L’ AVVENTUROSA STORIA DEL BIOLOGICO
Nel panorama, non molto vasto, dell’editoria italiana sul biologico mancava un’opera come questa di Alberto Berton: La storia del biologico, una grande avventura. Frutto dello studio e delle riflessioni di una persona che opera da molto tempo con ruoli diversi all’interno del mondo del biologico, il libro ricostruisce fin dalle più lontane origini il percorso che ha portato l’agricoltura biologica a diventare da fenomeno marginale a costume sociale di massa, con i cambiamenti che questo comporta. Non si limita alla ricostruzione di vicende storiche talvolta poco note, ha anche il merito di rivalutare gli apporti della scuola agroecologica italiana, come quello di Alfonso Draghetti solo per citare il personaggio forse più noto. Come scrive Berton, ricordando Giorgio Nebbia, suo mentore, il passato è prologo di quel che potrà avvenire, e quindi conclude il suo lavoro delineando le caratteristiche di quel biologico 3.0 di cui si parla da tempo.
Con questa intervista abbiamo pensato di fare una sorta di presentazione del libro e del suo autore tentando di andare un po’ oltre quello che vi si può leggere.
Alberto Berton è titolare di Bioeco.net ed è membro sostenitore di Ifoam (la federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica a cui dobbiamo il concetto di biologico 3.0 di cui parla Berton). E’ autore di numerose pubblicazioni sulle vicende sia storiche che attuali del biologico e fa parte della redazione delle riviste Altronovecento, edita dalla Fondazione Micheletti, e Bioeconomics Review, edita dall’Università di Perugia. E’ tra i soci fondatori della Società Italiana di Storia Ambientale (Sisam).
ALBERTO BERTON
Intervista, settembre 2023
Parlaci un po’ di te. Come sei arrivato a occuparti del biologico?
Sono nato nel 1969 a Milano. Da bambino a Niguarda ho frequentato una di quelle che si chiamavano Scuole all’Aperto, erano scuole sperimentali statali dove io e i miei fratelli abbiamo avuto la fortuna di fare asilo e elementari. Si trattava di una scuola a tempo pieno dentro un’azienda agricola con gli orti, le mucche, gli asini, le galline, le api. Alla fine dell’anno scolastico si organizzava un vero e proprio mercato con i prodotti della scuola. Si faceva lezione regolarmente e poi c’era anche una parte di agraria che a me piaceva molto. Mi ricordo che alcune volte il maestro di agraria mi chiamava per andare a pulire la stalla. Questo mi ha influenzato sicuramente. Poi c’è anche il fatto che, vivendo in una zona inquinata vicino al Seveso nella periferia di Milano degli anni ‘70, il pediatra aveva consigliato ai miei genitori di portarci finita la scuola via da Milano. Quindi 3-4 mesi all’anno li passavo in Valsassina che è diventata quasi la mia valle natale, di appartenenza. Quello lì era il mondo dei formaggi e degli alpeggi. La Valsassina è la culla dell’industria casearia italiana dove sono nate aziende come Galbani, Mauri, Ciresa, Cademartori.
Anche quest’esperienza mi ha sicuramente influenzato. Alle superiori avrei voluto fare Agraria ma i miei non erano molto di quell’idea. Dopo lo scientifico mi sono laureato in Economia Politica alla Bocconi. Era il ‘94 e sono stato uno dei pochi studenti a occuparsi di Nicholas Georgescu-Roegen il padre della bioeconomia anche se Giorgio Lunghini, con cui mi sono laureato, e Stefano Zamagni, che insegnava storia del pensiero economico, mi avevano sconsigliato di occuparmi di lui perché non c’era spazio nell’università per quel tipo di studi. Georgescu-Roegen proveniva dalla Romania che era uno dei paesi maggiormente agricoli dell’Europa, in più era stato membro del Partito Nazionale Contadino. Aveva tutta questa impostazione legata all’agricoltura e all’interno della sua opera c’è proprio una visione critica dell’agricoltura industriale e di sostegno all’agricoltura organica intesa come agricoltura che dipende il meno possibile dalle risorse non rinnovabili, esauribili. Mi sarebbe piaciuto proseguire nella carriera universitaria ma dopo la laurea su Georgescu-Roegen mi sono dovuto chiedere che cos’altro fare che avesse senso. Già allora avevo individuato il settore agroalimentare come di grande interesse per questo tipo di problematiche. Vivevo nella periferia tra Cinisello e Sesto San Giovanni e vedendo la crescita dei grandi ipermercati, che a quel tempo mi apparivano un po’ come un crimine bioeconomico, avevo deciso di capire dall’interno il funzionamento di quel sistema. Così ho vinto un fondo europeo per uno dei primi master in management della distribuzione agroalimentare all’Ifoa di Reggio Emilia, con una parte di formazione in Scozia. Questo master mi aprì poi le porte della Supermercati PAM con un percorso come allievo gerente per poi diventare direttore di supermercati. Io ero molto motivato a capire quella realtà perché a quel tempo avevo già l’idea di costruire con degli amici un “altro” negozio, un mercato bioeconomico… Volevo imparare il mestiere, pensavo che per cambiare le cose bisognasse innanzitutto conoscere il mestiere, altrimenti non puoi neanche pensare a un’alternativa. Così ho lavorato per due o tre anni in PAM e dato che ero molto motivato ho avuto la fortuna di gestire il punto vendita pilota per il settore lattiero caseario della PAM. Ho lavorato come un matto, ho imparato tantissime cose. In quel periodo collaborai per esempio con i consulenti Halstead, allora tra le principali aziende di consulenza al mondo sui freschi per le catene di supermercati, proprio all’introduzione dei primi prodotti biologici. Un periodo strano in cui, soprattutto grazie a questi consulenti, si cercava di migliorare qualitativamente l’offerta ma con una prospettiva legata ai consumatori, saltando tutta quella parte degli acquisti che nella GDO è una struttura molto pesante e vincolante. Quindi come punto vendita pilota avevamo introdotto prodotti come i salumi di Pedrazzoli e gli yogurt de Il Sentiero.
Ho conosciuto la cooperativa Il Sentiero così. Ricordo che a un certo momento, avendo finito il mio percorso di apprendimento nel punto vendita, mi stavano prospettando un avanzamento di carriera a livello di Area. Però a me non interessava uscire dal punto di vendita e cominciavo a non sopportare più certe logiche della GDO. Dopo aver lavorato per 28 giorni fino a 14 ore al giorno sotto Natale ricordo che il capo Area, che è un po’ la figura che avrei dovuto diventare, mi chiese di tenere aperto il supermercato la mattina di Natale perché la Esselunga lì vicino teneva aperto. Allora in quel periodo lì ho detto: non mi interessa. Quindi ho deciso di licenziarmi e di uscire dalla Supermercati PAM . Per un certo periodo, parlo degli anni ‘98-’99, ho lavorato con degli amici al progetto di un negozio bioeconomico, cercando di applicare quello che avevo imparato a una dimensione diversa ma con una logica commerciale simile. Il progetto andava tecnicamente contro all’idea di un supermarket classico coma la Esselunga : fresco a perimetro, struttura centrale a gondole con tutti i prodotti preconfezionati. Invece il PAM, come in altre catene che avevano gli stessi consulenti, il riferimento era più il mercato rionale. Quindi strutture flessibili, le aree fresco non a perimetro ma a isole centrali. È un approccio molto interessante che si adatta bene alle piccole superfici e all’idea di un negozio che venda prevalentemente prodotti bio freschi e sfusi. Io avevo già in testa quest’idea, idea che ho poi traslato nell’attività professionale. Però dopo poco questo progetto con degli amici è naufragato.
Allora dato che avevo già incontrato Il Sentiero ho cominciato a collaborare con loro. Alla fine degli anni ‘90 iniziava un po’ il bioboom loro avevano un progetto in grave difficoltà su in montagna perché avevano rilevato un caseificio in Val d’Intelvi. C’era il progetto di coinvolgere gli allevatori della valle e convertirli al biologico per rifornire questa latteria che c’era in val d’Intelvi ma che stava fallendo. Un progetto con il sostegno della Regione Lombardia; solo che poi il progetto è fondamentalmente fallito. Io mi sono trovato proprio a gestire la parte fallimentare finale. In modo molto ingenuo pensavo di risollevare una realtà dove lavoravano solo 5 persone dato che avevo diretto un supermarket dove ne lavoravano 90. In realtà mi sono trovato in una situazione molto più complicata, con gli allevatori che chiedevano i soldi, chi piangeva, chi minacciava… Però per un anno ho gestito tutto questo ambaradan con in mezzo banche, Regione, ecc. Un’esperienza breve che però mi ha formato tantissimo perché sono entrato nel mondo del latte, degli agricoltori, dei caseifici, ho conosciuto tutte queste situazioni anche se in una congiuntura molto delicata.
Dopo quest’esperienza molto intensa ho iniziato a lavorare all’interno del Sentiero dato che ero già consulente della cooperativa per la latteria in Val d’Intelvi. Così sono diventato in certo qual modo il braccio destro di Giocondo Castoldi, il leader della cooperativa, e con lui ho gestito tutta la costituzione delle filiere dei DOP Biologici: gorgonzola e taleggio. A quel tempo se andavi sulle fiere trovavi piccoli caseifici che ti proponevano taleggi biologici ma che non erano taleggi, non erano buoni, e io figurati con la mia esperienza…
Il Sentiero produceva latte, aveva una stalla con 100 vacche di cui 50-60 in lattazione. Producevamo quei 15 q.li di latte al giorno. Un po’ lo trasformavamo in yogurt, un po’ avevamo iniziato a darlo a chi ce lo trasformava in taleggio, però DOP fatto col latte biologico della nostra stalla che era un po’ una stalla modello a quel tempo in Lombardia. Lo davamo anche a chi faceva il gorgonzola, le scamorze e la mozzarella. Poi avevamo cominciato delle collaborazioni con altri caseifici o aziende agricole, come Hombre che aveva iniziato a fare il Parmigiano Reggiano biologico. Noi distribuivamo questo che era il primo Parmigiano Reggiano biologico anche a Ecor.
Già nel 2001 al Sentiero avevamo organizzato degli incontri, ricordo una conferenza sulle biotecnologie con AssoBiotech. A questi incontri veniva Luciano Pecchiai, fondatore con Francesco Garofalo di Suolo e Salute perché Il Sentiero, che era nato nel 1978, era stato tra le prime aziende agricole associate. Mi ricordo che una volta andai a prendere il professor Pecchiai a Milano con il furgone refrigerato del Sentiero.
In quel periodo oltre a noi del Sentiero c’erano anche quelli di altre cooperative agricole come Otto Marzo e Valli Unite e con loro cercavamo di fare rete. A quel tempo avevamo dei progetti distributivi che intendevano partire dai produttori. È stato un periodo molto interessante, abbiamo creato anche un farmer market a Cesate nel Parco delle Groane all’interno della nostra cooperativa. Dopo questo periodo di boom molto rapido tra il 2000 e il 2002 le cose al Sentiero si erano complicate, Giocondo voleva mollare, voleva praticamente lasciarmi l’azienda da gestire, ma alla fine era una cooperativa con una struttura familiare…e io non ero interessato a gestire la parte produttiva e di trasformazione.
Nel 2003 esco dalla cooperativa Il Sentiero e decido di creare una mia attività professionale, BIOECO, per lavorare in due settori di nicchia. Il biologico, principalmente i miei prodotti legati al mondo del latte, e lo sfuso. Quindi ho creato questa mia Agenzia con la quale fondamentalmente ho iniziato a cooperare con aziende agricole biologiche e con caseifici certificati, soprattutto per lo sviluppo del mercato estero. Ho poi portato in Italia in maniera pionieristica i contenitori americani per lo sfuso seguendo anche, insieme a un amico francese, lo sviluppo in Europa del mercato delle attrezzature di vendita dei prodotti sfusi. Per me aveva senso portare l’ecologia dentro la distribuzione alimentare e quindi da una parte il biologico e dall’altra la vendita sfusa. Così è andato avanti fin qui il mio lavoro con un settore rivolto all’Italia, legato all’apertura di negozi di sfuso, e un altro rivolto alle catene specializzate francesi e tedesche, come Biocoop e le Bioladen, legato ai formaggi e salumi biologici italiani.
Nel libro sostieni che l’ecologia è l’elemento di continuità del biologico ma hanno avuto importanza, e forse ce l’hanno ancora, anche altre motivazioni….
In effetti, come sai, nel 2003-4, soprattutto a seguito del primo bioboom che ha portato tanti operatori che non provenivano dal movimento del biologico nel settore, c’è stata quella profonda riflessione all’interno di Ifoam che portò all’esplicitazione dei 4 principi del movimento biologico. L’ecologia è il principio scientifico, poi ci sono il principio della salute, quello della cura e l’equità, che sono tutti altrettanto fondamentali. Quando io dico che l’ecologia è il principio che lo ha più ispirato, intendo riferirmi al paradigma scientifico, che è quello stesso che poi ha influenzato l’agroecologia. Anche il principio dell’equità, quello legato alla giustizia sociale, è parte integrante del movimento biologico, soprattutto se pensiamo al momento del suo sviluppo negli anni ‘70. Certamente lo è stato anche negli anni ‘80 e nei primi anni ’90, quando in qualche modo è stato creato il mercato del prodotti biologici – la fase del biologico 2.0 – con la diffusione del commercio al dettaglio e pure all’ingrosso di prodotti biologici Quindi il principio dell’equità è sempre stato parte integrante di quest’ambiente interno al movimento. Forse il problema si origina nel momento in cui con la regolamentazione del settore, con i primi regolamenti, ci si focalizza sulle pratiche agricole e si lascia da parte tutto quell’aspetto legato all’equità, che poi è diventato il focus del commercio equo-solidale. Ed è vero che oggi tanti prodotti certificati biologici, dal punto di vista dell’equità, nulla ci dicono su che cosa ci sta dietro. Voglio dire che ci può star dietro di tutto.
Certamente la giustizia sociale e la tutela ambientale fanno parte di quella che più in generale è se vogliamo l’ecologia politica. Forse il limite della fase avanzata del biologico 2.0 è stata una visione limitata del consumerismo, secondo la quale è sufficiente agire nel mercato, per esempio scegliendo una merce certificata, per risolvere i più generali problemi ambientali e di giustizia sociale. Ma oggi posso comprare un prodotto certificato biologico, ultra trasformato, impacchettato, con ingredienti provenienti da tutte le parti del mondo, anche dove magari c’è sfruttamento del lavoro minorile, senza saperne nulla. Alle origini del movimento biologico, fine anni ‘60 inizi anni ‘70 queste problematiche erano chiare ed erano presenti. Anche nel mercato tutto era politica, per le scelte di consumo ogni prodotto era interessante non solo se proveniva da agricoltura biologica ma anche da realtà dove, ad esempio, i diritti dei lavoratori erano garantiti.
Questo in generale …il problema c’è. C’è tutta una parte dei pionieri del biologico 2.0 in Italia che provenivano dal primo movimento che, proprio al momento dell’avvio dello sviluppo del mercato anche nella GDO, ti parlo del periodo dal ‘99 ai primi anni 2000 che anch’io ho vissuto, hanno preferito uscire dal biologico. Quando hanno visto che diventava solo un fatto puramente commerciale si sono allontanati.
Secondo te, ci sono delle peculiarità nella storia del biologico italiano rispetto a quella di altri paesi?
Da una parte c’è una peculiarità nel tessuto produttivo. Nel senso di quella tradizione agricola italiana che è rimasta soprattutto in quelle che oggi vengono chiamate zone marginali ma che in realtà erano le zone dove una volta la gente effettivamente viveva e faceva agricoltura e, comunque sia, in collina, in montagna. Diciamo che la nostra tradizione agricola ha permesso a tante aziende tradizionali di entrare nel sistema del biologico. Il tessuto produttivo italiano così frammentato, così basato su piccole realtà familiari ha permesso un più facile avvicinamento ai metodi biologici, alla certificazione, perché comunque le pratiche erano già fondamentalmente biologiche, soprattutto nelle zone marginali. Non certo nelle pianure dove c’è stata una industrializzazione dell’agricoltura a partire dagli anni ‘50. Questo lo vedo come un lato interessante dell’Italia soprattutto in comparazione con altri paesi con un’agricoltura molto più omogenea forse anche per un territorio molto diverso da quello italiano.
Un’altra particolarità del biologico italiano è la perdita di memoria. Ma forse questo non è espressione solo del nostro settore ma anche del paese in generale. Nonostante avessimo una importante tradizione agroecologica nella ricerca e nella sperimentazione, ti parlo del contributo che l’Italia da punto di vista scientifico ha dato all’agroecologia, tutta questa tradizione è stata in gran parte dimenticata.
Certo tutta la scienza agronomica prima della Rivoluzione Verde, o meglio, prima della rivoluzione nella chimica organica che effettua Liebig, siamo a metà dell’Ottocento, era una scienza agronomica organica. Però l’Italia proprio dal punto di vista concettuale da’ qualcosa in più. Almeno in questo, come sostiene Fabio Caporali, c’è una tradizione italiana. Non a caso la prima cattedra di ecologia agraria al mondo, quella assegnata a Girolamo Azzi, è stata creata a Perugia negli anni ‘20. Se vogliamo risalire più indietro già Pietro Cuppari definisce una sorta di unità organica dell’azienda agricola, dove ci sono delle parti interne che cooperano tra di loro. Questa è una visione originale, ed è una parte che è stata completamente rimossa anche dagli stessi promotori del nostro biologico, nonostante il fatto che Draghetti pose la concezione unitaria di Cuppari alla base delle proprie ricerche e sperimentazioni. Tanti si sono avvicinati al biologico, soprattutto negli anni ‘70 con Steiner e l’antroposofia. Tant’è vero che alcuni identificano il concetto di unità aziendale come un concetto steineriano.
Nel libro metti in evidenza come in Francia il movimento bio si sia sostanziato soprattutto attraverso un movimento cooperativo dei consumatori più che dei produttori mentre invece qui da noi è avvenuto il contrario. E in altri paesi?
Sì, in Francia sono proprio questi consum-acteurs che creano subito delle cooperative di consumo che poi diventano la parte trainante del sistema. Da noi è stata decisamente la parte produttiva quella trainante che ad un certo momento , nonostante lo sviluppo delle prime aziende di distribuzione come Ki e il Baule Volante, si era dovuta confrontare col problema della commercializzazione. In Francia i grossisti puri come Ecor non sono diventati dominanti perché è subito diventata forte la parte dei negozi strutturati in forma cooperativa che hanno sviluppato proprie piattaforme. In Italia invece ad un certo momento sono stati forti i produttori che hanno cercato varie volte di creare dei modelli distributivi propri. La stessa Brio è stata un tentativo in questo senso, ma sono state tante esperienze come la cooperativa emiliana Il Salto. Nella mia esperienza al Sentiero ricordo anche che si voleva creare un progetto distributivo che partisse invece che dall’unione dei negozianti dall’unione dei produttori. Si diceva c’è Il Sentiero, c’è Valli Unite, c’è Otto Marzo, c’è Alce Nero, facciamo noi dei negozi. Noi stessi abbiamo sviluppato uno dei primi farmer markets all’interno del Sentiero. Si voleva portare all’unione di queste cose. Progetti che sono poi regolarmente falliti perché c’era sempre chi andava ai tavoli e voleva il controllo dell’iniziativa come anche noi del Sentiero che pure eravamo dell’ala più movimentista. Si arrivava sempre a un punto in cui si voleva ribadire una posizione di dominanza, di controllo della struttura che si voleva creare. Si finiva sempre a ragionare della proprietà della società, del logo, di queste cose …e si creavano subito divisioni.
Invece, per quanto riguarda il movimento inglese l’obiettivo iniziale fu quello di orientare la politica agricola e la ricerca in un contesto in cui la distribuzione non era ancora quella organizzata. Sull’aspetto distributivo, inizialmente in Inghilterra, non ci fu una grande riflessione mentre in Germania è differente. Qui il primo movimento biologico e poi biodinamico, collegati alla Lebensreform, hanno subito affrontato l’aspetto distributivo. In Germania, già negli anni ’20, viene sviluppato un logo di garanzia sia del biologico che del biodinamico.
Negli Usa, quando alla fine degli anni ’60 il biologico inizia a diventare popolare, si era già sviluppato un sistema distributivo moderno come quello della GDO, con supermercati e centri distributivi.È in quel contesto che si cercò di costruire una vera alternativa a questo sistema distributivo. Si fanno le Food-coop con warehouse, una parolaccia. Cioè con una organizzazione distributiva. Poi certo fiorirono anche i mercatini, i ristorantini. Tutto faceva parte dell’alternativa, però c’era anche la parte organizzata. Poi certo non era un movimento omogeneo, c’era una parte hippieggiante, frikkettona e invece un’altra di matrice più legata alla New Left americana che voleva veramente costituire un’alternativa.
Però a un certo punto c’è anche la GDO che si interessa del biologico, tu lo sai bene. Come è stata vista qui da noi?
Quel periodo lì l’ho vissuto direttamente. Ho visto, per esempio. Mustiola orientarsi verso quel tipo di canale distributivo. Antonio Compagnoni, allora presidente della cooperativa Il Salto, mi ricordava poco tempo fa come allora Il Salto fece, appunto, il salto di canale, va in GD quasi si trattasse di rompere un pregiudizio. Io rimango dell’idea che la grande distribuzione non sia il canale distributivo migliore per il biologico. Conoscendo la GD so che non è una questione di buoni e cattivi. Il fatto è che la GD non è un canale neutrale nella distribuzione alimentare. Ha le sue logiche e le sue necessità. In un certo momento quando il bio dovevano averlo tutti e la base produttiva era quella costituita da Il Sentiero, Il Salto, Otto Marzo, e via dicendo, le realtà della GD si sono interfacciate alle realtà storiche del biologico. Il più organizzato di questi progetti è stato il Consortium di Esselunga.
Dopo poco si è visto però che questo rapporto è fallito per tanti di quei produttori perché la GD ha iniziato a fare produrre le stesse referenze biologiche da quelli che erano i suoi fornitori di prodotti a marchio che ad un certo punto hanno iniziato a fornire sia prodotti biologici che prodotti convenzionali. Questo è avvenuto perché la GD ha comunque certe logiche, certe regole, appunto anche di industrializzazione del commercio e di omogeneizzazione dei rapporti e anche di linguaggio e di logica, di modo che ad un certo momento questi contrasti sono venuti al pettine e quindi tanti del primo biologico, ti parlo del comparto produttivo e di trasformazione, che avevano visto la GD come un canale interessante per il proprio sviluppo, si sono poi invece trovati in difficoltà per investimenti fatti in vista di volumi che poi non ci sono stati. Sai la GD ti fa grandi ipotesi però poi i rischi te li devi beccare te. Quando poi il volume c’è e il prodotto è sicuro allora sviluppa il proprio marchio commerciale. Lo sviluppo del marchio commerciale della GD è stato una cosa che ha lasciato a piedi tanti operatori e trasformatori del biologico storico che cercavano di fare il bio per la GD con il loro marchio. La strategia della GD con i propri marchi commerciali nei prodotti biologici ha distrutto i loro piani.
Se pensiamo a certi personaggi vediamo che c’è un pregiudizio nettissimo, almeno di una parte della scienza, nei confronti del biologico. Ma non c’è anche un pregiudizio analogo rispetto alla tecno-scienza, almeno di una parte del biologico ?
Io credo che ci sia stata una grande confusione che genera pregiudizi in quanto sono in gioco visioni del mondo differenti. Intanto io non sono mai stato dell’idea di chi anche all’interno del biologico, come nel periodo dell’Expo 2015 a Milano, sosteneva che dobbiamo arrivare a un biologico post ideologico, dando l’idea che bisognasse rompere le barriere tra la visione del mondo che sta dietro il biologico e quella che sta dietro il convenzionale, per andare verso una visione più laica. Invece secondo me va ribadito che si tratta di due visioni del mondo differenti, e che è necessario un cambio di paradigma. Anche nella scienza se ne parla. Si tratta di passare da una visione meccanicistica, lineare, deterministica, utilitaristica, competitiva a una visione invece ecologica, complessa, attenta alle delle interrelazioni e alle cooperazioni. Effettivamente questi due paradigmi sono da almeno 50 anni in contrasto uno con l’altro. Cioè io non credo che certi scienziati siano in malafede ma che piuttosto abbiamo pregiudizi verso il biologico in quanto parte di un paradigma nuovo, che è quello dell’ecologia, un paradigma che non capiscono perché non rientra nella loro visione del mondo.
Oltre a questo contrasto di visioni c’è però anche un contrasto di interessi. In ogni caso ci sono proprio due matrici. Il biologico, a partire dagli anni ’50, è stato marginalizzato dalle istituzioni pubbliche di formazione, di ricerca, nella politica agrariae quindi il movimento bio a un certo punto si è dovuto sviluppare ai margini, acquisendo anche posizioni non propriamente scientifiche, come per esempio un certo pregiudizio nei confronti del miglioramento genetico.
Dal mio punto di vista, una cosa che dev’essere chiara ed è che un certo tipo di genetica sia vegetale che animale si porta dietro un certo tipo di agricoltura e di allevamento. È difficile fare latte-fieno con la frisona americana spinta a consumare 8 kg. di soia e mais al giorno. È difficile fare biologico con un ibrido di mais F1 che è stato selezionato per il diserbo e per lafertilizzazione chimica. Il biologico ha bisogno delle proprie sementi, della propria genetica. Però la ricerca è andata tutta verso l’agricoltura industriale. Allora chi faceva altro l’ha fatto ai margini e in maniera marginale. È chiaro che il problema della genetica è un problema rilevante che non tutti nel biologico hanno capito. Anche questa cosa delle sementi antiche che a volte viene fuori quasi come l’ideale del ritorno ad una integrità originaria è qualcosa che i genetisti o anche chi l’agricoltura la fa capisce subito la tua debolezza e con due esempi può distruggere immediatamente questo ideale. È per quello che è importante che nel biologico si sviluppi e si ritrovi la matrice scientifica, anche da un punto di vista strategico. Non possiamo dire che oggi non c’è bisogno di miglioramento genetico come se fosse un tabù e pensare di tornare alle sementi antichi, intese da molti come il grano Senatore Cappelli che è stato fatto da Nazareno Strampelli all’inizio del Novecento. Oggi nel biologico, c’è bisogno di cultura scientifica, di formazione, di ricerca. Occorre partire anche dalle scuole, dalle università. Questa cosa manca completamente e quindi c’è bisogno anche di un intervento istituzionale. Dall’altra parte chi magari si preoccupa dal basso della questione del miglioramento genetico per il biologico, incentivando per esempio lo scambio di sementi tra agricoltori, forse perché legato a una visione anarchica e antagonista, fa fatica a vedere una strategia istituzionale cosa che invece io penso sia fondamentale. Per questo è importante l’appello per salvare la stazione sperimentale di Modena e creare un centro di agroecologia. Perché nel CREA, il principale centro di ricerca in Italia non c’è nulla che riguardi l’agroecologia. Sembra anche questa una conferma che ci sono due visioni contrapposte proprio dal punto di vista epistemologico.
Però sembra che sia il podere con la sua multicoltura, gli animali e il letame quello che viene visto come il modello ideale. Quando poi se vai a vedere nelle realtà del biologico le cose vanno spesso assai diversamente. E anche le norme sul biologico hanno dovuto ammettere l’esistenza di aziende biologiche senza animali.
Il podere aveva la parte agricola e la parte animale. Coltivavo i grani alti perché così potevo coltivare il grano senza usare diserbanti e fertilizzanti di sintesi e avere tanta paglia che usavo nella stalla. Quest’aspetto lo troviamo a fondamento dell’agricoltura biologica italiana sia in Draghetti che in Garofalo.
Però una gran parte di quella generazione che negli anni ‘70 si interessa all’agricoltura biologica, magari venendo dalla città, poteva fare orticoltura con relativa facilità ma difficilmente, a meno che non sei come i matti del Sentiero, ti metti a fare zootecnia. O provieni da una famiglia di allevatori o è difficile, se non hai un’esperienza nella zootecnia, mettere in piedi una stalla.
Però vedo che ancora oggi nel biodinamico è un aspetto importante. Almeno delle vacche da cacca, come dicono loro, le devi avere in azienda. Questo è un punto importante. Se tu, come un ragazzo che ho incontrato alla scuola estiva di Fornara che è tornato a coltivare i grani alti, hai un sacco di paglia ma non hai gli animali, devi macinare la paglia per reintegrarla nel suolo. È tutto molto più facile se hai una stalla, fai la lettiera e hai il letame. Così riesci a intensificare la produzione in maniera molto più rilevante, perché se tu avvii dei processi di decomposizione organica nel campo coltivato questi processi ti rubano energia per la crescita delle piante. Già i cinesi avevano capito molto bene che con il compostaggio in luogo separato, come del resto è una concimaia, riesci a intensificare la produzione e non devi far riposare i terreni.
Si può anche lavorare in un’ottica di comprensorio, di sistema, di biodistretto: un’azienda coltiva i cereali e dà la paglia e foraggi a un’altra azienda che ha la stalla e che gli ritorna il letame.
Dopo il successo di mercato del bio, pur con tutti i sui limiti, la missione del bio storico quale diventa? Cosa vuol dire il bio 3.0 di cui parla Ifoam?
Il bio 3.0 è un biologico che non c’è ancora e quindi è una prospettiva di una nuova fase del movimento biologico che considera quello che c’è stato nel passato e le problematiche emergenti, come il cambiamento climatico. Secondo me il bio 3.0 deve andare oltre la riduzione del biologico ad una merce con un logo e un regolamento per una nicchia di mercato, per occuparsi anche dei problemi più generali, di ricerca e di formazione, attività che sono quasi completamente mancanti, e ovviamente di politica agricola.
Ma anche per quanto riguarda il mercato c’è ancora tanto da fare per riallacciare l’attività agricola ai territori. Il biologico ad un certo punto per sopravvivere in un mercato inizialmente molto limitato ha dovuto aprire necessariamente i propri orizzonti… Io per primo mi occupo prevalentemente di esportazione di formaggi italiani biologici. Senza il commercio estero il biologico italiano non sarebbe cresciuto come è cresciuto e soprattutto non si sarebbe strutturato, non è solo una questione di crescita. Certe filiere importanti si sono tenute in piedi così perché il mercato interno si è dimostrato a tratti molto fragile. Oggi però occorre lavorare anche allo sviluppo del commercio locale che deve diventare più solido. Faccio un esempio a me vicino.
Ieri ero in Lessinia dove ci sono 120 malghe. Solo in 3 malghe fanno produzione di formaggi e, anche i pochi formaggi prodotti, si vendono a fatica con sotto una città come Verona. Un gruppo di 15 allevatori della Lessinia conferisce il latte certificato biologico e latte e fieno, ad esempio, al caseificio Tonon che fa mozzarelle per le pizzerie di tutta Italia, e che vende anche in Francia, in Germania e in Giappone. In un’ottica di ecologia del territorio questa situazione, dove il latte della Lessinia viene trasformato a Treviso per produrre mozzarella destinata anche ai mercati esteri, potrebbe sembrare non ideale, ma senza lo sviluppo di una filiera come questa diversi agricoltori non si sarebbero convertiti al biologico e al latte e fieno e sarebbero rimasti in una condizione economica molto più fragile.
È chiaro comunque che nella prospettiva di biologico 3.0 occorre sviluppare il commercio locale. A questo riguardo, torna fuori regolarmente la questione del local procurement, In Lessinia, per restare su questo esempio, c’è tanto latte che si potrebbe utilizzare in parte anche per fornire le scuole e per gli ospedali della provincia di Verona. Questo tipo di prospettiva in alcuni periodi torna di moda e poi si spegne. Molto spesso questi canali commerciali hanno in mezzo delle realtà distributive, dei grossisti, che a loro volta hanno magari dei contratti capestro con le istituzioni pubbliche e quindi entrano in sistemi dove comunque, ad un certo punto, per due lire ti sbattono fuori. Anche lì c’è tanta fragilità mentre dovrebbe essere un canale che le istituzioni devono tutelare. Poi anche la distribuzione deve fare la sua parte. NaturaSì, ad esempio, che prima a Verona nei suoi negozi vendeva il latte fresco proveniente dalla Germania, ha lanciato un latte a proprio marchio proveniente da alcuni allevatori della Lessinia. È un esempio virtuoso di costruzione di una filiera più sostenibile che va nel senso del biologico 3.0
In termini generali c’è il fatto che, come ho scritto, il biologico 3.0 dovrebbe in qualche modo seguire e integrarsi nel movimento più generale dell’agroecologia che è andata oltre la disciplina scientifica per occuparsi del food system, cioè dell’intero sistema agroalimentare. Il biologico 2.0 è invece rimasto legato alla dimensione del prodotto certificato. Qui da noi si ragiona di queste cose meno che in Francia.
Delle volte mi chiedo se il maggior ostacolo a una trasformazione in senso agroecologico della produzione del cibo venga, più che dalle multinazionali dell’agro chimica che oggi propongono anche numerose soluzioni per il biologico, dalle principali organizzazioni di rappresentanza degli agricoltori che ostacolano qualsiasi cambiamento anche a livello europeo…...
Ci sono vari aspetti che si sommano. C’è un certo tipo di conservatorismo nella modifica delle proprie pratiche agricole come c’era stato nel passaggio tra agricoltura tradizionale e agricoltura industriale. Anche adesso gli agricoltori restano legati alle pratiche dell’agricoltura industriale e vedono negativamente qualsiasi limite legislativo. Credo che sia per questo che le principali organizzazioni di rappresentanza degli agricoltori stanno contrastando la strategia del Farm to fork, chiedendo la modifica ad esempio dell’obiettivo di riduzione dei fertilizzanti del 20%. Ma tenendo in considerazione che una delle cose più certe in agricoltura sono i rendimenti decrescenti, questa posizione appare debole. Un utilizzo del 20% in meno di fertilizzanti chimici in agricoltura industriale è del tutto logico perché quel 20% in più che utilizzo al margine corrisponde a molto meno in termini di aumento della produzione agricola e a molto di più in termini di perdita di nutrienti.
Probabilmente tecniche come quelle dell’agricoltura di precisione possono essere utili per preservare l’efficacia dei prodotti fitosanitari. Sono cose che da un punto di vista scientifico hanno assolutamente una base, anche se poi non so quanto sia giusto dire di ridurre il 20% piuttosto che il 50%, lì poi sono trattative politiche. Bisognerebbe fare delle sperimentazioni…
A mio parare, relativamente alle proposte dell’agroindustria per il convenzionale e soprattutto per il biologico, l’approccio corretto è quello che troviamo alle origini dell’agroecologia negli anni ’20 e ’30 . Se si rilegge l’articolo del 1928 dove Basil Bensin usa per primo il termine agroecologia si ritrova la visione di un servizio di sperimentazione pubblico volto a dare una valutazione, territorio per territorio, dei prodotti dall’agroindustria come fertilizzanti, macchinari e sementi propagandati come universali. Perché da una parte c’era l’agroindustria, potentissima nei suoi sistemi di propaganda e ultra concentrata, dall’altra c’era una realtà agricola molto frammentata composta da agricoltori poco preparati per capire l’utilità dei nuovi prodotti e delle nuove tecnologie nella propria realtà locale. Quindi i primi ragionamenti sull’agroecologia riguardavano questa sorta di verifica sperimentale nell’ottica di un servizio pubblico agli agricoltori che facesse da interfaccia tra loro e le proposte dell’agroindustria.
Le proposte dalle multinazionali dell’agro-chimica riguardo alle sementi bio o ai fertilizzanti organici colgono delle reali necessità dei produttori biologici, ma sovente sono all’interno di una visione strettamente affaristica dei bisogni degli agricoltori, dalla quale può originarsi il greenwashing.
Ho però l’impressione che gli orientamenti un po’ in tutti i paesi occidentali siano diversi. Il Pubblico si è progressivamente levato dalla prospettiva di un servizio agli agricoltori, lasciando libero il campo all’agroindustria. Oggi il Pubblico, nella visione di molti, deve fare addirittura da stimolo, da volano all’adozione di quelle che sono le nuove proposte dell’agroindustria. È il caso ad esempio degli incentivi per l’agricoltura 4.0, che oggi porta anche il piccolo agricoltore di montagna a aver finanziato il trattore solo se ha un computer connesso a un sistema di ricezione dei dati controllato da piattaforme in ultima analisi in mano all’agroindustria. Quindi non solo il Pubblico si toglie dalle questioni di valutazione delle proposte dell’agroindustria ma addirittura se interviene lo fa solo per velocizzare la diffusione di quelle proposte: questo è un problema. Secondo me proprio nell’agricoltura biologica c’è bisogno di una ricerca e di un’assistenza da parte di un servizio pubblico, se vogliamo che l’agricoltura si sviluppi veramente verso linee che siano coerenti con i principi dell’agroecologia e non con gli interessi delle multinazionali del settore.
Però, lo ribadisco, mi pare che le cose vadano in una direzione diversa.
Nel tuo libro dici che a un certo punto il biologico è diventato una merce come le altre. Tuttavia il cibo, ancor più se biologico, è molto più regolamentato di tante altre merci tanto che c’è chi se ne lamenta.
Sì è vero il cibo è la merce più regolamentata, giustamente, in quanto il cibo ha effetto immediato sulla salute dei consumatori. Gli agricoltori fanno bene a lamentarsi della burocrazia, ma io non sono d’accordo con quanti, all’interno dei movimenti del cibo, arrivano addirittura a criticare strumenti fondamentali come l’autocontrollo. Sono stato a un convegno dove qualcuno diceva: “sapete che il sistema del HCCP è stato sviluppato per la missione Apollo per andare sulla luna?”. Questo per me non vuol dire che quella metodologia di analisi non sia valida. Una metodologia tra l’altro basata sulla responsabilizzazione dell’operatore che deve semplicemente analizzare il suo flusso produttivo, individuare i punti critici e dire come li controlla per poi scrivere quello che fa. Non capisco, ad esempio, come anche un produttore che sta in malga a fare il formaggio non possa fare questo. Oppure come possa lamentarsi di non potere usare gli zoccoli di legno e di doversi mettere degli stivali adatti a essere igienizzati.
Non trovi che sia diffuso un atteggiamento antimercatista, che rifiuta la merce e il mercato a prescindere?
Sono anni che dico che tutta questa strategia che considera negativamente l’attività legata alla distribuzione delle merci e quindi la vuole eliminare è debole. Si creano Gruppi di Acquistoper togliere di mezzo il commerciante, e non pagare le attività che costituiscono la base del suo mestiere: la ricezione del collo, la sua frammentazione e la cassa. Queste attività se remunerate vengono viste come delle attività speculative a prescindere dal fatto se sei un piccolo commerciante indipendente che crede veramente nel biologico o la Esselunga o Whole Foods. Questo atteggiamento antimercatista secondo me è stato deleterio perché ha frenato lo sviluppo di modelli di distribuzione alternativi che tra l’altro avrebbero potuto dare lavoro e reddito a qualcuno, che per me non è una cosa negativa. Io ho sempre pensato che il commercio, il mercato, può essere cambiato ma non eliminato.
Ho molto apprezzato il modo in cui nel libro parli delle NGT o TEA che dir si voglia. Ma sei sicuro che sia una battaglia così importante o non convenga piuttosto mettere in discussione la brevettazione del vivente e occuparsi del miglioramento genetico?
La questione del biologico e degli OGM vecchi e nuovi è una questione fondamentale e molto complessa perché ci sono degli aspetti scientifico-tecnologici e degli aspetti economico-politici. Come diceva Wallace che era stato il ministro dell’agricoltura di Roosevelt, nonché fondatore della Pioneer Hi Bred, la prima ditta sementiera americana che fece successo con gli ibridi di mais: “La comprensione scientifica è la nostra gioia. La comprensione economica e politica è il nostro dovere”. Che questi nuovi OGM siano equiparabili a quelli vecchi da un punto di vista giuridico l’ha ribadito la Corte di Giustizia Europea. Ma anche la stessa senatrice Cattaneo, nella sua onestà intellettuale, quando il ministro Martina sostenne all’Expo di Milano che queste nuove biotecnologie non erano OGM, lo smentì confermando che in pratica lo sono. Le questioni scientifiche e tecnologiche non sono poi così semplici e uno degli aspetti più negativi di quella che io vedo come una propaganda su queste nuove biotecnologie è che le presentano in modo estremamente semplice: prendo un gene di là e lo metto di qua e ottengo questo. Poi quando vai a capire bene, le cose in natura non sono mai così semplici. Queste nuove biotecnologie, per esempio, si portano dietro come i vecchi OGM delle “parafernalia”, come direbbe Howard, come l’uso del bacterium tumefaciens o dei marcatori antibiotici e nuovi problemi come quello del mosaicismo, quando un organismo presenta cellule con DNA modificato in un modo e cellule con DNA modificato in un altro modo….
Comunque il fatto che tra tutti i vecchi OGM, che dovevano all’inizio salvare il mondo da chissà quali problemi, poi alla fine la pianta più diffusa è la soia Roundup Ready con il gene di resistenza all’erbicida più venduto al mondo, già ti fa capire le priorità di chi oggi controlla il mercato di queste biotecnologie, tecnologie che sono diventate un business dopo che la Corte Suprema americana dichiarò anche le forme viventi brevettabili. Adesso c’è anche una nuova narrativa che dice: guardate che questi nuovi OGM li dobbiamo fare con la ricerca pubblica perché altrimenti sarà tutto in mano alle multinazionali. Queste sono storielle, è già tutto in mano alle multinazionali. Credo infatti che il CREA, per usare queste tecnologie, abbia dovuto fare un accordo con Corteva, che so che detiene la maggior parte dei diritti e del know-how sulle applicazioni in agricoltura di queste biotecnologie. Inoltre, per come è stato riformato il CREA, sul modello di uno spin-off, la ricerca pubblica in Italia è oggi orientata più verso la creazione e vendita di brevetti basati su queste tecnologie piuttosto che su un vero servizio agli agricoltori. Va tenuto inoltre presente che la narrativa dominante a favore delle TEA non afferma che queste nuove biotecnologie sono meglio dei classici metodi di selezione e incrocio, ma che sono solamente più veloci. A mio parere è più coerente con i principi del biologico la selezione e incrocio, anche se nel biologico c’è chi vede l’ibridazione come una roba terribile, ma questo è un problema interno. Il punto è che con la selezione e incrocio si possono creare delle vere novità che è cosa differente dall’introdurre nella mela Golden il gene di resistenza alla ticchiolatura che trovo in una mela antica. Le TEA si basano sulla narrazione, già espressa da Martina, che solo con queste nuove biotecnologie salveremo le tipicità italiane. In realtà anche nella Val di Non producono in larghissima parte le tre quattro o cinque varietà di mela comela Red delicious e la Golden coltivate in tutto il mondo. Il problema è proprio che queste poche varietà di mela sono coltivate ovunque ed è quindi naturale che prima o poi esse manifestino delle vulnerabilità. Il problema è che, come dicono i genetisti, non solo Ceccarelli ma anche Testolin dell’università di Udine, prendendo un gene di resistenza da una mela antica per inserirlo in uno delle poche varietà coltivate si crea una barriera solo temporanea ai vari organismi parassiti o patogeni che prima o poi riusciranno a superare quel genere di resistenza. L’obiettivo del miglioramento genetico dovrebbe essere quello di creare una vera varietà genetica e questo lo puoi fare con l’incrocio e la selezione, attingendo ad una banca del germoplasma. Una banca che preservi e dia libero accesso non a una biodiversità preveniente da una natura ancestrale incontaminata, ma alla biodiversità che gli agricoltori hanno creato nel corso dei secoli. È questa che rischia di perdersi, e già si è persa in parte, con la diffusione delle poche varietà commerciali coltivate. Un problema che sulle piante è rilevantissimo ma che posso in qualche modo gestire con la banca del germoplasma. Con gli animali invece è molto più difficile e tantissimo si è perso in modo irreversibile nella genetica animale.
Le problematiche sono tante, comunque io credo che il biologico debba mantenere un atteggiamento estremamente critico nei confronti delle nuove biotecnologie perché comunque ci sono altre vie al miglioramento genetico più coerenti con la sua storia e con i suoi principi. Venendo all’attualità, Coldiretti da sempre ostile ai vecchi OGM oggi è favorevole alle TEA. Luigi D’Eramo che è sottosegretario all’agricoltura con delega al biologico dice che TEA e biologico non sono in contraddizione. E quindi è pericoloso perché su questa cosa oggi qui in Italia ci si gioca tanto. Siamo il paese che più di tutti ha orientato la sua ricerca proprio su queste TEA. Proprio nel periodo di Expo 2015, si è voluto strategicamente orientare la ricerca pubblica sulle nuove biotecnologie pensando, e questa era anche la convinzione di Martina, che queste andassero bene anche per il biologico. Il problema è che il movimento internazionale del biologico, nonostante alcune eccezioni, ha già detto che queste NGT, NBT o TEA, comunque le si voglia chiamare, non sono coerenti con i principi del biologico. Quindi, se vogliamo parlare anche solo di interesse nazionale, le TEA non sono nell’interesse dell’Italia che è arrivata ad avere il 18-19 % di SAU a biologico.
Si dice che vi sia una convergenza tra biologico e convenzionale dal punto di vista dei prezzi ma forse anche da quello delle tecniche agronomiche. Tu cosa ne pensi?
Intanto penso che per certi versi è il convenzionale che è dovuto andare necessariamente verso tecniche come la minima lavorazione, le cover crops, le rotazioni ed altre tecniche da sempre promosse in agricoltura biologica. Questo perché l’agricoltura industriale ha raggiunto i suoi limiti. Dopo che hai lavorato per anni il terreno in profondità, trattandolo con erbicidi, pesticidi e fertilizzanti di sintesi, distruggendo quasi completamente la sostanza organica, magari mettendo a nudo la struttura del terreno, cosa puoi fare? Uno dei problemi che è emerso in maniera più drammatica è infatti quello della diminuzione della materia organica del suolo e della perdita di fertilità, perché comunque tu puoi fare tutta l’agricoltura industriale che vuoi con un sacco di fertilizzanti chimici di sintesi, ma se alla fine non hai più i batteri che ti trasformano l’azoto in forma solubile assimilabile dalle piante, non produci più niente. C’è quindi un tipo di convergenza positiva, questa per certi versi necessaria dell’agricoltura industriale verso le buone pratiche dell’agricoltura tradizionale e biologica, di cui poco si parla.
Però, lo ripeto, se la convergenza vuol dire l’adozione anche nel biologico delle creature dell’agricoltura industriale ottenute con le nuove biotecnologie io, come altri, non sono d’accordo.
Riguardo all’uso dei macchinari non saprei dire perché anche questi si tirano dietro certi tipi di sementi, di trattamenti, di tecniche agricole. Occorre anche in questo caso sviluppare soluzioni pensate specificatamente per il biologico.
Nuove tecnologie legate alla robotica o all’agricoltura di precisione potrebbero essere di interesse anche per il biologico. La cosa più importante a mio parere rimane la visione dell’agricoltura: senza una visione ecologica non ci può essere una vera agricoltura biologica.
Mi sono sempre chiesto cosa esattamente si intenda per convenzionalizzazione del biologico. Adesso mi dicono che sul mercato trovi anche per il biologico gli equivalenti di tutti i mezzi tecnici impiegati nel convenzionale. Ma è una ricetta che può funzionare?
Quello è il biologico di sostituzione, cioè sostituisci input esterni non certificati con input esterni certificati. Il problema va visto in modo più generale e lì ci viene in aiuto Alfonso Draghetti che distingue quella che lui chiama la concezione biologica dell’azienda agraria da quella che chiama la concezione economica. La concezione economica è quella che riduce l’azienda agricola a delle parti da ottimizzare in maniera singola e separata, senza vedere le interconnessioni che ci sono all’interno dell’azienda agricola. Nella concezione biologica queste interconnessioni sono invece la cosa più interessante perché è proprio la loro gestione che permette la produzione di input all’interno dell’azienda agricola.
Per fare un esempio, l’agricoltura biologica riguardo al problema della fertilizzazione vorrebbe che l’agricoltore, come diceva Albert Howard, diventasse un chemical manufacturer, cioè diventasse lui stesso un produttore di concimi.
La certificazione ha permesso questo biologico basato sulla sostituzione di input non certificati con input certificati che in realtà è un po’ travisare lo spirito biologico. Credo che il biologico di sostituzione sia diffuso perché alla fine la concezione dominante è ancora che vede semplicisticamente l’azienda agricola come una fabbrica che trasforma degli input acquistati sul mercato in output da vendere sul mercato. E’ per questo che è importante rileggere i pionieri del biologico come Howard e Draghetti. Certo essere autonomi, prodursi il concime in biologico non è semplice. Ci sono diversi sistemi che vanno dalla coltivazione delle foraggere, al sovescio, all’utilizzo del letame, al compostaggio, tante tecniche senza le quali non produci molto. Acquistare fertilizzanti certificati è però molto più semplice…
E della convergenza economica, dei prezzi, cosa mi dici?
Intanto la convergenza economicadi questi anni ha dimostrato la debolezza e la maggiore suscettibilità alla crisi esterne dell’agricoltura convenzionale, come pure di quel biologico di sostituzione di cui abbiamo parlato. Nel momento in cui sono esplose queste crisi i prezzi di tutti gli input esterni sono aumentati in modo impressionante. Il costo dei fertilizzanti, del mais, della soia, degli altri foraggi è esploso ed è stato soprattutto il convenzionale a dover per primo e per necessità aumentare i prezzi. Per quanto riguarda il biologico, ci siamo trovati a un certo punto obbligati ad aumentare i prezzi non solo per fare fronte all’aumento dei costi ma anche per mantenere un margine di differenza con il convenzionale. Cioè se il latte convenzionale che prima era a 32 centesimi mentre il biologico a 51, va a 50c. tu non puoi mantenere il biologico a 51 ma deve necessariamente andare a 60-65c, altrimenti chi è certificato in biologico non ha più vantaggi per esserlo. Gli allevatori di montagna produttori di latte-fieno biologico, considerati per anni come gente che non sapeva produrre il latte, che non conosceva le regole della sua produzione, hanno vissuto la crisi più serenamente perché i loro costi non sono aumentarti in maniera così spropositata. In molti casi si è potuto così ridurre quel gap che c’era tra biologico e convenzionale. In Francia, dove il prezzo del latte convenzionale ha raggiunto quello del biologico, molti produttori certificati biologici sono tornanti al convenzionale. Lì del resto ci si è trovati con delle quantità di latte biologico di molto superiori ai consumi. Questo a causa di scelte produttive che erano state fatte negli anni 2018-19-20 in cui sembrò che si stesse andando verso un biologico di massa. Poi però c’è stata la crisi seguita al Covid e soprattutto alla guerra in Ucraina. Come dice giustamente Fabio Caporali, la guerra è la fine delle buone intenzioni. Con la guerra i consumatori sono tornati a dei comportamenti conservativi, per insicurezza, perché tutto è aumentato. Così in molti hanno abbandonato il biologico, come hanno abbandonato lo sfuso, un settore che, a differenza del biologico, era già uscito devastato dall’emergenza del Covid.
L’avvicinamento dei prezzi non dovrebbe essere un fatto positivo che porta un maggior numero di persone verso il bio?
Certo è un fatto positivo, però la domanda di biologico è diminuita nonostante che il gap di prezzi con il convenzionale si sia ridotto. Il biologico che era andato in controtendenza durante la crisi del 2012-13, continuando la sua crescita, in questo caso si è affossato pure lui e non è solo un fenomeno italiano. È un fenomeno internazionale che tocca dagli USA a Francia e Germania.
Gli unici dati certi che abbiamo sono quelli del biologico confezionato venduto nei supermercati. Mostrano un evidente calo dei consumi e la GDO sta tagliando gli assortimenti di biologico. Il biologico ha un costo maggiore, pesa più nel carrello e quindi le catene tengono le referenze alto vendenti ed eliminano gli “slow movers”. Ma questo non rappresenta il quadro complessivo, sia a livello di vendite sia soprattutto a livello di produzione. Sono veramente incerti i dati del prodotto fresco e sfuso venduto nello specializzato o del biologico venduto nei mercati, negli spacci o tramite i GAS ma il sentiment è in generale molto negativo. In Italia, in Francia e in Germania diversi negozi bio hanno dovuto chiudere i battenti, ci sono pochissime aperture e il numero complessivo dei punti di vendita specializzato è diminuito. È chiaramente in atto una crisi del biologico, forse la prima così profonda nella sua storia. Non mancano comunque i segnali positivi…. Non si può certo dire che il biologico è morto, come credono o meglio sperano alcuni. Mi auguro quindi che si esca al più presto da questa situazione molto grave che impedisce ai produttori e ai negozianti di guardare al futuro in modo positivo e costruttivo.
Ha ragione Fabio Caporali quando afferma che senza pace non ci può essere agroecologia.
Acquistato, letto.: ben fatto, documentato e stimolante.
Se non ve lo regala qualcun altro, regalatavelo per natale.
Dichiaro di non trovarmi in situazioni di conflitto di interessi di qualsiasi natura, anche potenziale, e di non avere direttamente o indirettamente un interesse finanziario, economico o altro interesse personale nel successo del libro…
Intervista chiara e con ottime analisi..
Forse avrei calcato di più anche su altri vantaggi del bio come il clima (confinamento biomasse), la tutela della salute, la prospettiva dell’esaurimento dei fossili, etc.
Gianluigi Salvador
Ottima intervista, bravi Giuseppe e Alberto