nel corso del decennio successivo aumentarono anche i negozi indipendenti ma, a differenza che in Francia, mancò quel processo di aggregazione tra i negozianti bio, fatto questo che ha permesso lo sviluppo di quelle esperienze distributive che poi hanno continuato a dominare il mercato specializzato fino a diventare praticamente dei monopolisti.
In Italia quindi i negozi bio indipendenti, nonostante il loro ruolo storico nello sviluppo del sistema agro-alimentare biologico e la loro posizione cruciale di interfaccia tra il produttore e il consumatore, sono diventati l’ultima ruota del carro, subendo più o meno passivamente le strategie, a volte eticamente scorrette, dei/del grossista specializzato.
È sembrato mancare innanzitutto il collegamento diretto con i produttori, tanto è vero che sono stati i consumatori, attraverso il fenomeno dei gruppi di acquisto che ha caratterizzato l’”altra-economia” italiana degli ultimi due decenni, si sono presi la briga di ricostituire quel rapporto con i produttori biologici che è in qualche modo mancato con lo strutturarsi del sistema distributivo specializzato.
Vengo ora agli interessanti contributi di Renzo Agostini e Roberto Pinton.
Dalle parole scritte dall’amico Renzo traspare la frustrazione di chi vive da sempre la missione del “negoziante biologico” senza vedere riconosciuta, all’interno del movimento stesso, l’importanza di questo mestiere e finendo con l’essere isolato con la testa dentro lo scaffale a sistemare prodotti per certi versi scelti da altri, dell’origine dei quali si sa ben poco.
La visione “descrescista” che tanto ha caratterizzato alcuni ambienti dei GAS, dove il problema è visto nell’attività commerciale tout court da eliminare in quanto tale, ha certamente influenzato la scarsa considerazione verso i negozianti biologici.
Non va comunque sottovalutata l’opportunità per il negoziante bio di tornare ad essere interfaccia tra i produttori e i consumatori, di cooperare con i primi per dare servizio ai secondi, che non sempre hanno il tempo per organizzare i propri acquisti insieme ad altri, nonché gestire la consegna, la frammentazione dei colli e la cassa, attività che rappresentano il lavoro operativo del negoziante con il quale questo si guadagna il proprio reddito.
Oltre alle verdure, l’olio e la farina, oggi i negozianti indipendenti possono offrire in modo diretto ai consumatori altri prodotti di grande interesse per il consumatore; penso ad esempio a prodotti di grande “valore” come quelli di origine animale, come i salumi e formaggi, dove (lo posso assicurare) le scelte del grossista non sono sempre le migliori in termini di qualità, trasparenza e prezzo.
Attualmente le strategie commerciali delle realtà più avanzate nel commercio al dettaglio di alimenti biologici sono concentrate proprio su questa categoria di prodotti dove il consumatore biologico cerca, insieme al piacere del gusto, la conoscenza della storia del prodotto, del produttore, dell’origine della materia prima, dei metodi di allevamento, del territorio, ecc…
Se è vero che è difficile tenere in piedi un negozio con poche centinaia di referenze, è ancora intorno ai prodotti “freschi” e “sfusi” (ortofrutta, pane, latticini, riso, pasta, cereali, legumi) che si costruisce l’anima del negozio e si stabiliscono quegli elementi di insostituibilità di cui parla Pinton.
E proprio guardando a queste categorie, è vero che è molto spesso carente la professionalità dei negozianti biologici, tanto che proprio le realtà più avanzate che in varie forme aggregano i negozi più o meno indipendenti in Francia e in Germania da anni stanno implementando strategie di formazione attraverso giornate, incontri o vere e proprie “accademie”.
In Italia è evidente la necessità vitale di fare gruppo, di aggregarsi perché il singolo negoziante, a parte le poche eccellenze, non ha le risorse e il tempo per investire in questa direzione.
Oltre che sull’aumento della professionalità, è altrettanto vitale lavorare su quella che Renzo chiama “identità politica” e anche questo non si può fare che insieme agli altri.
Io non so se l’esperienza di Biocoop sia replicabile in Italia. Certo è che la storia di Biocoop, per certi versi unica, offre tanti spunti di riflessione circa il futuro dei negozi biologici indipendenti.
In primo luogo la necessità congiunta di professionalità commerciale e di militanza politica. Ricordo che i primi passi di questa realtà di matrice cooperativa sono stati compiuti, oltre che sull’adozione di un “logo” condiviso, intorno alla definizione di una charte, una carta che rende espliciti i valori e gli impegni dei negozi associati per lo sviluppo dell’agroecologia e dello spirito cooperativo. Contemporaneamente si assistette alla creazione di una centrale volta ad organizzare gli acquisti diretti dai produttori, la discussione di problematiche comuni (giuridiche, fiscali, economiche) e la creazione di strumenti comuni come le schede prodotto, i modelli di pre-ordine e i primi locali per la distribuzione dei prodotti.
Anche la storia della distribuzione standard insegna che con il rapido sviluppo della distribuzione alimentare moderna basata sui centri distributivi e il concept del supermercato, solo l’aggregazione ha permesso ai negozi indipendenti di sopravvivere e di evolvere.
In Italia, per i negozi bio, questa storia è ancora tutta da costruire.
PACIFICO AINA
Qualche riflessione
Ho imparato, nei miei 73 anni di vita, che ogni vittoria non è mai definitiva, anzi è sempre più fragile.
Ho l’impressione che l’idea di agricoltura “naturale”, “biologica” ecc. ipotizzata da alcuni di noi più di 50 anni fa sia stata così vincente nella Società da provocare, come era prevedibile, una marea di risposte: alcune in appoggio totale, altre di aggiramento se non addirittura subdola risposta.
Quando vedo che la Grande Distribuzione, I Grandi Marchi, le Istituzioni stesse, inseguono e poi cercano di superare quei semplici concetti che erano alla base della nostra esperienza creando nuove parole d’ordine, marchi ecc., mi preoccupo perché ho l’impressione che sia solo un modo per aumentare il proprio tornaconto, la propria ricchezza e niente più.
Vedo anche una sorta di “demolizione” del prodotto naturale e sano con proposte di ricerca di “biotecnologie strabilianti” o semplicemente con la proposta di prodotti in esposizione “bio” volutamente con scarsissime qualità.
La cosa però più rilevante sono la miriade di parole d’ordine e marchi che tendono a sottolineare, ad evocare ogni aspetto della innata naturale richiesta di felicità del “consumatore”: sostenibilità, equo e solidale, biodiversità, e chi ne ha più ne metta.
Un ricercatore mi diceva che la percentuale di sopravvivenza dei marchi nel tempo è di non più del 2%, il che, temo, significa anche che i concetti evocati non sopravvivano a lungo.
Tutto questo non farebbe paura: avendo tempo si possono organizzare analisi, riflessioni e risposte adeguate. Ma oggi NON c’è tempo. La velocità con cui viaggia l’informazione, la tecnica dell’informazione, fa si che oggi qualsiasi notizia o concetto invecchi o venga “fatto invecchiare” in un baleno.
E NOI, di natura riflessiva e sempre alla ricerca della Verità, non ce la facciamo a starci dietro, a combattere contro mostri internazionali, che hanno mezzi sofisticatissimi per comunicare, con attrezzature logistiche da impero.
Come fare allora?
Io penso che in questa fase dobbiamo recuperare la capacità di comunicare con le persone direttamente, di guardarle in faccia ed ascoltare le loro idee e dire le nostre.
Non escludo ovviamente l’uso della comunicazione classica, ma trovare il modo di far vedere con estrema onestà le nostre cose belle e le nostre difficoltà.
Penso che si debba recuperare una dimensione LOCALE. Proponendo prodotti LOCALI, e forse anche non bio se questi produttori non riescono ancora ad esserlo.
Penso che la rete di relazione di una persona, lo stesso “consumatore”, sia alla fine LOCALE. Lo zio, il cugino, l’amico, il compagno di scuola, fanno parte di un mondo di relazioni che per fortuna ancora prescinde dall’universo della comunicazione Social o ufficiale.
Tutti sono coinvolti nella vita quotidiana nei problemi anche degli altri, tutti hanno bisogno di una dimensione reale, viva, da toccare e non virtuale.
Producendo e proponendo prodotti locali (magari riscoprendoli o reinventandoli) noi potemmo combattere questa immensa omologazione e superficialità tanto aggressiva.
Ogni territorio ha una sua splendida unicità, che è esattamente il contrario dell’omologazione, della semplificazione, di cui i Grandi Gruppi hanno bisogno.
“Locale” può avere anche delle caratteristiche che la grande distribuzione non può avere così facilmente: mentre questa ha bisogno di una filiera organizzata, locali per stoccaggi e conservazione, e confezionamento standardizzato dei prodotti per ottimizzare vendite e movimentazioni (con tutto l’impatto che questi hanno), il “locale” può proporre di acquistare il prodotto sfuso aggirando molti costi e riducendo scarti e rifiuti, il che si traduce in “confezioni su misura” del singolo consumatore e del suo ordine, con un rapporto umano diretto che questo non trova altrimenti.
Tutto questo non significa vendere solo prodotti coltivati in loco, ma prodotti tipici in un luogo.
Prodotti che abbiano radici, storia, complessità di relazioni. Insomma, che hanno una storia da raccontare. Noi dobbiamo saper comunicare la complessità delle relazioni di un prodotto e evidenziare il reale coinvolgimento dei destini delle persone.
Ma locali sono anche i problemi ambientali soprattutto, ove l’individuo vive, dove c’è la fabbrica dismessa, dove c’è il bosco da salvare, dove c’è indigenza. Il tema è legarsi a questi problemi, immaginare una soluzione, chiedere di partecipare.
Io credo che troveremmo tanti amici che magari lasceranno in pace il telefonino per un istante per capire che solo insieme troveremo il modo di rispettarci reciprocamente e risolvere di fatto (non rimandando) quel problema: può essere la sua salute come la tua difficoltà economica.
A livello locale c’è sempre una connessione tra le persone e noi, abbiamo bisogno di vivere realmente, oggi più che mai. Questa per me è la consapevolezza del momento.
Chiudo questa piccola riflessione con un piccolo episodio: qualche giorno fa una ragazza e un ragazzo arrivano per caso in azienda, la guardano stupiti dal disordine ma anche da cose mai viste e poi li invito a prendere le uova dal posatoio. Sbarrano gli occhi, si alternano a prenderle facendosi un sacco di fotografie. Erano felici. Li accompagno al cancello per uscire e mi chiedono cosa devono pagare per 6 uova. Io dico nulla è un regalo.. Mi guardano stupiti e mi dicono che questa esperienza (visita in azienda e partecipazione ecc.) in casi simili vale 100 €!
Gli ho augurato buon ritorno …ma la cosa mi fa riflettere.
MARCO BIGNARDI
Parto da una considerazione legata al titolo del convegno. Ci preoccupiamo del futuro dei negozi bio indipendenti o del futuro del mercato per il quale erano nati i negozi bio indipendenti? Ovvero il problema è non avere più la bottega bio indipendente, o non riuscire più a trovare uno scaffale per un prodotto bio di un’azienda agricola locale che non vuole aderire a logiche di mercato legate alla GDO?
Sono due aspetti completamente diversi. Se la sparizione del negozio bio indipendente permettesse comunque di lasciare nuovi spazi commerciali alle aziende in questione, onestamente dico che a me non preoccuperebbe più il tema. Ma se non troviamo alternative valide allora davvero è un grande fallimento di un percorso lungo anni.
I numeri sull’andamento del bio sono trovabili ormai con facilità sulla rete e sulle pubblicazioni, non vi porto nemmeno facili deduzioni che ormai vi può fare anche un sistema di Intelligenza artificiale (ho fatto la prova e mi ha dato un intervento per oggi di almeno 15 minuti con riferimenti a dati AIAB 2020 e dice cose giuste)
L’obiettivo dell’incontro di oggi è quello di capire dove abbiamo sbagliato, e che strada possiamo/dobbiamo invece seguire. Per fare questo dobbiamo però avere in mente di cosa stiamo parlando e qualche numero lo devo analizzare.
La crescita del fatturato del bio è fatta dal numero maggiore di clienti del bio (magari per un solo prodotto all’anno) e dal numero di referenze sulle scaffali della GDO (e la scelta di questi non sempre è una scelta meditata dal cliente ma spesso involontaria). Le nostre realtà (biologico di piccole e medie aziende agricole) sono praticamente inifluenti in questi studi.
Cosa dicono i numeri quindi: il nostro bio non raggiunge nemmeno l’1% del prodotto agroalimentare che circola in in anno, il resto è un bio industriale che passa dalla GDO.
Inoltre metterei l’attenzione sul fatto che nell’ormai vicino 2030 vogliamo arrivare al 25% della SAU bio, ma chi sarà a produrlo? Dove sarà venduto? Il convenzionale sarà sempre più “sostenibile” e quindi in concorrenza. Immagini fasulle ma che mangiano mercato di polli senza antibiotici già oggi erodono il nostre settore.
Facile immaginare che il nostro misero 1% di oggi di settore agroalimentare coperto, nel 2030, se nulla accade, sarà ancora meno, calando anche come percentuale sul totale del cibo bio, che forse recuperarà qualche punto dovuto dall’aumento dell’offerta raccolta nel 25% di SAU in più.
Saranno allora le grandi imprese, gli accordi con la GDO con contratti analoghi al convenzionale a fornire quel prodotto in più che abbonderà come offerta?
E’ facile immaginare una grandissima concorrenza (aumenterà l’offerta mentre assistiamo ad un calo della domanda) e quindi un abbattimento dei margini commerciali e un’attenzione al prodotto bio più economico.
Ma ora mi concentro su Toscana Biologica.
La prima osservazione è che Toscana Biologica nasce per vendere i prodotti delle aziende socie, per dare uno spazio commerciale ad aziende che non potevano stare su una piattaforma di distribuzione. Una specie di filiera corta un poco allungata, a vendita di un biologico a km0.
Toscana Biologica nasce dall’esperienza dei punti vendita del CTPB Coordinamento Toscano produttori Biologici), è una specie di vendita diretta gestita però commercialmente. Toscana Biologica è un consorzio di aziende agricole, è delle aziende, è no profit e l’obiettivo e vendere i prodotti e pagare i costi commerciali (affitto, utenze e stipendi)
Manca l’esperienza commerciale, ma abbonda l’emozione, la conoscenza del prodotto, l’anima agricola, l’immagine di filiera corta. C’è lo sfuso dall’ortofrutta alla pasta, si regala la pasta madre e si insegna a fare pane e formaggi. C’è il coinvolgimento del cliente in un rapporto di “collaborazione” con la bottega (una specie di banca del tempo per coinvolgere direttamente il cliente che vuole partecipare). Si visitano le aziende e queste vengono di persona a presentare i propri prodotti.
C’è il servizio, l’accoglienza, la consegna a domicilio, la cura del prodotto, una grande selezione dell’eccellenza. C’è il collegamento con i GAS, facciamo da appoggio logistico per le aziende che non sanno dove organizzare le loro consegne, integriamo le richieste di alcuni GAS o singole famiglie che comunque fanno parte di qualche GAS.
Riusciamo a diventare una specie di “circolo del cibo”, dove si viene non solo per fare la spesa, ma per parlare di grani antichi, di farro monococco, di latte crudo, di allevamenti senza antibiotici, di fementati, di stagionalità dei raccolti, di costi di produzione. Si trova l’ortica, la cicerbita, ci si scambiano ricette.
All’inizio c’è un ridottissimo numero di referenze, un layout del negozio che ricorda il mercatino, poi ci si allarga a qualche distributore e a qualche prodotto non locale, sempre con una grande attenzione che nulla sia anche sugli scaffali della GDO, si ridisegna il negozio in forme più facili per il cliente. In qualche modo si va incontro alle abitudini del cliente, ma si banalizza il negozio.
Avevamo anche un e-commerce, ma di questo ne parlerei dopo.
Il progetto è bello, ma il costo di tutto questo è eccessivo, la parte culturale in un certo senso costa, richiede tempo, ruba margini commerciali.
Ci sono tutti i costi commerciali, stipendi, affitti, bollette di un piccolo supermercato, ma il volume di affari resta quello di una bottega, e non copre mai tutti i costi. Per coprire questi costi i margini dovrebbero essere tali che ci porterebbero fuori mercato, sopratutto in un momento in cui l’offerta del bio a basso costo cresce.
Chi erano i nostri clienti? Non vi porto le statistiche età/sesso/formazione, ma solo che sono quasi tutti veramente interessati, in 10 anni li abbiamo formati, istruiti sul tema “cibo” e alla fine non guardavano troppo al prezzo, mentre erano attentissimi alla qualità, sono fuoriusciti da GAS per mancanza di tempo da dedicarvi, non vogliono andare a fare file ai supermercati, sono disposti a pagare la comodità, il servizio. Non erano tanti, una media che non arriva a 100 clienti al giorno, contro i 5000 di un supermercato. Si concentrano in alcune fasce orarie, obbligandoci, per dare il servizio, ad aumentare il personale, mentre ci sono ore con pochissimi o nessun, cliente ma la bottega deve essere presidiata e i costi restano.
Per ragioni culturali, di esperienza che arriva dall’agricoltura, e anche di vantaggi economici, adottiamo forme di agricoltura sociale anche in bottega, con accordi con le ASL e inserimenti socio-terapeutici, con tirocini formativi. Abbiamo ragazzi disabili che sono abili magari a sistemare scaffali e pulire, migranti che mesi ci aiutano a controllare il negozio.
Insomma in 10 anni le abbiamo provate un po tutte, ma alla fine non ce l’abbiamo fatta perchè?
Principalmente per lo scarso volume di affari, adatto ad una piccola bottega, ma che non si sarebbe potuta permettere dipendenti. Il costo dei dipendenti raggiunge il 25% del fatturato. Poi restano affitti cari, e bollette che nel 2022 esplodono, mentre i clienti nel dopo covid crollano.
Una miscela esplosiva, che è esplosa.
Cosa penso quindi del futuro dei negozi bio indipendenti?
Come dicevo non mi preoccupo troppo del futuro della struttura ma del loro mercato. Non per indifferenza di fronte alle difficoltà del settore, ma il mondo va avanti e prende nuove forme e vanno studiate queste.
Dalla nostra esperienza ho capito che il costo di una struttura tipo “bottega”, non ottimizzata come un supermercato, è difficilmente sostenibile se non in forme di gestione diretta, come ormai le ultime botteghe rimaste aperte nelle città, dove il titolare è anche il lavoratore, accompagnato al massimo da un paio di ragazzi in formazione con partime ridotto, dove magari il fondo è di proprietà.
Dall’altra parte le strutture tipo supermercati non riescono a dare servizi tipici della bottega, il personale deve rendere commercialmente ogni minuto, non c’è tempo per l’accoglienza, per i rapporti con le persone, per le risposte approfondite, per lo studio del prodotto.
Il mercato dello specializzato è sulla stessa barca delle botteghe alimentari, che hanno sofferto e soffrono della concorrenza della GDO, ma che hanno anche un ruolo sociale. Come le botteghe di quartiere soffrono di costi di gestioni che incidono più che nei grandi numeri della GDO (GDO che sta anche entrando nei quartieri con i minimercati a complicare le cose).
In un mondo dove dove due settori simili sono in crisi mi immagino che una sinergia possa essere una soluzione. Il mercato che era coperto dalle botteghe indipendenti potrebbe essere assorbito dalle botteghe di alimentari tradizionali gestite direttamente, differenziandosi finalmente dalla GDO, ampliando così l’offerta che oggi gli permette comunque di “portare a casa la pagnotta”. Ma anche il contrario, il negozio specializzato potrebbe assorbire il cliente della bottega offrendo anche un prodotto di base, non certificato, ma qualificato,
Adottiamo le botteghe esistenti del convenzionale per dare loro una carta da giocare in alternativa al prodotto che si trova a metà prezzo nella GDO.
Certo questo si può pensare fino a quando ci saranno ancora botteghe di un certo livello, non le botteghe degli indiani, dei pakistani, di nepalesi, dei cinesi. Oggi le botteghe chiudono o vengono gestite da stranieri o da chi non segna comunque le ore di lavoro. Servizio minimo, apertura continua, la bottega per loro è casa, non è lavoro, non si segnano le ore, si lavora con fratelli cugini, mogli etcc…
Stiamo perdendo non solo lo specializzato del bio, ma la bottega sotto casa, e di questo ci dobbiamo occupare e preoccupare.
Il negozio indipendente a sua volta potrebbe evolvere nella direzione di bottega di quartiere e avere delle gestioni dirette, o in cooperative di lavoro, di consumo, ma vere non come la Coop, semmai nella direzione delle FoodCoop, dove il cliente fa parte del progetto.
Poi c’è un futuro non ancora disegnato. Stanno nascendo biodistretti, ci saranno risorse pubbliche, ma in questo serve una forte rappresentanza perchè le regole stanno per essere scritte definitivamente.
Inoltre una forte rappresentanza potrebbe capitalizzare i limiti che ha dimostrato la GDO durante il Covid. La bottega ha permesso di sfamare una popolazione. Agricolura locale e la sua piccola distribuzione hanno coperto le mancanze della GDO, dove c’erano ore di file e settimane di attesa per la consegna a domicilio. La bottega, come l’agricoltore, come presidio territoriale, come difesa “militare” per momenti di grandi crisi. Per dare valore a questo serve una rappresentanza politica che evidenzi e ricordi quei momenti. Se il mondo agricolo oggi viene tenuto in vita per questo con contributi, è il momento di pensare anche alla piccola distribuzione, in primis quella di qualità, alternativa al prodotto industriale da GDO.
mi chiamo Stennio Musaragno, faccio parte della rete Italiainbio costituitasi formalmente a giugno dello scorso anno.
gestisco un negozio bio dal 1987 a Mogliano Veneto-TV.
ho letto con attenzione gli interventi scritti e partecipato all’incontro di maggio.
cercando di far tesoro da quanto detto provo a riassumere quelli che sono i pensieri comuni espressi o che almeno io ho inteso
– creare un gruppo i cui aderenti abbiano chiara e riconosciuta la propria identità politica
– riesca ad essere rappresentativo presso istituzioni, organi d’informazioni
– il ‘negoziante’ torni ad essere interfaccia tra produttore e consumatore
– riprenda il ruolo di protagonista che aveva all’inizio ed essere presenti ai problemi ambientali locali ed alle iniziative
– faccia autocritica e dove necessario migliori la propria professionalità
– cerchi un nuovo rapporto con i GAS in modo di sostituirsi nello svolgere quei carichi di lavoro riguardanti l’organizzazione e la distribuzione per loro gravosi
– mantenga la propria identità ‘locale’ ma allo stesso tempo ampli l’offerta
– considerare quante volte si risponda con un “NO” alle richieste dei nostri clienti
– aderire alla rete è un punto di partenza ma estremamente necessario perché ci rendiamo conto che da soli non si va da nessuna parte