Conversazione sull’allevamento bovino al Passo del Brallo

Agosto 24, 2023 3 Di Giuseppe Canale

Conosco Lino Verardo da più di dieci anni e lo considero un vero esperto in fatto di allevamento bovino. Quest’estate sono andato al Passo del Brallo per incontrarlo mentre stava facendo il fieno nei prati là sotto, in contrada Casoni. Volevo parlare con lui di una serie di questioni riguardo all’allevamento bovino su queste montagne nella zona delle 4 Province (a cavallo tra Pavia, Alessandria, Genova e Piacenza). In particolare mi interessava discutere con lui delle peculiarità di un allevamento in stalla a base di fieno come il suo. Il vantaggio principale dell’allevamento a base d’erba è certamente quello di una produzione con impatto ambientale quantomeno neutrale (vedi su questo stesso blog: https://storiedelbio.it/2022/04/26/ruminanti-addio/  ). A questo proposito, stupisce piuttosto che vi siano esperti che sostengono la neutralità climatica dei nostri allevamenti intensivi (vedi: https://www.clicmedicina.it/allevamenti-bovini-italia-giuseppe-pulina-20milioni-tonnellate-co2-ma-net-zero-emissioni/ ). Come se non si sapesse che quel bestiame è alimentato quasi esclusivamente con mangimi per la cui produzione si coltivano enormi quantità di cereali, soia e altri vegetali. E che tali coltivazioni consumano grandi quantità di energie fossili sotto forma di concimi chimici, lavorazioni meccaniche, trasporti e quant’altro, mentre si continuano a disboscare i polmoni verdi del pianeta come l’Amazzonia. Ma vi è un altro aspetto a cui bisogna prestare attenzione: sfalciare il fieno su questi monti, che sono territori fragili, è un’attività fondamentale per mantenere un patrimonio di prati permanenti di grande valore ambientale e paesaggistico. Invece farvi pascolare, come spesso avviene, grandi mandrie di pesanti vacche Limousine allo stato brado, se può sembrare una pratica sostenibile e una soluzione al problema dell’abbandono, rischia alla lunga di creare ulteriori danni (distruzione della sottile cotica erbosa, sviluppo sempre maggiore delle infestanti, dilavamento dei versanti più ripidi e frane). Molti sembrano non capire che si tratta di un uso dissennato di risorse insostituibili che non ci si preoccupa minimamente di conservare.

Ho voluto sentire Lino proprio perché l’esperienza che porta avanti da molti anni, apparentemente retrograda, mi sembra molto più avanzata di quella di certi innovatori che, vantando il loro interesse per il benessere animale – citano persino i sistemi per allontanare le mosche – evitano di mettere  minimamente in discussione le logiche dell’allevamento industriale (vedi ad esempio:  https://www.ilgiornaledivicenza.it/argomenti/economia/ilaria-pizzolato-marano-vicentino-imprenditrice-agricoltura-allevamenti-animali-coldiretti-1.10213906  ).

Più in generale mi pare che la sua scelta radicale di alimentare le vacche solo col fieno non solo dimostri una validità economica per la sua azienda ma ci permetta anche di capire che, se si vogliono attuare forme di allevamento bovino più sostenibili, è inevitabile, almeno qui da noi, una fortissima riduzione delle produzioni. Il prezzo dei prodotti delle vacche alimentate solo col fieno non è oggi molto più alto di quello del convenzionale. Ma, a fronte di una offerta, anche solo a livello europeo, molto più limitata, e senza una corrispondente riduzione della domanda (solo di carne?) sarebbe inevitabile un fortissimo aumento dei prezzi. Tale esito potrebbe forse essere attenuato dal successo della cosiddetta “carne in provetta”, la cui sostenibilità ambientale è però ancora in discussione.

Nel frattempo, il governo Meloni ha preferito scagliarsi contro la “carne sintetica”, ancora lontana dall’essere competitiva e in commercio in Europa, e schierarsi invece contro la nuova direttiva europea sulle emissioni inquinanti degli allevamenti intensivi (vedi: https://www.cambialaterra.it/2023/07/emissioni-allevamenti-intensivi-il-parlamento-ue-boccia-la-revisione/ ). In questo come in altri casi, la scusa della difesa del made in Italy serve a prendere le parti del mondo agricolo più retrivo, senza preoccuparsi minimamente di incentivare il cambiamento delle abitudini alimentari.

Le vacche sono la passione di Lino Verardo. Una passione sviluppata fin da bambino quando viveva nei dintorni di Pegli (GE) dove è nato nel 1955. A quel tempo a Genova e nei suoi dintorni sopravvivevano ancora parecchie piccole aziende agricole a conduzione familiare che rifornivano la città di prodotti freschi e latte. Era stato proprio il nonno materno, contadino con sei vacche in Val Varenna alle spalle di Pegli, con cui stava sempre insieme da bambino e che era anche una sorta di veterinario, a trasmettergli la passione per le vacche. Passione che, più grandicello, continuò a coltivare nelle vacanze estive dagli zii materni anch’essi contadini-allevatori in Val Polcevera (vedi Contadini per scelta, esperienze e racconti di nuova agricoltura, Jaca Book 2013, pag.256 e seg.). Finito quel mondo contadino distrutto per sempre dalle conseguenze del boom economico, Lino, dopo aver studiato agraria a Voghera, dopo una prima deludente esperienza lavorativa in quella zona e il militare, va a lavorare in una grande azienda zootecnica di Reggio Emilia dove è finalmente apprezzato. Ma questa esperienza positiva non lo soddisfa ancora e prova a gestire, senza grandi prospettive, un’azienda agricola di lontani parenti verso Val di Nizza, nell’Oltrepò Pavese. Così appena si presenta la possibilità di rilevare un podere a San Ponzo – in Valle Staffora nell’Oltrepò Pavese – e mettersi in proprio, coglie l’occasione per realizzare il suo sogno di tenere le vacche a modo suo.

Ecco in sintesi cosa ci siamo detti

G. – Ricordami un po’ le caratteristiche della tua azienda

L,  – Sono arrivato a San Ponzo nel ’78-’79 e ho affittato. Adesso coltivo 70 ettari di cui una ventina miei, che ho comprato nel 2005, gli altri invece sono in affitto. La cosa principale che faccio, con l’aiuto determinante di mia moglie e di mio figlio, è l’allevamento bovino da cui ricaviamo i formaggi e le carni che vendiamo direttamente ai privati,

Facciamo anche un po’ di cereali ma per alimentare il bestiame con quelli bisognerebbe produrne tanti. Noi non abbiamo abbastanza terra e poi questi sono terreni più poveri di quelli di pianura, non sono irrigabili. Sono terreni di alta collina. Noi coltiviamo l’erba. Facciamo la rotazione con delle graminacee. Mettiamo anche un po’ di grano ma per la maggior parte coltiviamo foraggi. Noi facciamo le rotazioni con una leguminosa, erba medica o trifoglio, e delle graminacee come il sorgo, che è una coltura non tradizionale ma che con i cambiamenti climatici viene su benissimo e richiede poca acqua. Di solito facciamo un anno di sorgo o di un miscuglio di graminacee, tipo loietto, e poi quattro anni erba medica. Dopo torniamo a seminare, con minima lavorazione, il sorgo o anche un po’di grano per fare il pane per noi e da vendere. Noi usavamo anche il triticale, che è un incrocio tra segale e grano, in sostituzione del sorgo. Lo mettevamo per i maiali di cui recentemente aveva cominciato a occuparsi mio figlio che è anche norcino, mentre mia moglie si è sempre occupata del formaggio, ma con la storia della peste suina ce li hanno fatti ammazzare tutti. Le leguminose arricchiscono il terreno di azoto e sostanza organica e poi noi abbiamo il letame della nostra stalla. Insomma mettiamo il cereale o il sorgo con il letame . Coltivati così saranno una quarantina di ettari il resto sono prati stabili e qualche area boscata.

G. – Quante bestie tieni e di che razza sono?

L. – Saranno una sessantina. Abbiamo scelto la mucca Varzese e la Cabannina perché, quando c’è stata l’introduzione delle quote latte e il crollo del prezzo del latte, che allora producevo con le mie Frisone, io e mia moglie abbiamo deciso di tenere solo bestie che magari producano poco ma che mangino solo quel che possiamo produrre da noi, ossia fieno. Le alleviamo esclusivamente a fieno. Non come negli allevamenti intensivi che gli fanno mangiare l’erba magari due mesi in montagna e poi gli danno quasi solo del mangime.

La Cabannina l’ho scoperta nel ’74 quando ero a militare e sono andato alla fiera di Verona dove c’erano gli allevatori genovesi che avevano fatto lo stand con la mucca Cabannina. Non avevo mai visto quel tipo di vacca perchè a Pegli avevamo le Varzesi.

G. – Perché non tieni le Bruna Alpina?

L. – Prima di tutto perché di Bruna-Alpina pure non ne trovi più. Sono tutte incrociate con la Brown Swiss che sarebbe la bruna alpina americana. La Bruna in Italia l’ha introdotta Mussolini per aumentare la produzione sostituendola alle razze diffuse precedentemente come le mie. La Bruna produce il doppio delle mie che in media fanno 6 litri, ma non puoi alimentarle solo col fieno, devi dargli anche un po’ di cereali.

G. – Tu da dove hai preso queste razze di vacche ?

L. – Noi siamo stati fortunati perché nel 1980 la Regione Lombardia ha fatto un piano di sviluppo per la salvaguardia della vacca Varzese. Hanno speso un miliardo di lire ma l’unica cosa positiva che hanno fatto è stato che hanno raccolto il seme di tutti i tori. Poi le hanno date per pochi soldi a tre cooperative che avevano le Limousine purchè mantenessero la razza. Invece a quelli non gliene importava niente della Varzese e le hanno incrociate tutte con la Limousine. Così nel giro di 4-5 anni è sparita. Ne sono rimasti solo 30 capi in mano a pochi vecchi delle nostre valli ciascuno dei quali ne aveva una o due che le tenevano per affezione dato che avevano tutte 13-15 anni. La prima l’ho comprata tra Cerignale e Orezzoli dai fratelli Troglio. Abbiamo anche avuto la fortuna che a quel tempo avevamo un direttore dell’associazione allevatori che era in gamba ( Mario Lazzati – adesso in pensione) che si è interessato per il recupero qua e là delle fiale del seme. Ho cominciato io per primo, poi un altro, poi è venuta fuori la storia dei contributi per mantenere la razza – non sono poco, arrivano a 400€ per vacca, anche per la Cabannina – così tanti allevatori le hanno tenute per avere il contributo, che magari non le mungono nemmeno ma le tengono solo per quello. Ma la rovina è stata che questa cosa è arrivata anche a Milano dove magari tengono 3-4 varzesi per l’immagine e poi fanno il formaggio col latte delle Frisone. Il problema è quello lì (24’)

Il seme lo tiene l’Associazione Allevatori che ogni anno fa i prelievi e conserva le fiale. Quando mandi un manzo al macello vengono dall’Università e dopo che è morto fanno il prelievo. Hanno fatto anche il trapianto dagli embrioni da 4-5 mie vacche che mi piacevano particolarmente, fecondati col toro prescelto da me, su una frisona da cui è nato un vitello figlio delle mie mucche. Tutto ciò per mantenere la razza, per cercare di non disperderla. Vedrai che quando finiranno i contributi resteremo io e uno di Casale Staffora che le teniamo e non le tiene più nessuno!

La Cabannina, che si trova solo nei dintorni del paese di Cabanne in Val d’Aveto, l’ho presa lì vicino, a Parazzuolo dal padre di Angelo Cella che oggi prosegue nell’attività del padre e che considero assai affine alle mie idee. Così nel giro di 4-5 anni sono arrivato ad averne dieci o dodici. E’ una vacca che ha una produzione di latte più costante della Varzese che invece può variare molto da un capo all’altro. La ragione è probabilmente che la Cabannina è sempre stata allevata come mucca da latte mentre la Varzese  era apprezzata sul mercato più come bestia da lavoro (buoi da usare in pianura nelle aziende grosse che non avevano tempo per addestrarli) e da riproduzione (tori da monta).

Le nostre sono vacche leggere come le Bruna, anzi la Cabannina è più piccola e anche la Varzese. Sono le Limousine che sono molto più grandi e quindi poco adatte per pascolare su suoli con forti pendenze e cotiche erbose poco profonde come sono quelli dei nostri monti.

Quando sono arrivato qui tenevo le frisone da latte fin quando il prezzo del latte, che mi ritirava un caseificio di Rivanazzano, non è crollato, anche se ti davano un po’ di contributi alla produzione. (15′)

Non puoi tenere tante razze diverse. Devi tenere quelle razze che puoi alimentare facilmente e che riescono a produrre qualcosa, anche se poco rispetto agli standard correnti.

G. – Cosa ne fai delle tue bestie?

L. – Noi macelliamo i torelli (manzi di 18-20 mesi), invece le manze finchè posso le vendo da riproduzione, e poi macello qualche vacca anche di 20 anni.

Da noi le mucche da latte campano mediamente 18-20 anni e ho una Cabannina che ha addirittura 23 anni. Ma anche a quell’età Cabannine e Varzesi hanno ancora la stessa resa di quelle più giovani. Le campionesse fanno una decina di litri al giorno però mangiano solo fieno e se scampano tutti gli anni che ti ho detto vuol dire che stanno bene. In media però fanno 6 litri. Solo la campionessa può arrivare a farne 10, 12, 15 ma solo per 2-3 mesi. Sicuramente 10 litri di media non me li fanno! Perchè di media mi fanno 25 quintali all’anno e la lattazione dura mediamente 300 giorni. In lattazione ce ne saranno 20-25. Poi non le mungo tutte, a qualcuna gli lasci il vitello da allattare, qualcuna è in asciutta, qualcun’altra deve partorire. Le altre sono manze, torelli, vitelli. Questi li faccio macellare io e poi vendo la carne ma in questi anni ho venduto anche tante manze da riproduzione.

Invece con la Frisona devi avere anche un mucchio di bestie giovani per la rimonta dato che devi sostituire quelle che dopo pochi anni dismetti. Invece noi da una vacca di vent’anni ci siamo inventati di fare anche i salamini, le bresaole. Così riesci a ricavare dei bei soldi anche da una vacca vecchia. Puoi ricavare fino a 1.000 euro facendo tu la trasformazione. Invece quando vendono una Frisona prendono qualcosa come 200 € dato che va a finire negli hamburger di carne italiana di Mc Donald

Io quel problema della rimonta non ce l’ho perchè le mie vacche continuano a partorire e alle spalle hanno sempre altre vacche che generano, così ho sempre un mucchio di bestie. Sicchè delle volte vendo quelle giovani dato che quelle vecchie producono ancora. Non posso continuare a aumentarle, non posso mica tenere mille vacche, Adesso come manze pronte da ingravidare e di quelle un po’ più giovani ne avrò una quindicina. Quest’anno qualche vacca dovrò sostituirla perché sono talmente vecchie ma mi ricresce. Quando ammazzi una vacca è una cosa impressionante, però purtroppo è così, o diventiamo tutti vegani, ma non è neanche giusto questo.

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G. – Mi dicono che negli allevamenti intensivi le macellano dopo 4-5 anni

L. – Anche prima. La vita media delle Frisone è un parto e mezzo, due – quattro anni al massimo. Le ingravidano a un anno, mentre noi a due, e poi gli danno da mangiare di tutto e di più. Pensa che negli allevamenti intensivi arrivano anche a dargli il glicole che si usa come antigelo perché così aumentano la produzione. Anch’io ho avutole Frisone, ero anche un appassionato di genetica, facevo una media alta di latte. Adesso ce ne sono che fanno 180 quintali di latte in un anno. Non lo fanno nemmeno tutte le mie vacche messe assieme in un anno!

Logicamente anche da carne le mie vacche rendono di meno perché non sono di razze come la Limousine o la Piemontese, non sono bestie strutturate per fare carne, però la nostra carne è buona. E poi le nostre sono vacche che non ti costano niente, solo il fieno. Lascia perdere che il prezzo del fieno l’anno scorso è andato alle stelle per la siccità.

G. – In un anno quanto fieno consumano le tue bestie?

L. – Mediamente una quarantina di quintali per vacca. Una rotoballa pesa 350 kg e quindi una dozzina di rotoballe/anno per capo per un totale di circa 700 rotoballe all’anno.E’ tutto fieno che produciamo noi, solo l’anno scorso per la prima volta ne ho dovuto comprare una decina a 30 €, magari c’era anche un po’ di speculazione commerciale.

Qui dove sto sfalciando non so quanti ettari sono ma la quantità di fieno è poca. Invece nei 40 ettari di terra che ho, metti che 25 siano a foraggere, se piove tagliamo l’erba medica anche 3 volte all’anno; con il sorgo e le altre graminacee facciamo se va bene due tagli. Il resto sono seminativi a rotazione.

Noi non facciamo insilati, se c’è bisogno sigilliamo le rotoballe in modo che il fieno non marcisca e mantenga le sue caratteristiche, è una specie di insilato ma è naturale.

G. – I prati su questi monti si sono molto ridotti e poi bisognerebbe anche ripulirli di infestanti come cardi e asfodeli, ma se vogliamo continuare a mangiare un po’ di carne buona dove troviamo tutta l’erba necessaria?

L. – I cardi vengono dove non si taglia l’erba. Per mantenere i prati bisogna continuare a tagliarci l’erba. E’ sbagliato lasciar andare le bestie, come fanno certi allevatori di pianura che fanno qui da noi una specie di monticazione selvaggia, invece di tagliare prima l’erba. Le Limousine che hanno vanno bene per i pascoli come quelli in Francia in cui sono nate ma non qui.

Riguardo al fieno qui ce ne sono tanti, pensionati o che magari lavorano in città, che vengono su col trattore a fare il fieno. Adesso con le rotoballe si fa una fatica relativa, non è come una volta. Se uno riesce a fare anche solo 10 rotoballe in un giorno e prende 20 € per rotoballa sono soldi trovati. Questo è il discorso che fanno i più tanti.

Ma è impensabile allevare qui con il fieno che si può ricavare su questi monti le vacche che ci sono negli allevamenti intensivi, non si riuscirebbe a produrre nemmeno il 20% di quello che producono adesso. Bisognerebbe ridurre drasticamente il numero di capi.

G. – Qualcuno sostiene che si potrebbero arricchire questi prati seminando altre qualità di erbe e tornare anche a utilizzare la foglia di certe essenze arboree.

L. – Se semini su prati come questi non attecchisce niente, prenderà appena lo 1% della semenza e poi non è più come una volta che la potevi raccogliere nei fienili. Da quando ci sono le rotoballe la devi comprare e costa un mucchio di soldi. E’ cara come il fuoco!

E’ vero che una volta si usava fare la foglia per le bestie. Facevano delle fascine di foglie che d’inverno davano alle vacche e poi mettevano le fascine ripulite nella stufa, ma allora erano in tanti e avevano solo 2 o 3 vacchettine nella stalla,

G. – Tu tieni le bestie sempre in stalla, come mai?

L. – Spero che quest’anno ammazzino un po’di cinghiali così manderò di nuovo, come facevo un tempo, le manze al pascolo in un pezzo di prato vicino al torrente, dato che non c’è bisogno di mungerle. Finché c’è erba fresca poi naturalmente devo metterci le rotoballe. Le altre le tengo in stalla ma se avessi abbastanza terra tutto intorno alla stalla le mollerei tutte le vacche, come fa Massimo Monteverde che  hai sentito recentemente (vedi: https://storiedelbio.it/2023/04/25/un-allevamento-tradizionale-di-bovine-da-latte-in-val-daveto/ )

Ma d’inverno non le puoi comunque lasciare fuori, rovinano il terreno e poi non ci fai più niente. Se da ottobre a maggio le lasci fuori sai che macello che combinano!

Ti dicevo, se avessi più terra le mollerei e starebbero anche meglio. Però bisogna far capire alla gente che questo accidente di benessere animale di cui parlano quelli che stanno su un divano tutto il giorno non è come dicono loro. Allora, io ho comprato una vacca che aveva 20 anni e che volevano mandare al macello perché non rimaneva più gravida, aveva dei problemi all’utero. Quando l’ho presa era stata 20 anni legata nella stalla, con me è campata ancora tre anni e mi ha fatto 3 vitelli, sempre legata nella stalla. Allora vuol dire che non è proprio così un malessere per le bestie.

Invece rispetto alla mungitura meccanica ti posso dire che adesso che sono poche in lattazione le mungo a mano e vedo che le vacche apprezzano, stanno belle ferme.

La differenza tra un allevamento intensivo e il mio, a parte la razza delle vacche ecome si gestisce la riproduzione, è l’alimentazione. L’alimentazione è il fattore fondamentale del benessere animale, e poi alimentandole solamente col fieno hai meno reflui, meno liquami, meno letame. Se vieni nella mia stalla non senti la puzza di letame.

G. – Non sono mai riuscito a vedere bene la tua stalla ma mi ricordo che era fatta in modo particolare

L. – Il mio tipo di stalla viene definito come “stalla a lettiera permanente in pendenza”. In poche parole, ho fatto una lettiera leggermente pendente in modo che lo sterco scivola via da solo e va ad accumularsi sopra il precedente in modo da avere le bestie sempre nel pulito e avere, alla base del cumulo, letame sempre maturo. Son 15-20 anni che non tocco il cumulo. Le mie bestie sono pulite come uno specchio, eppure in stalla non adopero acqua, anche perché l’acqua è poca e costa. Nella stalla le vacche sono libere di muoversi e la lettiera dove gli metto la paglia e dormono ha una pendenza del 9% in modo che la parte più molle, con il calpestio delle vacche, scende giù da sola intanto che vengono a mangiare. Io devo pulire solo la parte piana vicino alla rastrelliera dove vengono a mangiare e non i 9 metri che ci sono in questa lettiera in pendenza. Il letame che produco in questo modo diventa duro come la pietra, non riesci neanche a piantarci la forca. E’ un letame che ha 10+15 anni. Non ho mai dovuto pulire la stalla.

G. – Quando ci siamo conosciuti non eri certificato biologico…

L. – Come sai ho sempre lavorato in un certo modo. Adesso mi sono certificato perché mio figlio mi ha fatto notare che eravamo gli unici a fare il biologico senza prendere i contributi, solo per quello. Non me ne importa molto. Però adesso abbiamo i contributi del convenzionale, determinati dai Titoli PAC dei terreni che coltiviamo (prati, rotazioni…), e in più ci sono quelli del biologico. I soldi che prendiamo per il biologico sono più di quelli che prendiamo di PAC e fanno piacere. Però per conto mio non è una cosa giusta perché, anche se produci di meno, spendi pure di meno per produrre e vendi a un prezzo più alto. D’altra parte, se l’agricoltura non fosse sovvenzionata, chiuderemo tutti perché ci sono dei costi esagerati. Per esempio, un semplice pezzetto di ferro di un attrezzo di questa macchina per raccogliere il fieno costa 150 €. Se dovessimo campare solamente con la vendita dei nostri prodotti senza i contributi non ce la faremmo a stare in piedi. Quelle aziende agricole che possono dire che se ne fregano dei Titoli PAC sono di persone che non sono contadini, hanno altri redditi. Oppure ce n’è uno che ha qualche reddito fisso e l’altro lavora la terra.

G. – Come va la vendita dei tuoi prodotti?

L. – Siccome sono scemo, vendiamo la carne a 15 € al Kg. Voglio che da me venga chi ha i soldi e chi non ne ha. Mi criticano perché vendo il formaggio a 20 € quando potrei venderlo a 30-35 € ma non è giusto! C’è della gente che si vende il formaggio di capra a 35 €!

Una volta avevo dei Gas ma è meglio lasciarli perdere. Uno vuole 2 fettine di carne, l’altro vuole mezza formaggetta. Se vuoi vieni qui allo spaccio e ti prendi il pacco famiglia. Io vendo tutto a privati e il sabato vado a fare il mercato a Volpedo che funziona bene perché è piccolo e siamo veramente tutti produttori biologici. Non come quelli della Coldiretti. Una volta facevo qualche fiera ma non ne ho più voglia. Adesso che funzionava bene e avevamo fatto anche un laboratorio per i salami e che mio figlio aveva imparato a fare il norcino, con la peste suina abbiamo dovuto ammazzare tutti i maiali e adesso il dramma è trovarne da comprare allevati come dico io.

G. – Tu come la vedi col cambiamento climatico? Hai già visto delle conseguenze?

L. – Il cambiamento c’è. Ora che sia una cosa dovuta all’inquinamento o sia una cosa ciclica non so, certo l’inquinamento ha il suo peso. Però sono saltate fuori delle infestanti che non ho mai visto con delle foglie grandi, che se le strappi dopo tre giorni sono cresciute il doppio. Giù a San Ponzo di solito il primo taglio dell’erba lo facciamo a fine maggio primi di giugno. Qui dove siamo adesso a fine giugno se non a luglio. Una volta metà del primo taglio si bagnava dato che veniva un temporale, pioveva, però poi si faceva un secondo taglio che era la fine del mondo. Ora del primo taglio non se ne bagna neanche un po’, però dopo non ci fai più niente, è tutto secco.

Quando facevo il mais per le Frisone che avevo allora non lo bagnavo quasi mai, tanto alla fine di giugno cominciava a piovere per magari due o tre giorni e poi anche a luglio. Pensa che i primi tempi che ero a San Ponzo quando tagliavamo il grano in qualche fosso veniva ancora fuori l’acqua. Vicino allo Staffora c’era una risorgiva, c’erano ancora i gamberi d’acqua dolce. Nel giro di quarant’anni non c’è più niente.

G. – Come vedi il futuro della tua azienda?

L. – Come ti dicevo, il mio sogno sarebbe quello di avere pascoli e prati tutti intorno all’azienda, come nel caso di Massimo Monteverde, in modo da poter gestire le vacche come fa lui ma purtroppo qui a San Ponzo non si trovano più terreni da affittare a prezzi ragionevoli. Dovremo continuare per forza a venire su in montagna a fare il fieno e essere contenti che ci danno la possibilità di farlo senza altri oneri che le spese e qualche salame in regalo per la festa del paese. Adesso devo andare al passo della Scaparina a 1050 metri, vicino al Penice. Non ho, come invece altri, un problema di successione ma temo che mio figlio, pur ereditando un’azienda già ben avviata, potrà avere più difficoltà di me che ho iniziato con solo 7 vacche e 7 milioni di lire di debiti.

N. B. Ogni possibile errore o omissione è di esclusiva responsabilità dell’autore