UNA PERICOLOSA ILLUSIONE
E’ appena uscito un libro importante per chi si occupa di agricoltura:
Coltivare la natura. Cibarsi nutrendo la terra, di Giacomo Sartori, prefazione di Carlo Petrini, ed. Kellermann. Il tema centrale del libro è quello della fertilità del suolo e dei modi in cui è stata rigenerata nel corso della storia. Mancava un testo che ripercorresse la storia agricola da questo fondamentale punto di vista, che delineasse con chiarezza i principali cambiamenti, nel corso del tempo, del rapporto degli uomini con la natura per procurarsi il cibo. Assumendo questo sguardo di lunga durata sul percorso seguito dal mondo agricolo, Sartori ci permette di comprendere meglio l’impatto che la chimica agraria ha comportato nel modo di fare agricoltura e nella rottura di equilibri ambientali che solo oggi cominciamo a capire.
Per molti decenni l’applicazione in agricoltura della chimica di sintesi (in specie quella dell’azoto), basata sul petrolio a basso costo, ha consentito di raggiungere risultati produttivi che apparivano miracolosi. Tutto ciò ha generato l’illusione che il problema del mantenimento della fertilità del suolo fosse stato risolto una volta per tutte. Solo in anni a noi più vicini si sono cominciati a rilevare i danni che la scelta chimica ha provocato sull’equilibrio ambientale e più in particolare sulla fertilità del suolo. E’ proprio il fallimento dell’approccio chimico che oggi impone, come ci chiede anche la Ue, di ridurre drasticamente l’impiego dei fertilizzanti di sintesi. Esigenza peraltro resa ancora più evidente dalla guerra in Ucraina. Questo, dice Sartori, ci riporta paradossalmente al punto di partenza, quando non disponevamo ancora di quei mezzi miracolosi. A uno sguardo superficiale sembrerebbe quindi inevitabile un salto all’indietro nelle nostre condizioni di vita, ma Sartori ci ricorda che già oggi esistono alternative credibili all’agricoltura convenzionale, come quella biologica, i cui risultati potrebbero essere ancora migliorati da programmi di ricerca mirati a un più consapevole utilizzo dei processi naturali.
Pubblichiamo qui di seguito il paragrafo “L’agricoltura biologica e i suoi detrattori” estratto dal libro e una intervista che Giacomo Sartori ci ha gentilmente concesso.
Giacomo Sartori è agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vive in Francia. Ha lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e ha all’attivo molte pubblicazioni sui suoli e sui paesaggi alpini. Ha insegnato Agronomia generale all’università di Trento. All’attività scientifica ha sempre affiancato quella di narratore, gli ultimi suoi romanzi sono: Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exòrma, 2019), e Fisica delle separazioni (Exòrma, 2022). Negli ultimi anni anima percorsi tra scienza e arte, nell’ambito di residenze artistiche nel nord della Francia, centrate sui paesaggi e i rapporti tra uomo e ambiente. Osservatore attento di quanto accade nel mondo agricolo, le cui vicende esamina da un punto di vista agro-ecologico, non ha mancato di prendere posizione su temi di attualità come il dibattito sull’agricoltura biodinamica e i rapporti tra scienza, tecnologia e agricoltura.
L’AGRICOLTURA BIOLOGICA E I SUOI DETRATTORI
tratto da: Coltivare la natura. Cibarsi nutrendo la terra
L’agricoltura biologica rappresenta un’alternativa, già praticata a grande scala su molte colture diverse (in Italia siamo al 16% delle superfici coltivate), e quindi ben testata, che consente di evitare o limitare radicalmente gran parte dei danni sopra citati, riducendo drasticamente gli apporti energetici e bandendo quasi completamente quello di contaminanti. Una delle uniche importanti eccezioni, sempre sfruttata dai detrattori, è il rame utilizzato come fungicida. Riesce a ottenere questi risultati sfruttando la capacità che ha la natura nell’autoregolarsi, puntando sulla prevenzione e le interazioni positive (come ha sempre fatto l’agricoltura fin dai suoi albori). Utilizza in particolare i vantaggi delle rotazioni agrarie, nelle quali hanno un ruolo chiave le leguminose, che hanno la capacità di fissare nel suolo l’azoto (l’elemento più importante per la crescita delle piante) contenuto nell’atmosfera, evitando quindi gli apporti di concimi azotati di sintesi (prodotti con grandi quantità di energia fossile).
Il retroterra scientifico dell’agricoltura biologica, al di là dei marchi e delle garanzie per i consumatori, è l’agroecologia, che si prefigge, di mettere a punto dei sistemi di produzione sostenibili basati sulle funzionalità degli ecosistemi. Non va dimenticato che un campo coltivato è una porzione di natura, con intricate interrelazioni di organismi (batteri, funghi, vermi, artropodi…) e processi diversi (ciclo dell’acqua, ciclo del carbonio e degli altri elementi…), più o meno impattati dalle pratiche agronomiche, ma sempre presenti, e necessari al buon funzionamento del sistema. Meglio si conoscono i fattori abiotici e biotici in gioco, e non è affatto semplice, perché ogni porzione del territorio è diversa, e va studiata e capita, coinvolgendo specialisti delle varie discipline, meglio lo si può gestire, minimizzando rischi, danni e apporti nocivi.
Gli oppositori dell’agricoltura biologica mettono l’accento sulle sue rese a ettaro, che sono spesso minori in ambiente temperato, seppure in genere, e in particolare per le colture effettuate in Italia, non drasticamente. I suoi costi di produzione sono per converso maggiori, sostanzialmente per una superiore esigenza di manodopera (per esempio per il diserbo meccanico o manuale, visto che i diserbanti sono banditi). Non ci sono però, o sono ridottissimi, gli enormi costi ambientali dell’agricoltura convenzionale, che non è più possibile non conteggiare in qualche modo. E non ci sono diminuzioni nel tempo dovute alla degradazioni dei suoli. E comunque i compensi unitari per i produttori, fatto fondamentale per la sopravvivenza delle aziende, sono molto spesso superiori. Sottolineo che la fame del 9% della popolazione mondiale non dipende in alcun modo dalle rese europee per unità di superficie: l’Europa ha problemi cronici di sovrapproduzione. E sono le sovvenzioni alle agricolture dei Paesi ricchi che mettono in ginocchio quelle dei Paesi poveri, affamando le loro popolazioni.
È un dato di fatto che agricoltura biologica e convenzionale riflettono visioni molto diverse, o anche opposte, ed entrano spesso in conflitto. Nella mia Provincia, le autorità pubbliche e gli enti agrari hanno condotto fino a pochissimi anni fa una vera e propria lotta, miope e retriva, al biologico. E nelle recentissime trattative per la nuova politica agraria europea (PAC 2023-2027) la lotta tra le due visioni è stata cruenta, e al di là degli annunci trionfalistici di certi governi, e si è saldata in modo molto meno favorevole delle promesse per l’impostazione agroecologica e il settore biologico, fatto gravissimo alla luce dell’attuale catastrofe ambientale.
Quello che le unisce, nell’attuale crisi generale, è l’assoluto bisogno di ricerca agroecologica finalizzata a mettere a punto tecniche che limitino gli impatti e producano cibi sani con il minore apporto di energia possibile. Proprio perché rifiuta le facili e indiscriminate scorciatoie rappresentate dal massiccio uso della chimica (fertilizzanti chimici e pesticidi), a lungo termine insostenibili, l’agricoltura biologica necessita sperimentazione, migliorando le tecniche della tradizione con la tecnologie oggi disponibili, provando nuove strategie e nuove strade. Esattamente come ha fatto via via, nel suo secolo di vita, anche l’agricoltura industriale. Senza ricerca non può sviluppare le sue grandissime potenzialità e è destinata a chiudersi in protocolli non comprovati, senza approfittare appieno delle conoscenze in continua evoluzione. E solo con la ricerca agroecologica l’agricoltura convenzionale può mirare a diventare meno nefasta per l’ambiente e meno rischiosa per la salute.
Al di là delle contrapposizioni più intransigenti, e più lontane dalla realtà, provenienti dall’uno o dall’altro campo – le posizioni della professoressa Elena Cattaneo, nonostante la veste imparzialmente scientifica e i toni equilibrati, ne sono un esempio paradigmatico – tra le tecniche agronomiche con effetti negativi molto ridotti e quelle più devastanti, ci sono soluzioni intermedie, e non ci sono compartimenti stagni. Penso in particolare a soluzioni che dall’agricoltura biologica, per esempio in viticoltura, si sono estese a quella convenzionale. O viceversa.
In ogni caso non si può mai dimenticare che l’agricoltura è per definizione un’alterazione degli equilibri della natura, e quindi non vedere l’insieme dei complessi processi naturali, e considerare in particolare le fitopatologie come a sé stanti (trattabili solo con i prodotti chimici, quando si possono prevenire e/o contenere con altri metodi), o vedere lo sfaccettato problema della fertilità del suolo in termini di apporto di elementi chimici (quando è in gioco invece tutto il delicato comparto vivente del suolo, e la dinamica della importantissima sostanza organica), è sempre riduttivo e fuorviante.
I potentissimi colossi dell’agrochimica lo ignorano per convenienza – uno dei dati dolenti è che la ricerca del settore è pilotata dagli enormi interessi in gioco, gli eclatanti casi documentati nei dettagli sono ormai numerosi, valga per tutti l’esempio della tossicità dei neonicotinoidi per i pronubi anche a bassissime dosi – ma di fronte alla gravità della situazione noi non possiamo più permettercelo. Non a caso però le posizioni più “riduttiviste”, sono in genere espresse da scienziati – in particolare ingegneri e genetisti – che per formazione non sono abituati a osservare la natura in termini di equilibri ecosistemici, non hanno dimestichezza con i fondamenti dei processi naturali in gioco (dinamica della sostanza organica del suolo, ciclo degli elementi nutritivi, dinamica delle popolazioni degli insetti nocivi e benefici…), e ragionano come se i dettami e i modi di vedere dell’agricoltura industriale fossero dogmi assoluti, e non precetti (riduttivi) con una loro storia (in genere recente) e dei precisissimi interessi soggiacenti.
Sono a conoscenza queste persone che all’origine dell’utilizzo dell’azoto di sintesi – messo a punto per produrre gli esplosivi – in agricoltura, che loro danno per scontato, c’è la situazione di incertezza all’uscita della prima guerra mondiale, sul piano della sovranità alimentare dei vari Stati e delle capacità belliche, e l’enorme pressione dei governi e delle industrie chimiche per imporli in agricoltura? Conoscono la genesi degli insetticidi cloroderivati e fosforganici, anch’essi usati inizialmente per scopi militari, e poi riciclati a fini di lucro in agricoltura?
Lodo di Cattaneo il suo sforzo di documentarsi, ma è evidente che è estranea alla necessaria larghezza di vedute di un approccio ecologico (o più precisamente “agrosistemico”), che tenga presente tutte le variabili ambientali, comprendendo quelle biotiche (la microflora, la flora e la fauna), e il loro interagire con gli interventi antropici. E non conosce l’agricoltura mondiale, o meglio le agricolture mondiali (non esiste solo quella che noi diamo per scontata).
Cade quindi in continue semplificazioni, che mettono assieme pretestuosamente piani diversi (le rese, la fame nel mondo, la disponibilità di suolo a livello mondiale, l’economia…), ricalcando vulgata molto diffuse, ma senza fondamento. Non ho modo qui di trattarle una per una, ma credo che sarebbe importante che qualcun altro lo facesse, proprio per ridare al dibattito il fiato che ha in altri Paesi, come ci domandano le sfide che abbiamo davanti. La realtà è che l’agricoltura è una brutta bestia, e pur forti delle nostre tecnologie abbiamo da imparare da approcci diversi, dal passato, e perfino da certe tecniche antiche in uso nei paesi poveri. Con molta umiltà.
E non è certo spulciando la bibliografia alla ricerca di prove delle diminuzioni delle rese per ettaro nell’agricoltura biologica – chiunque conosca un po’ l’agricoltura mondiale sa che le rese per unità di superficie dipendono da molti fattori, e possono essere altissime anche in agricolture considerate molto arretrate, e non meccanizzate, o in alcune pratiche artigianali della permacultura, e viceversa sono spesso relativamente basse in agricolture estremamente industrializzate, contrariamente a quello che si pensa, che si può impostare il discorso in modo approfondito e proficuo. E nemmeno minimizzando l’importanza dell’agricoltura biologica italiana sottolineando che una grossa fetta è rappresentata da prati pascoli, quasi questi non contassero nulla, e non fossero essenziali per la biodiversità vegetale e animale e per lo stoccaggio del carbonio (la riserva di carbonio nel suolo è tre volte quella nella vegetazione, su scala globale, e le praterie sono molto importanti), e il loro modo di conduzione non fosse fondamentale.
Certo le rese a ettaro sono importantissime, e vanno studiate e analizzate più che attentamente, ma senza perdere di vista gli altri fattori. È proprio considerando solo questo parametro, dimenticando le altre funzioni (produzione di cibi sani, salvaguardia della salute degli addetti e dell’ambiente, conservazione del paesaggio…) che l’agricoltura convenzionale si è messa nell’impasse attuale. E certo nell’agricoltura biologica ci sono abusi e frodi, esattamente come in quella convenzionale, ma questo è tutt’altro discorso, che riguarda chi deve controllare e sancire.
Resta che stiamo andando rapidamente verso un quinto delle superfici in conduzione biologica, con il relativo peso economico, ecologico e “ideale”, sono ormai fuori luogo i processi sommari che erano regola in passato. Analogo discorso, molto più in piccolo, per la biodinamica che ha ormai mostrato la sua piena validità in Italia e in molti altri Paesi, anche se alcune sue pratiche fanno torcere il naso a molte persone di scienza (soprattutto quelle che non conoscono la realtà agricola, a dire la verità), non avendo comprovato fondamento scientifico. Personalmente, se mi è concesso un inciso, adoro i vini biodinamici, ma quando ho chiesto a un eminentissimo enologo di calibro internazionale da dove derivino le note che ci ritrovo, mi ha risposto, a riprova che la scienza non spiega tutto, che non lo sapeva.
INTERVISTA A GIACOMO SARTORI
20 giugno 2023
Partiamo di quello che chiami il tuo “altro fronte aperto”: la letteratura. Nel libro spieghi bene i motivi che ti hanno spinto a occuparti del suolo e della sua fertilità, ma fai solo questo modesto cenno alla tua produzione letteraria. Questo mi porta a chiederti quale sia il rapporto tra questi due impegni così diversi tra di loro.
Ho sempre avuto una attività di narratore parallela a quella di pedologo, alias studioso nel suolo. Fino a qualche anno fa le due vie erano ben distinte, poi hanno cominciato a contaminarsi, i temi ambientali sono entrati nei romanzi, e la letteratura ha messo il naso nelle mie cose scientifiche. Credo proprio per la gravità della situazione che viviamo, uno scrittore non può vivere fuori dal mondo, anche se certo la letteratura sa prendersi le più ampie libertà. Però i pezzi raccolti in questo saggio hanno per la maggior parte un tono neutro, sono scritti solo per dire delle cose che mi stanno a cuore, e che forse possono interessare chi non ha dimestichezza con l’agricoltura, ma si preoccupa per l’ambiente e per il futuro degli uomini.
Spesso si parla di biologico industriale o convenzionale. Forse non sono due concetti identici, ma è veramente possibile fare un’ agricoltura basata esclusivamente sul rispetto del regolamento europeo. Cioè si può fare un’agricoltura produttiva limitandosi a sostituire la chimica con gli input ammessi nel biologico, senza preoccuparsi della fertilità del suolo e dell’equilibrio con i cicli naturali?
L’agricoltura biologica è nata nella prima metà del secolo scorso da una visione dell’agronomia che prendeva in considerazione i vari fattori naturali e ambientali in gioco nelle coltivazioni, e insomma ecologica, che chiamiamo anche olistica. Poi nell’ultimo squarcio del secolo, mentre cresceva e diventata una realtà di tutto rispetto, si è data dei precisi regolamenti, che le hanno permesso di entrare nel mercato con precise garanzie per gli acquirenti. Ora però c’è anche chi coltiva attenendosi semplicemente alle limitazioni della legislazione, senza più condividere la sua visione ecologica, e il suo anelito a trovare tecniche sempre meno impattanti, e più rispettose per la vita degli uomini e degli animali. C’è insomma chi si è convertito all’agricoltura biologica solo per interesse, per incassare le sovvenzioni e per i prezzi superiori, e chi lo pratica rispettando semplicemente i limiti di legge. Ora il biologico è anche questo, forse prevalentemente questo, ed è la ragione per la quale il termine si presta a confusione. Quando nominiamo il biologico parliamo della sua filosofia o delle aziende certificate, di chi lo fa perché crede a un diverso modo di coltivare o di chi lo fa per convenienza, semplicemente sostituendo i prodotti chimici con quelli ammessi? E’ per questo che è forse meglio utilizzare la nozione di agroecologia.
Nel libro sostieni che dopo l’ubriacatura della chimica agricola siamo ritornati al punto di partenza che definisci come “una carenza cronica di letame”. Ma se tale carenza si manifestava già in presenza di una popolazione molto minore di oggi e per di più dobbiamo ridurre anche l’allevamento, come pensi che sia possibile eliminare completamente i concimi chimici? Compost, rotazioni, consociazioni e sovesci possono bastare?
In ogni caso l’impiego dei concimi chimici è destinato a diminuire drasticamente, perché la loro produzione richiede enormi quantità di energia fossile. E per quelli azotati c’è il problema che per quanto facciamo solo una metà viene assorbito dalle radici, il resto finisce nelle falde, e nell’atmosfera, sotto forma di ossido nitroso, che un gas con un potente effetto serra. E i giacimenti di fosforo non dureranno a lungo. Quindi non ci sarà scelta, anche solo per un problema di aumento dei prezzi, e sarà una sfida enorme. Bisognerà utilizzare la capacità che hanno le leguminose di arricchire il suolo in azoto, come dici tu, appunto in rotazione con i cereali, e anche i compost, i sovesci, e certo anche i residui umani. E il letame, ancora lui. Perché attenzione, il letame non c’è più perché i grandi allevamenti industriali non lo sfornano più, producono liquami che non valgono nulla e sono inquinanti. Ma se facciamo un piccolo sforzo per consumare meno carne, possiamo tornare a allevamenti più piccoli, che producano carne più sana, e appunto letame. La vera potente leva che abbiamo a disposizione è quella, la diminuzione del consumo di carne. Ora quasi due terzi delle terre coltivate servono per nutrire il bestiame, è una aberrazione.
A proposito di concimi e di fertilità si fa un gran parlare di digestati degli impianti di biogas-biometano e di biostimolanti. Tu cosa ne pensi?
Il tema è vastissimo, come sono diversissimi i materiali utilizzati e i digestati stessi, nei quali tra le altre cose c’è spesso il problema della presenza di patogeni, di antibiotici, di sviluppo di germi resistenti, di metalli pesanti e altri inquinanti, oltre che i pericoli di apporti alle falde di nitrati e di emissione di ammoniaca nell’atmosfera. E la ricerca sui reali effetti sul suolo sono ancora molto indietro. Vorrei però limitarmi all’aspetto che è più in rapporto con il mio libro. Il problema è con cosa si alimentano gli impianti che producono gas. Lo spirito dell’Unione Europea è quello di incentivare i materiali di scarto, ma dal 2022 la legge italiana ha incluso nei sottoprodotti utilizzabili anche la paglia e gli stocchi di granturco, e addirittura il fieno, e altri residui delle colture. Il che vuol dire che invece che restituire al suolo questi residui delle coltivazioni, reintegrando almeno in parte la grandi quantità di sostanza organica che asportiamo con i raccolti, li dedichiamo alla produzione di energia destinata prevalentemente ai trasporti. Uno dei problemi drammatici, e sempre presente nell’agricoltura convenzionale, nel mio libro mi dilungo molto su questo, è appunto la progressiva diminuzione di sostanza organica dei suoli, perché le perdite non vengono compensate. Ma se la sostanza organica la usiamo per alimentare i digestori i suoli ne pagano lo scotto. E’ vero che una parte viene recuperata come digestati, ma al suolo ne arriva comunque molto meno. Molti dei 1600 digestori italiani utilizzano mais e foraggi, del resto, vere e proprie colture!
E vorrei ricordare cosa sta succedendo in Francia, dove gli impianti di biogas, che ricevono notevoli incentivi, e stanno letteralmente proliferando, sono diventati una boa di salvataggio per gli allevamenti bovini, che da anni non sono più redditizi. E’ quindi diventato un metodo per tenere in vita, grazie agli aiuti, un sistema nocivo per l’ambiente, che maltratta gli animali, e che sforna prodotti di scarsa qualità. E appunto nei digestori finiscono le colture intercalari, quelle che si fanno tra un raccolto e quello successivo per tenere i suoli coperti, letame, e tante altre sostanze organiche che dovrebbero tornare direttamente ai suoli. Molte aziende addirittura cessano di allevare, si concentrano sulle colture per i digestori, il cui gas è impiegato per produrre energia elettrica. E’ una assurdità, un passo ulteriore nel senso della insostenibilità e dell’impoverimento dei suoli, appunto nel nome della transizione energetica,
Riguardo i biostimolanti è certo un campo molto interessante, ma consideriamo che la prima fonte di biostimolazione è quella di un suolo sano, ricco di sostanza organica, e con una grande biodiversità. Negli ultimi anni ne abbiamo prove scientifiche sempre più solide, non sono più parole. Se mi si permette il paragone, è come una persona che fuma trenta sigarette e beve dieci birre al giorno e non fa attività fisica e è in sovrappeso, può prendere tutte le vitamine e gli integratori che vuole, ma la situazione di partenza non è quella ottimale!
C’è un’agricoltura che fa a meno del suolo e viene decantata come ecologica. Cosa pensi dell’agricoltura “verticale” (idroponica)?
Dal punto di vista ecologico l’agricoltura idroponica è una completa assurdità, in particolare quando le piante, come spesso succede, ricevono la luce artificiale. Perché trasformiamo l’agricoltura, che è l’unica attività umana che crea energia, sfruttando la fotosintesi, alimentata dal sole, in una attività che consuma energia. Tanto più che in genere viene attuata, per esempio in Olanda, che con questo metodo è diventato il secondo esportatore mondiale di frutta e verdura, in serre riscaldate. E’ vero che ora le lampade a led consumano relativamente poco, ed è vero che le tecniche adottate permettono di ridurre al minimo i consumi di acqua e di concimi chimici, e è vero che l’energia può derivare in certi casi da fonti pulite (a volte le serre olandesi sono scaldate con l’energia geotermica), ma in ogni caso noi rinunciamo a alimentare la fotosintesi con la luce solare, rinunciamo alla capacità che hanno i suoli di nutrire le piante, grazie alla loro vita microbica, e ai cicli degli elementi che albergano, rinunciamo alla capacità che hanno i suoli e i campi in buone condizioni di mitigare gli attacchi di patogeni e di parassiti. Uno dei problemi enormi delle coltivazioni convenzionali sono le rese energetiche molto basse, il che vuol dire che richiedono molta energia, che viene in genere dal petrolio. Rese energetiche che appunto per certe colture, frutticole e ortive, e in particolare in serra, diventano negative. Detto il altre parole noi produciamo i pomodori con il petrolio. Non a caso le serre olandesi sono andate in crisi completa l’anno scorso, con l’aumentare dei prezzi del gas. Le colture idroponiche sono quindi l’esempio per eccellenza di questo scialo di energia, e direi che rappresentano l’esatto contrario dell’agroecologia, il cui principio di base è quello di assecondare i processi naturali, usandoli a nostro vantaggio. Eppure per certe colture ad alto reddito sono economicamente vantaggiose, quando il petrolio e il gas costano poco, e sono usate. E anzi sfruttando i bassi consumi di acqua e di concimi (che sono pur sempre concimi chimici prodotti con il petrolio) sono spesso presentate come altamente ecologiche. Dimenticando da dove vengono i concimi, e da dove vengono i pesticidi, necessari appunto in grandi quantità, a meno di non operare in condizioni sterili (ora si fa anche questo, il che richiede ancora più energia). Siamo alla solita schizofrenia tra ecologia e economia.
Mi pare che tu non condivida il potere risolutivo dell’agricoltura 4.0 e delle New genomic Techniques (definite pudicamente TEA qui da noi) ma non credi che ci siano anche ricerche molto interessanti come quelle che puntano alla sostituzione dei pesticidi con appropriate strategie di controllo biologico?
Il mio libro è centrato sui problemi ecologici di fondo dell’agricoltura, in particolare riguardanti lo stato e la salute dei suoli, cerca di mostrare che le vere soluzioni sono quelle che vengono a patto con i funzionamenti naturali, non esistono purtroppo scorciatoie miracolose. Io non ho doti profetiche, ma non riusciremo mai, mai e poi mai, a far fare alla natura quello che vogliamo noi. Ci abbiamo provato con la chimica, e ci è andata male, ci siamo praticamente segati il ramo sotto il sedere, distruggendo i suoli e la loro biodiversità, sterminando gli insetti e gli uccelli, cambiando il clima. E adesso ci illudiamo di sostituire i preparati chimici con altri preparati o organismi viventi, e di sfornare mirabolanti nuove varietà, restando in realtà ancorati alla stessa logica arrogante e ignara degli equilibri ecologici, della complessità delle interrelazioni in gioco, della necessità di conoscere e assecondare i funzionamenti naturali. Non funzionerà mai. L’unica via, se vogliamo salvarci, è quella di studiare i processi naturali, e di coltivare sfruttando le capacità di autoregolazione, di prevenire gli effetti negativi, adattando le tecniche alle specifiche caratteristiche di ogni territorio, di ogni campo. L’agroecologia, insomma. Lì sì che c’è bisogno di ricerche, di nuove tecniche, di innovazioni, di consulenza tecnica, di formazione, di sostegni scientifici. Ma non saranno le innovazioni da sole, perseguite in realtà a fini puramente commerciali dagli stessi cinici colossi che hanno portato alla devastazione dei territori, e spesso tremendamente energivore, a fare aumentare il tasso di sostanza organica nei suoli, e a diminuire drasticamente gli impatti delle nostre colture. E non dimentichiamo che le forme di agricoltura che nutrono i tre quarti della popolazione mondiale sono molto arretrate, non riceveranno alcun apporto dalle tecnologie di punta.
Si vanno sempre più diffondendo claim pubbliciari, etichette e marchi che dovrebbero attestare la qualità del cibo, come: “Zero residui”, “Agricoltura rigenerativa”, il logo con l’ape della cosiddetta agricoltura integrata e via dicendo. Come pensi che il biologico possa difendersi da queste forme di greenwashing?
I marchi di cui parlano creano molto confusione, perché in genere non garantiscono nulla (“zero residui” non garantisce l’assenza di residui, ma una soglia inferiore a 0,00), non devono rispondere a alcun organismo di controllo, e non garantiscono soprattutto che le colture rispettino l’ambiente, che è altrettanto importante. E’ indubbio che è una delle tante disparate operazioni di greenwashing che stanno adottando aziende, grandi gruppi e attori commerciali. Come sappiamo il capitalismo è diventato terribilmente spregiudicato e cinico, quindi non ha alcun freno morale o di altro tipo. E è evidente che queste strategie creano molta confusione, e penalizzano il biologico, che invece è una reale garanzia, come del resto rivelano tutte le analisi della frutta e della verdura fatte da Legambiente e da altri. La mia opinione, ma non sono per niente addentro, è che il biologico ha un futuro se saprà affermare e mostrare la propria differenza, mettendo la barra ancora più alta, prendendo le distanze dalle realtà che hanno solo fini commerciali, ritrovando l’essenza della visione dalla quale è nato, e usandola come carta da visita. E’ compatibile questo con le grosse parti di mercato, con le grandissime cifre? Io non lo so. Ma devo confessare che preferirei un biologico con una crescita più contenuta, ma che non svende la sua bellissima anima, piuttosto che un biologico annacquato, che è forse destinato a essere mangiato in men che non si dica dai giganti della distribuzione e dagli altri grandi attori.
Tu vivi da molti anni in Francia dove il bio è nato prima che da noi. Quali sono le differenze con il nostro paese che ti hanno più colpito da questo punto di vista?
Quello che mi colpisce del mondo biologico italiano, e che è stata sottolineata anche in alcuni contributi che hai pubblicato sul tuo blog, è la scarsissima vitalità collettiva. Forse è questa la molla principale che mi ha fatto scrivere questi pezzi. A fronte di realtà molto belle e molto varie, e di una percentuale di diffusione che si avvia piano piano verso un quinto delle superfici, manca il lavoro collettivo, che è stato così importante per la sua crescita, mancano gli scambi, la riflessione, i dibattiti, le riviste, i collettivi, le istanze rappresentative, le personalità di spicco e autorevoli che possano rappresentarlo, i libri, le case editrici che vogliano affrontare questi temi, uscendo dalle logiche del mondo letterario. Manca forse anche la spinta ideale. Mi sembra che sotto questo aspetto in Francia ci sia molta più vitalità. Sono stato recentemente a una iniziativa del collettivo “Les soulevements de la terre” e sono stato colpito dall’energia, dalla determinazione, dalla preparazione delle varie persone, che avevano una età media molto bassa. Lì vedo molte riviste, molti libri, molti interventi, appunto molto fermento, che coinvolge anche molti ricercatori. Penso anche per esempio a un altro collettivo, “Les naturalistes en lutte”. L’urgenza della crisi climatica e ambientale viene presa molto più seriamente da una notevole fetta di persone, mi sembra.
Rispetto a quanto dici del biologico nel libro c’è qualcos’altro che vorresti aggiungere?
Come sempre succede gli interventi riuniti in questo libro mi è servito per riflettere, documentarmi, studiare, chiarirmi le idee. Ora su alcune questioni sarei più chiaro temo. E in particolare sul ruolo della scienza, e sui suoi limiti intrinseci, che io affronto più volte di striscio, ma che credo andrebbe approfondito meglio, utilizzando gli strumenti che ci forniscono alcuni pensatori, penso in particolare alla filosofa belga Isabelle Stengers.
Interessante. Ma troppo fiducioso nelle posizioni astratte della agroecologia ( es.sulle idee di equilibrio naturale omeostatico). Manca e si potrebbe facilmente raggiungere un approccio che ponga i processi ambientali (proprio quelli chec coinvolgono l’ecologia dei suoli) in una prospettiva storica , rivaluti le aree marginalizzate (in Italia montane) dallo sviluppo dell’agroindustria (sottraendole alle cd politiche dir rinaturalizzazone ) e le pratiche storiche che l hanno rese produttive in diversi e comlessi sistemi locali, i sistemi multipli e i loro meccanismi di restituzione dela fertilità. Insomma manca l’ecologia storica. (historical ecology).Un vero peccato!!
buongiorno Moreno, non so se le sue considerazioni si riferiscono alle mie risposte alle domande di Canale, o al libro. Questo riunisce dei pezzi che sono pensati per i non addetti al mestiere, per dare degli elementi per me necessari per mostrare quanto le litanie che vanno per la maggiore (l’incremento delle rese a ettaro come soluzione al problema della fame, le nuove tecnologie come unica risposta valida ai problemi dell’agricoltura…) non hanno alcun fondamento . Parlando con le persone non addentro, constato quanto queste interessate visioni (sappiamo bene a chi fanno comodo) siano invasive, e come manchino completamente le informazioni per capire un minimo l’agricoltura e i suoi rapporti con l’ambiente. Sono quindi discorsi molto generali, ma che rimandano pur sempre continuamente alla storia (e il pezzo più lungo è appunto dedicato a una carrellata su come le varie agricolture hanno affrontato via via il problema della fertilità). E come dico nella nota finale credo che sia necessario incrociare vari approcci, tutti in realtà parziali.
Chiarito questo non credo, ma appunto non è l’oggetto del libro, che non ci sia agroecologia se non partendo dal locale, e come dice lei proprio ricostruendo la storia del paesaggio, in una prospettiva transdisciplinare, e cercando le risposte che possano essere adeguate, proprio alla luce del passato. Quindi mi interessa moltissimo il vostro approccio (personalmente ho lavorato molto sulla datazione dei suoli e sulle tracce che essi portano delle evoluzioni del paesaggio).
Spero di essere stato chiaro…