Fare vino naturale al tempo del climate change
Per la nostra viticoltura questo è stato un anno particolarmente difficile.
La perdita di produzione ha riguardato molte regioni italiane e ha interessato sia la viticoltura convenzionale che quelle biologica e naturale. E’ bastato un post di Corrado Dottori, il ben noto vignaiolo naturale, per scatenare un acceso dibattito sulla capacità della viticoltura biologica/naturale a far fronte a malattie della vigna così virulente come è stata la peronospora quest’anno. Così una rivista online seria come Dissapore si chiede se la viticoltura naturale sia in grado di affrontare le avversità climatiche. Mentre la newsletter di Slowine titola un suo articolato ragionamento: Il bio è finito? Soluzioni per non distruggere un sogno. Per non parlare di chi coglie l’occasione per attaccare l’agricoltura biologica e perorare la causa delle nuove biotecnologie. In questo quadro ci è sembrato importante andare sul campo per intervistare Alessandro Poretti che il vino naturale lo fa da tempo e ha pure una consolidata esperienza nel biologico, avendo alle spalle la lunga esperienza della cooperativa in cui opera.
Alessandro Poretti è il responsabile del settore vino della cooperativa Valli Unite,
una delle cooperative storiche che hanno dato vita al movimento del biologico nel nostro paese. Nei 40 anni e passa dalla sua fondazione la cooperativa è diventate una punto di riferimento e un modello concreto per tutti coloro che si propongono di rifondare l’agricoltura in senso agroecologico.
Nel suo lungo percorso Valli Unite ha saputo evolversi, conservando lo spirito originario del biologico, per sperimentare nuove vie e riaffermare il proprio impegno per un mondo migliore. Oggi la cooperativa, giunta alla seconda generazione, è costituita da un nucleo di 30 persone che vivono di agricoltura coltivando un centinaio di ettari da cui si ricavano vini, carni, salumi, cereali e farine, miele, ortaggi. E’ a tutti gli effetti un’azienda contadina multifunzionale e moderna, dove i saperi tradizionali si mescolano con le tecniche innovative più appropriate.
Bisogna avere il coraggio di vedere in una maniera diversa la viticoltura
Conversazione con Alesandro Poretti* – Ottobre 2023
Secondo alcuni i danni provocati quest’anno dalle malattie della vigna , attesterebbero la grande difficoltà di fare vino naturale al tempo del cambiamento climatico, come anche Corrado Dottori ha denunciato.
E’ una calamità quest’anno. C’è gente che fa il chimico, il sistemico da anni e ha perso il 90% della produzione.
Come sai benissimo il vino è un prodotto che arriva dall’agricoltura ma ha un alto valore aggiunto economico rispetto agli altri prodotti agricoli per cui attira molte persone che si avvicinano a questo mondo perché è bello avere l’etichetta col proprio nome, la propria faccia, come hanno fatto anche personaggi famosi. E poi il vino è un prodotto molto particolare che tira è di moda, ha un valore aggiunto molto alto per cui è un’economia molto interessante. Al mondo del vino si avvicinano anche persone che non sono agricoltori, non sono contadini, che fanno quel lavoro grazie a una sfilza di consulenti più o meno capaci. Il più delle volte l’intenzione non è fare il contadino, l’agricoltore ma fare soldi, fare business.
Partiamo da questa cosa che di frequente le vigne vengono piantate in maniera non corretta rispetto a quello che è la geografia, la geologia del luogo e spesso, quando ci sono dei problemi, si interviene a livello chimico per salvare la situazione.
Succede che, nei momenti difficili, nelle avversità climatiche e negli attacchi biologici da parte degli insetti o delle nuove malattie la soluzione è andare da un agronomo, un consulente che ti aiuta. Spesso la soluzione è la chimica, e quindi crei ancora più danni.
Quando arrivano queste avversità tu le risolvi se sei molto bravo e hai avuto delle idee lungimiranti. E poi devi avere anche molta esperienza. Per cui è chiaro che nel momento in cui tu fai il vino naturale, fai agricoltura naturale, non devi andare allo sbaraglio, ci vuole preparazione,attenzione ed esperienza. E’ da anni che noi parliamo di togliere il rame dalla vigna, perché dici, siamo agricoltori naturali in cantina non usiamo i lieviti, non usiamo le filtrazioni, usiamo meno solforosa possibile, non usiamo nutrienti, però in campagna usiamo sempre zolfo e rame. Perché? Perchè non siamo capaci di farne a meno. Poi ci sono gli estremisti, come un nostro amico che non trattava con il rame, poi negli ultimi anni andavi a vedere le sue vigne e dicevi: questo qua è forse meglio se lascia stare di fare il vignaiolo.
Quelli sono estremismi. Non è possibile fare un’agricoltura totalmente esente da interventi chimici se non fai l’agricoltura nel posto giusto, con la varietà giusta, come avevo detto ai tempi come presidente Aiab Piemonte. Per dire, adesso con questa siccità, noi non potremo fare degli ortaggi qui a Valli Unite. Invece cosa facciamo? Bagniamo, ma così si creano malattie perché stai comunque alterando l’ecosistema, se c’è acqua solo li arrivano tutte le altre microflore e faune. Quindi sono scelte. L’agricoltura naturale comporta che se tu non vuoi usare il rame, non vuoi usare lo zolfo, la tua produzione potrebbe passare da 100 quintali per ettaro a 7-8 quintali. E come sopravvivi? L’idea del vino naturale, dell’agricoltura naturale è fare il minor danno possibile all’ecosistema. Quindi intervenire in una maniera il più possibile coordinata con l’ecosistema. Quel che si cerca di fare è: non lavorare il terreno, non cercare un’alta produzione, non utilizzare sostanze di sintesi. Per il momento, in Piemonte, siamo arrivati a utilizzare solo zolfo e rame che è la minimizzazione delle cose. In altri posti, come lo era la Toscana prima di quest’anno, potevi anche non usare il rame, tanto non pioveva. Questa volta è piovuto e sono rimasti fregati tutti.
Per cui qual è la soluzione che cerca sempre l’uomo? Nel momento in cui non riesci più a fare quello che la natura non ti permette intervieni con la chimica o, addirittura, con la genetica. Per cui hai i vitigni resistenti PIWI [ PIWI è un acronimo che viene dal tedesco pilzwiderstandfähig che significa “viti resistenti ai funghi” – Si tratta di vitigni ottenuti per ibridazione ], gli NBT [ New Breeding Tchniques. Chiamate qui da noi anche Tecniche di Evoluzione Assistita, cioè tecniche di ingegneria genetica ], queste robe qua, invece di usare dei cloni come normalmente avviene. Adesso la viticoltura è tutta basata sui cloni non ci sono più le viti da seme e questo porta a un indebolimento del vitigno, ma questo è un altro discorso.
Le vigne PIWI in questo momento non è ammesso piantarle. Lo puoi fare solo in alcune zone e in quantità limitata, se non sbaglio, e hanno nomi come Solaris, Souvigner, diversi da quelli dei vitigni tradizionali.
Ma allora sono le Doc che non vogliono usarle per non cambiare il nome del vino…
Sì ma questo è sempre un problema di mercato. Devi decidere se vuoi parlare di vino mercato o di agricoltura consapevole. Sono due cose differenti. Se tu parli di mercato del vino parli di Doc, Docg che ormai sono diventate solo un apprezzamento per il mercato. Non c’è più un discorso agroecologico. Una volta quando producevi 400 q.li ad ettaro, potevi creare la Doc dove invece ne fai 100, cioè fai un vino più pregiato, interessante. Abbiamo capito che sono tutte cazzate perché uno continua a fare 400 q.li finchè non ti vengono a controllare in casa. Però quello lì è un altro problema.
Dicevi che se segui la natura produci molto di meno.
Sì. produci molto di meno e dev’essere una zona vocata, quindi devi piantare dove serve, dove si può e quindi senza forzature. Così arriveremo ad avere un’agroecologia completamente esente da fitosanitari. Però devi avere tre caratteristiche. La prima è che il posto dev’essere adatto. La seconda è che il clima dev’essere costante e la terza è che chi lo fa dev’essere capace. Se tu hai queste tre cose puoi fare vino naturale.
Una di queste tre è già sicuramente impossibile con quel che sta avvenendo al clima!
Il problema è che, mentre l’agricoltura con colture annuali la puoi cambiare perché ti puoi spostare, l’agricoltura stanziale come la vite ha bisogno di almeno 10 anni per avere un prodotto. Proprio per questo hai bisogno di una terza parte che è quella della capacità agronomica dell’uomo di riuscire ad adattare la pianta al clima. Però se già hai un posto giusto e vocato, quindi dove il terreno è adatto ad accogliere quella coltura le tecniche agronomiche ormai ci sono. Ultimamente sto parlando con un agronomo per riuscire a fare delle vigne che siano in armonia col territorio, che vuol dire che non parli più di 1-2-3 ettari di vigna tutta uguale, a filari, economica, facile da lavorare, ma una dove ci sono le siepi, gli alberi, i laghi, tutta una serie di cose in cui la pianta è in armonia col luogo e quindi hai una serie di insetti, di animali,…..
Vuoi tornare alle viti maritate?
Probabilmente è, come dice Ottavio [Ottavio Rube, uno dei tre fondatori di Valli Unite ] ritornare agli anni ‘60. Ma non perché negli anni ‘60 si lavorava meglio, ma perché allora non c’era questa voglia di produrre, di fare sempre di più, di minimizzare i costi e quindi di industrializzare. Il vino naturale,l’agricoltura biologica, non è un concetto agronomico. E’ un concetto sociale e politico. Cioè tu fai agricoltura biologica perché hai tutto un insieme di caratteristiche che ti permettono di avere un ecosistema. Hai diverse produzioni, hai l’allevamento, proprio quello che vogliamo fare noi. Poi se sei bravo ce la fai. Se non sei bravo diminuisci l’allevamento e le altre cose e aumenti il vino perché è quello che ti da più soldi. E’ la soluzione più facile.
Ma stiamo parlando di agricoltura ecologica. Cosa è successo a Dottori? Dottori in quell’annata lì non poteva fare niente. Il discorso che fa lui è tutto un mea culpa che va oltre l’essere un contadino. Lui dice: io come viticoltore naturale e consapevole piuttosto che salvare la produzione ho tenuto fede al mio modo di lavorare e quindi ho perso la produzione. Va bene, lo ha detto anche Marino Colleoni ( Podere Sante Marie – Montalcino) che dice: quest’anno non potevamo fare niente, la vite l’ho persa però il terreno è pieno d’acqua, tutto l’ecosistema ne ha giovato. E chi se ne frega, quest’anno ci ho perso io.
Ma voi siete in 30, come fate se non producete?
Devi fare autoconsumo. Quindi non devi basare la tua vita sul guadagno e quindi sull’investimento del capitale ma devi farlo sull’autosufficienza, sull’autogestione e sull’autoproduzione. E’ chiaro che è un’utopia. Come il vino naturale è un’utopia. Il vino naturale è un obiettivo come l’agricoltura biologica. Sono tutti obiettivi che vuoi raggiungere incidendo il meno possibile sull’ecosistema. Ma è impossibile
non ce la fai perché non campi. Quindi si trova una soluzione. C’è chi è più bravo, è nel posto più adatto, che riesce a usare meno chimica possibile, ed è una fortuna. Poi magari, se invece non sei capace di fare il vino, hai delle belle vigne, è un bel posto, hai poca chimica ma fai vino di merda. Sono tre caratteristiche che fanno una persona speciale che fanno un contadino perfetto ma è difficilissima questa cosa.
Mi pare di capire che tu sei favorevole ai PIWI e non agli NBT?
Agli NBT assolutamente no per tre motivi. Il primo perché, come per gli OGM, è una forzatura genetica innaturale e quindi sono per principio contrario. La seconda cosa è che crea dei finti agricoltori. La terza perché potresti fare delle varietà autoctone o delle Doc resistenti. Perchè nel momento in cui hai una pianta resistente a tutto, chiunque può piantare e trattare perché comunque tanto non devi sapere di meteorologia, non devi sapere di agronomia, non devi conoscere il terreno, pianti dove cavolo vuoi e poi con l’enologia fai comunque un vino buono. Invece i PIWI sono una via di mezzo. E’ comunque una accelerazione, ti permette di lavorare di meno, però non è un intervento genetico, è un incrocio. Non vogliamo essere per forza conservatori al 100%. Però si tratta di fare per la vite quello che fa Salvatore Ceccarelli che semina o fa degli incroci per avere delle varietà resistenti nel posto dove vuoi seminare. E in ogni caso se tu non fai la clonazione ma fai l’incrocio ottieni sempre dei rinforzi per quanto riguarda le malattie. E’ chiaro che vai a perdere il patrimonio genetico che hai ottenuto di un vino che ti piace, che ha delle caratteristiche interessanti. Perchè in questo modo magari da un vitigno a bacca rossa magari ne nasce una bianca. Perchè la vite ha reagito all’incrocio producendo qualcosa di diverso che sicuramente darà un vino diverso. Quello è il problema che hanno sempre generato gli incroci. Però non ti deve interessare il discorso del vino perché probabilmente avrai dei vini un po’ diversi da quelli del ceppo originario. Poi magari studieranno degli incroci che avranno anche dei risultati enologici interessanti.
Passiamo dalla teoria alla pratica, nel 2018 su Vino e Storia , ricostruivi un po’ gli eventi climatici che dal 2011 c’erano stati qui da voi e parlavi della vostra linea non interventista in campagna e in cantina. Puoi aggiornare e approfondire quel discorso?
Ti posso dire quel che è successo qui da quando sono arrivato nel 2004. a fare lo stagista a Valli Unite, inconsapevole e ignorante perché sono laureato in tecnologia alimentare. Non sono un agronomo un sacco di cose le ho imparate poi sul campo e affrontando le varie problematiche anno per anno. Quello che ho trovato già allora era una agricoltura assolutamente poco interventista. Nel 2004 si utilizzava zolfo e rame, si lavorava il terreno e si utilizzava già il sovescio. Invece in cantina si usavano pochi lieviti ma comunque solfiti, chiarifichi, e tant’altro. Poi negli anni con l’obiettivo di riuscire ad avere un’uva e di conseguenza un vino il più possibile naturale abbiamo studiato come minimizzare gli interventi e come togliere le sostanze chimiche. Questo era il progetto iniziale, però partivamo da una base dove i vini erano già molto buoni e bisognava solo toccare alcune cose. Come è inevitabile quando fai le sperimentazioni il primo periodo non è che va bene. Arrivando io da una cultura scientifica non è che ho fatto tutto in una volta ma ho fatto degli esperimenti. L’intervento più facile era in cantina per cui ho iniziato a togliere i lieviti, le filtrazioni, le chiarifiche e le aggiunte di prodotti chimici e nello stesso tempo cercare di capire come fare a modificare gli interventi che per noi erano aggressivi per la vigna. La prima cosa in vigna era di diminuire gli interventi. Non cambiare le sostanze ma diminuirle cercando di monitorare il più possibile la vigna per capire qual era il momento migliore per intervenire evitando di fare gli interventi a calendario. Quindi non tratti ogni 15 giorni ma quando effettivamente c’è un rischio biologico, quando in base alle temperature esterne e alla piovosità sai che le malattie più grosse come l’oidio e la peronospora potrebbero esplodere. In quella maniera diminuisci il numero dei trattamenti e quindi i costi e i danni che fai all’ecosistema perché comunque lo zolfo e il rame non è che sono selettivi, uccidono tutto, fanno tabula rasa. Quindi migliorare da quel punto di vista. Inserendo delle capannine metereologiche collegate con un programma di monitoraggio della crescita dei funghi patogeni, abbiamo diminuito di molto gli interventi. Abbiamo iniziato tutta una storia con agronomi esperti in agricoltura naturale e quindi abbiamo un po’ approfondito quali erano le tecniche agronomiche convenzionali, biologiche e biodinamiche per affrontare i vari problemi. E quindi è partita tutta una fase di sperimentazione. Qual è stato il grosso problema?
Il grosso problema è stato che il clima cambia. Per cui se tu hai un clima costante riesci a fare uno studio abbastanza lineare. Nel momento in cui il clima inizia a cambiare ti devi adattare. La dead line grossa è il 2011 quando c’è stata la prima annata molto calda. Era la prima avvisaglia ma gli anni peggiori sono stati dal 2014 al 17 perché in quelle annate lì, anno dopo anno sono successe delle cose molto forti. Quindi siccità, alta piovosità, freddo tardivo, gelate, aridità, tempeste in periodi nei quali non era mai successo. Di conseguenza, non tanto la pianta quanto noi siamo rimasti un po’ sorpresi e incapaci di reagire. Non è che tu fai un intervento immediato. L’agricoltura è basata su dei piccoli interventi nel tempo che fanno sì che la pianta stia bene. L’obiettivo principe è il terreno. Se il terreno sta bene, è in forma, la pianta non può che stare bene perché ha un’autodifesa naturale. Quindi se la pianta ha le sostanze nutritive giuste, ha un microclima giusto, ha una microflora giusta difficilmente si ammala. E’ un po’ il discorso dell’essere umano. Comunque stiamo parlando, come dicevo prima, di piante già malate perché partono da una riproduzione clonale che fa sì che le malattie siano intrinseche, quindi la flavescenza dorata spesso è già dentro nella pianta. Non è colpa di dove la pianti. Per cui è una cosa molto difficile. Quindi abbiamo iniziato questo progetto molto più lento di cambiamento del trattamento agronomico delle piante e delle terre. La cosa più facile in cantina l’ho fatta da subito. Perchè in cantina essendo un prodotto chimico fai degli esperimenti come vuoi tu.
Tanto gli esperimenti si basano su temperatura, acidità e alcol. Il vino è un prodotto chimico che è facilmente soggetto a degli esperimenti. Per cui ho cercato di capire in base a queste variabili qual era il metodo in cantina per poter ottenere i vini senza interventi. Da lì quello che citavi quando ho fatto quell’intervista in cui dicevo che nel 2016 ho avuto più di 200 quintali di vino dolce. Perchè era molto caldo e dovuto ad un metodo di raccolta e fermentazioneche seguendo una storicità di Valli Unite nella vinificazione tenevamo tanto tempo in pianta fino a maturazione fenolica adatta.. Questo però portava, visto il cambiamento climatico, a delle concentrazioni zuccherine molto alte e che spesso non ce la fanno ad arrivare a fine fermentazione. Quindi giustamente il vino si ferma con un tenore zuccherino elevato e poi però si ripercuote come problematica nel mercato: un vino con tanti gradi, con tanti zuccheri, tanto colore, tanto tutto, che è difficilmente bevibile. Quindi ho provato due tecniche. La prima era la macerazione sulle bucce (anche sui bianchi), che ti consente di proteggere di più la fermentazione. Sia per un discorso di nutrienti sia per uno di temperature sia per un discorso di qualità del prodotto (estrazione dei nutrienti). Non ho fatto nient’altro che quello. Sui bianchi ho usato un po’ più di macerazione. Sui rossi ho lavorato con le analisi in vendemmia facendo attenzione ai ph, quindi delle acidità minori, degli alcol minori e quindi ho snellito il vino.
Ho quindi utilizzato un escamotage rischioso ed oneroso, il ripasso. In questa maniera il ripasso è un’escamotage chimico per mettere insieme un vino stramaturo con uno non maturo per ottenere una media. L’enologo invece cosa fa? Viene in cantina e fa la stessa cosa ma con le bustine. Se tu hai un’acidità di 5 e la vuoi di 6 aggiungi l’acido tartarico; se ce l’hai di 6 e la vuoi di 5 aggiungi il bicarbonato. Se l’alcol è alto ci aggiungi l’acqua. Adesso poi hanno inventato la dealcolizzazione, il filtro tangenziale, l’osmosi inversa, tutta una serie di tecniche, che sono industriali, che ti permettono di avere un prodotto ricco e poi di manipolarlo come vuoi. Cosa ho fatto nel 2016 quando avevo un vino di 15 gradi con 8 grammi residui? Una partel’ho venduto a una cantina che aveva un vino a 11 gradi con 10 di acidità. Liavranno semplicemente mischiati. Una parte l’ho tenuta in cantina e unita alla vendemmia successiva, perdendo la Doc ma ottenendo un vino interessante e commerciabile senza cadere nelle tentazioni della chimica
Però quello era il primo anno che avevo queste problematiche e ho fatto un intervento naturale, non chimico, per ottenere un prodotto vendibile. Poi negli anni successivi ho studiato l’andamento del vino per arrivare, come quest’anno, a raccogliere ai tempi giusti per avere dei prodotti adatti. Quest’anno io ho raccolto, adesso stavo studiando i Cortese, un Cortese che ha 12,70 di alcol e 5,30 di acidità totale, che è perfetto per un vino un pochino più strutturato, e ho fatto un vino a 6,75 di acidità e 12 gradi alcolici per fare un vino più fresco.
Per cui cerchi di capire con le piante che hai e come sta andando il prodotto che vuoi ottenere. Questo è un insieme che per me è viticoltura naturale. Cioè preservi il terreno, curi la pianta e ottieni un vino commerciale in base alla uve che hai senza interventi chimici.Quello che abbiamo fatto noi è ottenere dei vini vendibili con una raccolta buona. Comunque abbiamo perso il 50% della produzione ma non lo 80 o il 90.Quest’anno su 26 ettari abbiamo fatto 1.200 quintali, che vuol dire una quantità buonaper le colline tortonesi. Stiamo parlando di una zona come la nostra dove hai delle vigne nei calanchi ma c’è anche la vigna nella zona più fertile della Piasera dove puoi arrivare tranquillamente a 80 quintali a ettaro senza che la pianta abbia dei problemi, senza che ci sia dello stress per la pianta. Perché poi la base sta lì. Se vuoi che una pianta duri 80 anni devi trattarla bene. L’industria dopo 15 anni probabilmente cambia l’impianto perché non è più produttivo. Noi abbiamo le produzioni migliori se arriviamo a 40 anni. La vigna di cortese sopra e sotto la cantina ha 40 anni ed è quella che mi dà il prodotto più omogeneo.
Mi stai dicendo che avete perso metà della produzione e siete belli allegri e tranquilli?
Belli, allegri e tranquilli no. Però se sei un contadino, un agricoltore biologico e naturale sai che in alcuni anni puoi avere queste problematiche. Sono 10 anni, da quando è cominciato questo clima pazzo, che ho la produzione a fisarmonica. Nel 2017 ho prodotto 900 ettolitri pari a 1.200 quintali d’uva e l’anno dopo ne ho fatti 2.600. poi ne ho fatti 2.000, poi 1.700. Quindi è una produzione a fisarmonica in cui tu sei consapevole che per avere una produzione di vino costante di 150.000 bottiglie devi avere 25 ettari che ti producono200.000 bottiglie.
Se io tutti gli anni avessi una produzione perfetta in ogni vigna avrei troppo vino quindi dovrei ridimensionare l’azienda, quindi andare da 25 ha a 18 probabilmente perché se no dopo avrei troppo vino, dovrei cominciare…è tutto collegato questa cosa qua. Ti devi anche allontanare dalle rese. Le rese di 100-120 q.li a ettaro sono le rese commerciali che partono da un’idea di agricoltura differente da quella che vogliamo noi. Noi se siamo sui 40-50 q.li a ettaro va bene, 60 di media toh!
Quest’anno quanti ne avete fatti?
Devo ancora fare il calcolo preciso, comunque sono 1.200 q.li, considerato che produttivi abbiamo 21 ha, siamo sui 53 q.li a ha. Non è male comunque.
In campo il cambiamento climatico avrà indotto anche degli interventi più strutturali. Abbiamo parlato molto della cantina adesso parliamo un po’ meglio dei campi. Cosa avete fatto sui campi?
Quello che ti dicevo all’inizio. Abbiamo cercato di non lavorare la terra, di lavorarla il meno possibile. Partiamo da un concetto che l’ecosistema terra, il suolo, dev’essere auto alimentante, per cui ci dev’essere una biodiversità a livello di flora e di fauna, micro fauna, questo è il concetto. Per cui se tu lavori il meno possibile la terra, la soluzione ideale sarebbe l’inerbimento, fai sì che non hai nessuna modifica dell’ambiente, tendi ad avere un ambiente naturale che si autogestisce.
Comunque se tu fai una coltura produttiva devi seminare delle erbe adatte, autoctone. Quindi vai a selezionare delle erbe autoctone, tipo il trifoglio nano, e lo vai a mettere in vigna. E’ comunque una collaborazione tra l’uomo e la pianta. Non è che è una viticoltura dove fai fare tutto alla pianta, non poti, non fai niente, raccogli solo i frutti. L’ho fatto quell’esperimento, nel 2015. Lo dicevo in quell’intervista. Abbiamo preso dell’uva di una vigna abbandonata da 2 anni, non trattata, non cimata, non potata, non sfalciata dell’erba, ottenendo un vino molto buono, una barbera, chiaramente con delle rese bassissime: 4 q.li a ha. Un vino molto buono che ho venduto a un prezzo giusto, mi sembra 10€ alla bottiglia, e quello è un altro discorso. Era una sperimentazione divignaselvaggia, abbandonata, per cui il vino l’avevo chiamato Selvatico. Poi è morta lì, il proprietario l’ha estirpata. Ma era per capire cosa vuol dire avere una vigna abbandonata invece che curata.
Quel che facciamo noi è chiaramente una vigna con l’intervento dell’uomo che collabora, non distrugge l’ecosistema ma collabora. Quindi fa star bene la pianta. mettere la spalliera per farla andare in alto, altrimenti andrebbe in basso, e poter raccogliere la frutta, fare un terreno polifito con erbe che non danno fastidio all’uomo e aiutano la pianta e quindi cerchi di fare una cosa del genere. Il sottofila lo lavoriamo con una zappetta che lavora sottofila perché altrimenti avremmo dei problemi di gestione lavorativa, a lavorare sulla pianta. Quindi è una collaborazione in cui non dai fastidio e trai frutti visto che si tratta comunque di essere agricoltori. Questa è stata la nostra idea. L’abbiamo applicata e abbiamo visto che non era vincente perché in alcune vigne succedeva che la pianta non era contenta di questa cosa, perché spesso passando col trattore schiacci la terra, crei un compattamento e quindi un’asfissia radicale e vedevi le radici che non avevano un bel colore ma erano scure perché non avevano ossigeno. Quindi abbiamo chiesto aiuto a un amico che studia queste cose che ci ha consigliato di fare un taglio, tipo un coltello, sul terreno. Quindi non lavorare la terra ma semplicemente fare un taglio in modo che l’ossigeno entrasse in questo terreno troppo schiacciato dal trattore, ma anche questa è sempre una mediazione.
Tu parti da non fare niente e cerchi di arrivare a fare i minimi interventi che non danno fastidio alla pianta, l’aiutano e non danno fastidio all’uomo, lo aiutano. Adesso dove è possibile facciamo inerbimento e questo taglio che serve a far entrare ossigeno. Purtroppo non è possibile dappertutto perché in alcuni punti dove abbiamo piantato o togli la vite oppure devi fare degli interventi un po’ più drastici. Magari devi passare un erpice o fare una fresatura. Per cui dipende da dov’è la vigna, quanti anni ha, che varietà è, che tipo di terreno c’è. Non c’è una ricetta unica per tutto. Lì sta all’esperienza. Bisogna tenere conto che nella salvaguardia dell’ambiente c’è anche la salvaguardia dell’uomo, ti voglio vedere a lavorare a mano 25 ha, e lì sta anche il discorso della dimensione aziendale. Una viticoltura naturale probabilmente non può eccedere i 6-7 ettari per fare in modo che l’uomo non sia sottomesso all’agricoltura. E’ chiaro che noi siamo una cooperativa e se tu fai il conto abbiamo 12 persone che lavorano in vigna, sono circa 2 ha a testa per cui ci sta come proporzione.
Invece sui terreni e sulle loro esposizioni siete intervenuti in qualche modo?
Certo. Andando avanti sul discorso agronomico, dopo aver capito che c’era asfissia e quindi bisognava fare questi interventi, abbiamo fatto delle analisi con tecnici diVitenova che è collegata a Vinnatur. Quindi in base a come lavoravamo il terreno siamo andati a guardare le radici, a guardare quanti invertebrati c’erano con delle trappole, e a studiare le piante che nascevano da sole dall’inerbimento. E da lì abbiamo misurato la respirazione del terreno: in base alla CO2 prodotta sai quanti batteri stanno fermentando e così siamo andati a capire se il lavoro che facevamo era buono o no. Così abbiamo capito che in certi punti era buono e in altre vigne no. Quindi in alcuni posti bisognava lasciare inerbito, in altri bisognava mettere il sovescio, in altri arieggiare un po’ più profondamente per far sì che la pianta stesse nel miglior modo possibile. L’obiettivo è che la pianta deve stare bene e devono esserci più esseri viventi possibile nella vigna. Questo era stato il punto di partenza.
Cosa è successo? Quando ti accorgi da questi studi che ci sono delle vigne che non vanno bene, ci sono due possibilità: o hai sbagliato il clone, la pianta, o hai sbagliato la zona. Di conseguenza nel momento in cui stiamo iniziando un nuovo impianto vai a studiare in maniera più organica, tenendo conto di più variabili, il terreno, l’esposizione, il tipo di varietà. Quest’anno abbiamo messo una vigna di un ettaro di Favorita esposta a Nord in una parte più bassa. Tutto questo ha fatto sì che per avere un prodotto sano, con meno interventi possibile, in un clima avverso, dovrebbe essere quella lì la soluzione. Perchè se è un po’ più in basso ci sono gli sbalzi termici che fanno umidità e così la pianta ha un po’ di acqua.
Dove una volta non si sarebbe mai piantata?
In realtà no, perchè ho chiesto a Giacomo Boveri, che lui sa tanto della storia di quella zona lì, e ci ha detto che lì suo padre e ancora suo nonno avevano delle vigne. Per cui il clima è comunque da cent’anni che cambia e quello che deve fare il viticoltore è sperare che per almeno 15 anni quella zona lì ti dia una produzione buona perché cambierà comunque il clima. Abbiamo messo la Favorita perché è un po’ più rustica e visto che in questi anni il clima cambia molto, un anno è secco un altro piove tantissimo, è una varietà che si adatta abbastanza bene. E’ rustica, quindi avendola piantata in quest’anno siccitoso, abbiamo perso solo nove piantine su 3.600 per cui vuol dire che la mortalità è stata molto bassa. Adesso però vediamo, perché è rustica, ma è soggetta alla flavescenza dorata. Per cui vediamo se con il nostro tipo di agricoltura su una pianta che in passato era soggetta a flavescenza se nei prossimi anni si ammalerà. Per ora sulle barbatelle non abbiamo avuto problemi. Per cui è tutto da capire.
La cosa interessante è che parallelamente stiamo lavorando anche sulle concimazioni. La nostra idea è di non intervenire mai con le concimazioni nella vigna, però se vedi che la pianta soffre e sta male ci sono diversi tipi di interventi che puoi fare. Noi abbiamo il letame e quindi possiamo letamare. Però il letame dev’essere compostato bene, quindi stiamo cercando di lavorare su un compostaggio più intelligente del letame. Poi c’è il sovescio che può essere fatto con leguminose, con graminacee, con miscugli, per cui stiamo cercando di capire anche quello. Sono tutti dei miglioramenti.
Invece cosa mi dici dell’impianto che Ottavio aveva fatto in alta Val Curone? Come è finito?
L’impianto era a tra gli 800 e i 900 metri di altitudine. Più che un esperimento enologico era un esperimento sociale. Nel senso che l’obiettivo era all’inizio di cercare di capire se effettivamente il Timorasso che è un vitigno di montagna si adattava bene all’alta Val Curone. La risposta è stata sì, nel senso che il prodotto che ne esce è molto interessante da un punto di vista aromatico e da un punto di vista qualitativo. La problematica grossa era quella che noi siamo troppo lontani e la vigna la devi vivere da vicino. Perchè dico che è un esperimento sociale? Una volta che hai capito che puoi fare vino, che puoi fare reddito, lo scopo era poter ripopolare quella zona e dargli un’economia circolare per mantenere qualche famiglia.
Il problema è che non abbiamo mai trovato qualcuno che si potesse insediare. Il progetto è stato portato avanti con l’aiuto di due residenti che però non erano agricoltori, non avevano questo progetto a cuore come lo avevamo noi, non è facile ottenere quello che vuoi quando deleghi. L’altra problematica è che abbiamo trovato l’avversità degli animali, essendo l’unico prodotto interessante per volpi, uccelli e quant’altro, se lo sono mangiato. Secondo me è un esperimento riuscito perché comunque è un vino di alta qualità che riesci anche a vendere a un prezzo interessante, il problema grosso è che se non c’è qualcuno che vive lì, e che quindi fa un’economia territoriale è ingestibile, perché gli animali se non presidi il territorio giustamente si impossessano della zona.
Mi sembra che quello che state facendo con la Favorita sia un po’ quello che Dottori chiama cambio di piattaforema ampelografica.
Sì. Riguarda, se vuoi, da un punto di vista più semplice, quello che abbiamo fatto noi nel cercare la varietà autoctona più adatta al clima e all’esposizione. L’altra cosa è quello che dicevamo prima dei PIWI, che è quello di cercare invece delle varietà che sono state create per resistere: in questo caso alle avversità micro biologiche e non climatiche. In realtà un amico della zona, che ha fatto una sperimentazione, mi diceva che ha reagito molto bene a questo clima quest’anno. Non ha dovuto fare trattamenti eccessivi, che comunque si fanno. Non è vero che non si fanno, non è esente da trattamenti, ma li riduci. Comunque il risultato è stato molto interessante. Adesso aspetto di vedere il risultato enologico, anche se poi è molto soggettivo perché io ho assaggiato dei PIWI di diverse persone e ci sono quelli buoni e quelli meno buoni, è come nel vino, c’è sempre l’effetto umano. E’ chiaro che il fatto di cambiare varietà, e qua possiamo entrare nel discorso invece territoriale, fa sì che poi ci siano dei problemi a livello commerciale. Per cui una zona come la nostra che ha puntato negli ultimi anni sul Timorasso, con tutti i problemi annessi nel divulgarlo in maniera così importante, fa sì che ti pone un limite. Per cui se tu sei entrato nel mercato col Timorasso non è che adesso pianti Favorita. A noi di valli Unite non ce n’è mai importato niente di queste cose qui, per cui Doc non Doc, varietà non varietà, quello che importa a noi è fare agricoltura naturale senza stravolgere l’ecosistema, e di conseguenza è una soluzione come dice Dottori assolutamente interessante. Ripeto, per noi col vincolo di avere delle varietà autoctone, che sia Favorita, Barbera, Dolcetto, Timorasso, ecc., l’importante è che siano adattabili al nostro tipo di agricoltura. Per esempio anche per il Nebiolo vorrei fare una sperimentazione perché con questo cambiamento climatico, visto che il terreno è adatto al Nebiolo, probabilmente potrebbe essere una pianta potenzialmente ripiantabile.
Scusa ma le terre che avete sono quel che sono. Non è che potete cambiare esposizione come volete.
Il bello della collina è che, soprattutto nel tortonese, tu hai questa possibilità in qualunque posizione. Noi adesso acquistiamo 11 ettari, metà è bosco, metà è prato da sfalcio, di fronte alla vigna di Montessoro, per due motivi. Il primo è per salvarlo dagli investitori, chiamiamoli investitori-distruttori. E in quel modo noi abbiamo esposizione a Est, Ovest, Nord e Sud, in alto e in basso, perché sono colline che vanno dai 300 ai 400 metri. In ogni caso puoi acquistare, vendere terreni in funzione delle necessità, puoi fare modifiche. Comunque l’acquisto di un terreno non da vigna in questo momento non ha un costo elevato. E’ chiaro che se tu vai a cercare un impianto di Timorasso già fatto vai anche sui 150 mila euro per ettaro. Se invece vai a cercare un incolto che magari guarda a sud in questo momento è valutato 6-7 mila euro, dipende dal mercato. Io ho comprato un ettaro metà bosco, metà incolto per 5.000 euro. E’ chiaro che devi essere lungimirante, devi avere un progetto in testa, saper capire dove e come acquistare. Però la salvezza di Valli Unite negli ultimi anni è sempre stata quella di avere 25 ettari non accorpati. C’è sempre una parte che è su a Montessoro, una parte che è sotto a Montale, una parte in Piasera, una parte in Piasera che guarda Paderna, una parte che guarda Villa Romagnano….
Quello che viene ritenuto normalmente un difetto perché diseconomico è invece un pregio?
Dipende da qual è il tuo obiettivo. Il fatto di avere 25 ha tutti accorpati ti permette di minimizzare i costi. Però fai un disastro ambientale mica male. Da lì il nuovo progetto che vorrei portare avanti, che è quello delle isole ecologiche all’interno del vigneto. Vorremmo riuscire anche a lavorare a livello di Consorzio di Tutela, per cui quando fai il bando per il Timorasso per poter avere i diritti di impianto e chiedi 7 ha – perché abbiamo permesso alle aziende di chiedere 7ha – te li diamo. Ma in questi 7 ha ci dev’essere il lago, gli alberi, le api e tutta una serie di cose. Allora lì fai la differenza. Perchè poi non è solo un discorso di attrazione turistica, è un discorso ecologico perchè comunque abbiamo visto quest’anno che le piante di vite che erano in zone dove c’erano alberi o vicino ai boschi, erano assolutamente migliori di zone considerate più vocate. Ti stavo dicendo che, quando giorni fa Ottavio ha parlato della nostra famosa vigna a lisca di pesce, da un punto di vista ambientale è fallimentare. Perché se tu vai lì adesso,con il clima di questi anni, è un deserto. Ci stanno crescendo bene gli ulivi. Abbiamo messo 20 ulivi in mezzo però la vite non arriva al secondo filo, bisogna lavorare la terra perché se no secca tutta l’erba, c’è un disastro, non c’è neanche ossigeno. L’acqua porta via tutto. Per cui chiaramente c’è da stravolgere completamente l’idea di vigneto in questo periodo rispetto a venticinque anni fa. Bisogna avere il coraggio di vedere in una maniera diversa la viticoltura. Drenare l’acqua non è più sufficiente. Quel tipo di impianto ha funzionato per l’acqua ma non per tutto il resto.
Se metti gli alberi nella vigna non riesci a passare col ripper perché altrimenti spacchi l’attrezzo con le loro radici. Quel che bisogna capire è che se si va verso questo clima la vigna non può più essere un ecosistema a sé stante. Dev’essere parte di tutto un insieme. I vigneti che abbiamo adesso sono stati progettati e impiantati una ventina di anni fa. Il progetto è quello di stravolgere quella visione del vigneto. Aggiungo un concetto: la maggior parte dei viticoltori naturali sono neorurali – di estrazione urbana, non hanno una tradizione agricola contadina alle spalle, non hanno una visione contaminata dal passato e dalle consuetudini. Quasi sempre le innovazioni arrivano da persone che vengono da un altro mondo che hanno una visione differente, che non sono condizionati dal passato. Una delle cose migliori del rapporto tra me e Ottavio è stato proprio quello che venivamo da due mondi diversi ma riuscivamo a colloquiare perché avevamo un obiettivo comune. La sua esperienza e la mia innovazione andavano insieme per trovare la soluzione più adatta possibile al contesto.
Quindi, se non ci sono più i filari come adesso, come diventa la vigna?
Non lo so ancora. Sto parlando con tutta una serie di agronomi per riuscire a capire quali sono i punti positivi e quali quelli negativi. Diciamo che adesso la soluzione più fattibileè quella che tu non fai come certe vigne, anche da noi, che tu parti da in fondo e non riesci a vedere la fine del filare. Ma invece è quella di fare dei vigneti con più capezzagne, più interruzioni, più siepi, più roba in mezzo. Magari non vai a mettere in mezzo l’albero maritato, che quello secondo me è un estremismo. Vai a fare una vigna un po’ più piccola con però delle isole ecologiche dove possono andare gli insetti, gli animali vertebrati e invertebrati. E’ chiaro che non potrai usare la vendemmiatrice, i grossi trattori. Bisognerà tornare a una viticoltura differente, magari più umana, con meno macchinari. Bisogna trovare una soluzione. E’ chiaro che da un punto di vista anche fitosanitario bisogna capire com’è con la presenza di arbusti e siepi. E’ chiaro che la flavescenza dorata è trasportata dalla cicalina, loScaphoideus titanus, che sta nelle zone ecologiche, sta dove c’è la vitalba, dove c’è la vite selvatica, per cui rischia di diventare un autogol. Però secondo me se tu riesci a fare una zona ad alta biodiversità riesci a convivere con queste malattie. Si chiama malattia quando supera una percentuale, se no non lo è. Noi abbiamo le mani piene di batteri però poi non ci ammaliamo. E’ chiaro che nel momento in cui arrivi a una concentrazione elevata di uno di questi batteri, quindi un disequilibrio armonico, poi viene fuori la malattia. Per cui l’obiettivo è un po’ quello lì, che poi si chiami omeopatia in vigna o si chiami in un’altra maniera. Bisogna trovare una soluzione che sia un bilanciamento tra l’essere umano, che deve campare con questo prodotto, la vigna e l’ecosistema che devono sopravvivere, e il clima con cui dobbiamo cercare di convivere. Se poi è vero che il clima sta cambiando un po’ anche per colpa nostra questo magari può essere un inizio per avere del clima diverso. Si dice che la piovosità dovrebbe aumentare se hai più alberi grazie alla traspirazione. E’ chiaro che è un inizio, perché un’agricoltura fatta, come stiamo facendo in questo momento anche noi, è dannosa, per le api, per certi insetti, per il terreno e bisogna assolutamente cambiare. Quello che facciamo non basta.
Come incide il cambiamento climatico sulla gradazione del vino? Come fare se la moda, specie per i vini naturali, va verso vini leggeri e il consumo si alza sui bianchi?
E’ un bel problema. Se le gradazioni dei vini (concentrazione zuccherina nel grappolo) salgono per l’innalzamento delle temperature e per la scarsità di pioggia e la richiesta del grado alcolico va in senso opposto, bisogna capite come è possibile soddisfare questi bisogni. Per farlo esistono tecniche industriali aggressive ma ci sono anche tecniche naturali che permettono di farlo, basta volerlo e fare qualche compromesso.
Hai detto che quest’anno hai fatto un Cortese di 12 gradi. Come hai fatto?Ci sono soluzioni agronomiche per abbassare le gradazioni?
Ci sono. Il tuo obiettivo è l’equilibrio della vigna. Se la vigna è in equilibrio non ha degli eccessi. Per cui l’equilibrio lo devi trovare in base alla zona dove stai, equilibrio che potrebbe voler dire più gemme, più foglie. La pianta comunque è una roba che prende energia dal terreno e dal sole, fa fotosintesi, produce zuccheri. Gli zuccheri vanno nel frutto o nella pianta. Quindi se tu riesci a fare in modo che gli zuccheri vangano utilizzati di più per la pianta, ce ne sono meno nel frutto. Per cui tu devi creare una parete fogliaria, più o meno alta e larga, adatta alla varietà e al clima che hai. Perchè la foglia grande e la foglia piccola fanno fotosintesi ma usano l’energia per se stesse. Quella che fa fotosintesi per il frutto è la foglia media. La cosa più difficile è riuscire a fare in modo che gli zuccheri vengano bene distribuiti tra la pianta, che vuol dire essere in salute, e i suoi frutti. Perché se la pianta consuma o produce un eccesso di zuccheri vuol dire che ha delle carenze o dei surplus. Se ha dei surplus li mette nel frutto. Se ha delle carenze va in sofferenza. Per cui è un equilibrio che tu devi riuscire a trovare tra il suolo, la pianta e il cielo. Questa è la parte più difficile. Quindi se tu riesci a ottenere questo, otterrai una maturazione quantitativamente e qualitativamente adatta a fare vino. Tu devi riuscire a raccogliere quando l’acidità è costante e quindi il grado zuccherino è arrivato allo sviluppo non di appassimento ma di normale maturazione. In quel periodo lì c’è la maturazione fenolica che ti da gli aromi.
C’è una trasformazione nella buccia, nella polpa e nei semi, dei fenoli, di queste sostanze aromatiche che ti danno un po’ i profumi. Quindi è un gioco chimico-temporale. Devi beccare quest’intervallo qua. E’ chiaro che se c’è uno squilibrio da parte della pianta può succedere che tu hai questo equilibrio quando gli zuccheri sono 15 o 16 gradi potenziali di alcol. Quindi l’intervento immediato, che è quello che sto facendo negli ultimi anni, è quello di raccogliere un po’ prima. Così non hai gli aromi perfetti, non hai i profumi che desideri, la maturazione dei tannini, quindi magari hai un vino un po’ più tannico con un po’ di sentore erbaceo, però ottieni un prodotto che è più commerciabile. E comunque a discapito di alcuni aromi, ce ne hai altri che magari sono più aggressivi, però rendono il vino un po’ più interessante. Quindi sono scelte dettate un pochino dal mercato. Se invece tu riesci a gestire la pianta a livello agronomico perfetto avrai una maturazione fenolica del tuo vino quando hai un grado zuccherino moderato. Per cui non è che c’entra essere al Sud piuttosto che al Nord o al Centro. Dipende da che tipo di agricoltura fai. Più la pianta è squilibrata e più produce zuccheri in eccesso. Se tu continui a pompare il terreno poi lei è più forte e continua a fare foglie, fotosintesi e quindi a fare energia, e quindi fa zuccheri. Questa è la mia idea, il mio pensiero, però da dimostrare. Noi ci stiamo provando, negli anni, cambiando la lunghezza dei tralci, non cimando. Perchè poi la pianta non è solo questo, è anche ormoni. Per cui se tu cimi una pianta, c’è un risveglio ormonale, ci sono degli ormoni che al momento del taglio si attivano, per cui ci sono delle pratiche anche sulla pianta che ti permettono di diminuire la produzione di zuccheri. Per esempio ho scoperto che se invece tu cimi all’invaiatura, cioè quando l’uva cambia colore, da verde a giallo o rosso, se tu cimi in quel momento, hai il risultato di ottenere un grado in meno alla raccolta. Perché c’è un discorso metabolico che fa sì che si abbia una perdita di produzione o di utilizzo di zuccheri. Sono cose che gli agronomi sanno, che gli studiosi sanno, ad esempio, con Vinnatur ho fatto questa scuola itinerante in un’altra azienda e c’erano due agronomi che spiegavano un pochino come fare a tenere il grado più basso alla vendemmia. Sono pratiche invasive perché poi anche lì entra l’etica del viticoltore naturale. Perchè il vero viticoltore naturale non tocca la pianta, non tocca il suolo. Però torniamo al discorso ma poi che vino produci, che uva ottieni, che squilibrio hai? Per cui ci sono degli interventi che ti permettono di abbassare il grado.
Per quanto riguarda certi vini di gradazione medio-bassa, bisogna capire sempre se si parla di agricoltura naturale. Perché tu puoi raccogliere un vino a 16 gradi e poi dealcolizzarlo, puoi raccogliere un vino a 12 gradi che ha 10 gradi di acidità e poi deacidificarlo. Puoi aggiungere i tannini. Cioè nell’agricoltura, anche in quella biologica, puoi fare queste cose. Se tu vai a vedere è permessa tutta una serie di interventi sul vino dalle cose più eclatanti a quelle più impensabili. Nel vino biologico è addirittura permesso anche il termo trattamento e anche tutta una serie di tannini, di acidificanti, deacidificanti. Nel vino biologico certificato puoi fare tanto, per quello che noi abbiamo aderito al vino naturale. Perchè il vino naturale è praticamente uva e solforosa, e basta. Solo questi due ingredienti.
* Ogni eventuale errore o omissione è di esclusiva responsabilità dell’intervistatore
Non c è articolo del blog che sia intriso della superficialità ecogreen di cui si fanno vanto persino gli stessi responsabili dell’ ‘ attuale situazione climatica: vedasi ad es. La pubblicità radiofonica di una nota multinazionale petrolifera addirittura trasmessa su Radio Popolare. Per un banale ma volonteroso consumatore biologico l ‘ intervista di Poretti è un tassello in più che rafforza le proprie ” piccole” scelte. Ho apprezzato la sua analisi e il suo tentativo di evitare gli opposti estremismi sul tema. Come in altre persone da te intervistate emerge sempre una motivazione del proprio agire utopica e sociopolitica: nulla di più lontano dalla realtà economica in cui siamo immersi. Quanta complessità in un bicchiere di vino….ottimo antidoto al grigiore circostante. Scusate la prolissità. Saluti.