TERRA NATALE

Dicembre 8, 2023 3 Di storiedelbio

Da qualche tempo Giacomo Sartori, pedologo e scrittore, sta lavorando a un Sillabario della Terra ( vedi: https://www.nazioneindiana.com/?s=sartori+sillabario+della+terra ).

Non capita tutti i giorni di incontrare autori capaci di scrivere di agricoltura in modo così competente e appassionato. In questi scritti Giacomo Sartori riesce a farci sentire la terra proprio come il sistema vivente di cui facciamo parte.

Per questo siamo lieti di condividere con voi il racconto della nascita della sua passione per la terra e due altre voci del suo Sillabario, particolarmente attuali, che Giacomo ci ha gentilmente permesso di pubblicare come regalo natalizio ai lettori di storiedelbio.

Giacomo Sartori è agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vive in Francia. Ha lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e ha all’attivo molte pubblicazioni sui suoli e sui paesaggi alpini. Ha insegnato Agronomia generale all’università di Trento. All’attività scientifica ha sempre affiancato quella di narratore, gli ultimi suoi romanzi sono: Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exòrma, 2019), e Fisica delle separazioni (Exòrma, 2022). Negli ultimi anni anima percorsi tra scienza e arte, nell’ambito di residenze artistiche nel nord della Francia, centrate sui paesaggi e i rapporti tra uomo e ambiente.

Di recente ha pubblicato Coltivare la natura ( Kellermann, 2023 ) una raccolta di scritti sui rapporti tra agricolktura e ambiente ( https://storiedelbio.it/2023/06/20/una-pericolosa-illusione/ ), con la prefazione di Carlo Petrini.

dal Sillabario della Terra

di Giacomo Sartori

Vocazione

Non so perché sono finito a occuparmi della terra. Potrei dirmi che è successo per caso, visto che l’incontro sembra essere avvenuto indipendentemente dalla mia volontà: non ho fatto nulla per andare verso di essa. Nella griglia ideologica dei miei famigliari, dalla quale a dispetto delle apparenze non mi ero ancora liberato completamente, era certo il soggetto più trito e meno dotato di appeal, meno valorizzante. E quello che mi attraeva era la scrittura, per la quale ritenevo di non avere sufficienti doti cerebrali. Se ci penso adesso mi sembra però l’approdo più consono che potesse capitarmi, l’unica cosa alla quale potessi dedicarmi. Il caso ci porta forse molto più spesso di quanto lo immaginiamo dove è necessario che andiamo. Insomma, quello che chiamiamo il caso.

La facoltà di Agraria era squarciata da una esplosione di matricole, l’anno in cui ho cominciato l’università. Nel rapido rifluire della marea delle contestazioni e delle velleità, il terrorismo si avviava verso il parossismo, con la truce cortina di mancanza di prospettive che si trascinava dietro. E certo l’agricoltura agli occhi di molti di noi veicolava sentori di libertà e non omologazione, e di comunione con la natura, agli antipodi del mondo bieco che riprendeva piede. Si parlava parecchio delle lotte campesine di molti paesi sudamericani, e il fascino di Cuba non si era ancora deteriorato. Molti gruppetti di giovani con aspirazioni agresti e libertarie erano andati a installarsi in campagna, in genere in vetusti casolari di mezzadri migrati nelle città.

Certo questi bagliori romanticheggianti hanno contato pure per me, in un periodo nel quale le offerte di studi restavano ancora limitate, e paludate. Non vedo altre ragioni che spieghino il richiamo istintivo alla radice della mia scelta di quella via. L’universo rurale che avevo incrociato di striscio nella mia infanzia era l’unico che potesse sedurmi, compensando almeno in parte la frustrazione di non potermi dedicare alla letteratura. Nei fatti proprio in quegli anni nelle campagne italiane dilagava il modello industriale agli antipodi delle rappresentazioni bucoliche: gli ultimi resti di un millenario mondo contadino venivano spazzati via, scomparendo per sempre.

In ogni caso quel primo anno gli iscritti erano dieci volte quelli che le polverose aule delle Cascine avrebbero potuto ospitare: era un degradante caos. Nella massa che derivava senza indicazioni vedevo scafati fricchettoni come contadinotti tirati a lucido, molti venivano del sud, e il vero punto in comune sembravano essere le preoccupazioni per l’alloggio e il cibo. Gli studi a quanto pare venivano dopo. Io invece avevo bisogno di mostrare a me stesso che valevo qualcosa, dopo le umiliazioni del liceo classico della mia mortifera cittadina: ci davo dentro fino a spossarmi, spaziando ben oltre i programmi, inaugurando la forsennata perseveranza che sarebbe stata la mia. Già all’inizio del secondo anno quattro matricole su cinque erano state sterminate, e erano venuti alla superficie gli alteri fiorentini, con sguardi di signorotti – alcuni erano davvero nobili – costretti all’esilio che riprendono i loro possessi. Ma insomma gli studenti restavano ancora troppi.

Tra le altre cose era quindi molto difficile trovare un docente con il quale fare la tesi. Diversi membri del collettivo redazionale del giornaletto del quale facevo parte erano approdati a uno dei due professori scopertamente di sinistra, critici dell’agrochimica e aperti ai vagheggiamenti di giustizia. E così, tramite un altro studente entrato nelle sue grazie raccontandogli i dettagli delle sue notti sessuali con due ragazze, sono finito pure io con lui. Che appunto studiava e insegnava i suoli.

Io non sapevo bene cosa fosse la terra, non avendo frequentato nessun corso che la riguardasse, e non provavo alcuna attrazione. Mi intrigava però quel professore con una barbetta avventuriera e sempre in viaggio nei paesi tropicali. In una cittadina africana s’era preso addirittura una coltellata in pancia, a quel che si diceva mentre era con una non meglio specificata donna. Ma forse sbaglio, anche l’idea della terra, senza che me ne rendessi conto mi attraeva a sé. In fondo a modo mio un po’ la conoscevo: l’avevo scoperta quando i miei genitori si erano trasferiti fuori città, come ci si imbatte in qualcosa che proprio non ci si aspettava. Dentro di me rappresentava pur sempre l’essenza delle campagne ancora mezzadrili che avevo battuto in lungo e in largo da ragazzino, oltre che l’esatto contrario di quello che incarnava la mia famiglia.

La mia tesi sperimentale non prevedeva purtroppo uscite sul terreno. Il professore sul quale avevo contato per imparare qualcosa non lo vedevo mai, visto che era sempre ai tropici, impegnato nelle sue avventure scientifiche e a prendere coltellate: mi aveva abbandonato a me stesso. Per prelevare la terra che serviva per le mie prove un altro insegnante più sedentario mi ha allora accompagnato in un territorio di ondulazioni vaste e chiarissime con un odore di paglia scaldata dal sole e di argilla secca. Era da tempo, da quando non andavo in alta montagna con mio padre, che non mi imbattevo in qualcosa di così forte, che esalava la presenza umana ma anche la potenza della natura.

Il docente sedentario e silenzioso al ritorno si è fermato per dissodare e portare via una pianta, mi sembra di ricordare che fosse un corbezzolo: ecco svelato quello che lo interessava del nostro viaggio. Ma insomma avevo messo il naso in quella scenografia di crete a perdita d’occhio che raccontava di una lotta non risolta tra gli uomini e quello che essi stessi consideravano il nemico da soggiogare. E come pegno d’amore a prima vista mi ero riportato in città un sacco di quella terra tanto simile a cemento, sulle quali avrei fatto i miei esperimenti inutili e noiosi.

Ci sono poi tornato subito dopo la laurea per un lavoretto che mi aveva affibbiato l’università, in quelle crete abbacinate e severe, e ho avuto modo di conoscerle nell’intimo. Le percorrevo a piedi, per giornate intere, infilandomi con la mia attrezzatura e la trivella manuale nelle esili macchie di vegetazione che separavano gli sterminati campi di frumento, che s’erano mangiati come voraci squali tutte le superfici non troppo abrupte, tutto lo spazio disponibile, perfino le rughe secche dei calanchi. Spesso per ingrandirsi al massimo avevano scavato a monte nell’argilla intonsa: ne ricavavano stranianti colorazioni azzurrognole. In ogni caso lì facevano affidamento solo sui concimi chimici, la terra non era che superficie sfruttabile, materia morta e stupida.

I piccoli casolari dei mezzadri erano tutti costruiti sugli apici delle creste e delle collinette, l’unica soluzione praticabile su quelle crete che strappavano le fondamenta e i muri. Erano tutti abbandonati da tempo: sembravano isolette selvagge, con i loro corteggi di scarruffata vegetazione. Spesso il tetto era crollato, e nelle stanze s’erano accampati grossi alberi, che qualche volta si affacciavano alle finestre, quasi ci tenessero a far notare che avevano preso possesso delle abitazioni. In molte stanze c’era ancora il cotto, nelle cucine i camini erano neri di fumo che aveva conservato il sentore acre dei ciocchi di quercia.

Restavano oggetti senza valore: miseri attrezzi rugginosi, bottiglie dal vetro intorbidito, qualche posata o ciotola. Reperti che richiamavano quelli che avevo conosciuto nelle campagne del nord che conoscevo io, e che mi avevano sempre colpito per il loro carico di desolazione, per il cruento abbandono che testimoniavano, avvolto da una indifferenza più violenta ancora. Del resto qualcosa mi diceva che qui la lotta per sopravvivere – prima della fuga – era stata ben più aspra.

Più che la terra in sé, che sostanzialmente non capivo, mi soggiogavano i paesaggi assolati, quell’odore di fango secco e paglia e cisti, la dittatura del cielo e del vento. La terra argillosa era però onnipresente, costituiva la pelle disidratata di quelle ondulazioni infinite condannate alla cerealicoltura senza requie o alternanze di sorta. In estate le enormi zolle angolose tagliate dai possenti aratri erano temprate dal solleone: un mare di grezzi blocchi di cemento alla deriva.

Ci sono ripassato molti anni dopo, dopo aver lavorato in luoghi di altri colori: i campi erano simili a prima, con lo loro plaghe bluastre a monte e grigio chiare a valle, e le rudi zollosità vomitate dai possenti aratri. I ruderi dei cascinali si erano però metamorfosati in lussuose ville con prati all’inglese e piscine, piccoli alberghi di lusso. Quasi una fata avesse operato un incantamento. Le tracce della civiltà contadina che avevo conosciuto io erano state definitivamente spazzate via.

Erano arrivati i ricchi stranieri, sulle macerie della civiltà contadina avevano trapiantato il lusso del capitalismo internazionale. Ora contavano solo i loro divertimenti e i piaceri, le necessità dei loro occhi avidi di controllati esotismi. I bei campi cretosi massacrati dall’agricoltura industriale, ma ancora vivi, e sempre bellissimi, quasi coscienti ora di esserlo, stavano a guardare, come aspettando il seguito.

L’estate seguente ho battuto paesaggi simili nell’estremo sud del Paese, sempre con la mia trivella metallica e la sacca di tela grezza degli strumenti. Dal punto di vista geologico erano le stesse crete, ma i dossi erano ancora più desolati, ancora più spossati, sfiniti di aridità. Si capiva che lì la lotta degli uomini era stata ancora più cruda, più implacabile. Perfino le enormi macchine agricole sembravano avere difficoltà a mettere sotto quel paesaggio tanto potente e austero. Per il momento avevano vinto anche qui, ma a un prezzo ancora più alto.

Io adesso ero però a mio agio, ero in sintonia con la terra. Ora la sentivo respirare, percepivo che stava solo attendendo, sotto la sua apparenza tramortita. Sapeva che alla lunga l’avrebbe vinta lei, la tracotanza degli uomini li avrebbe portati alla sconfitta. Non lo sapevo, ma ormai la terra mi aveva preso, non mi avrebbe più lasciato.

Guerra

Le guerre sono nefaste per la terra come per gli uomini. Le immagini dall’alto dei campi costellati di crateri delle battaglie in Ucraina sono tristemente identiche a quelle della valle dell’Adige, nella mia regione, nel conflitto di più di cento anni prima. Stesse pustole rilevate sui bordi nei campi coltivati, perfettamente rotonde ma di varia grandezza a seconda della potenza dei proiettili. Le granate e gli obici che non feriscono gli uomini, che per fortuna sono la stragrande maggioranza, lacerano la terra, senza che il danno sia conteggiato. Sprezziamo la terra in pace come in guerra, la consideriamo un semplice substrato per le nostre dissennate azioni. O meglio, tanto più in guerra, dove le campagne diventano terreni per avanzare, appostarsi e affrontarsi: campi di battaglia. Campi per coltivare morti. Nelle pause la terra è adibita a smaltire i cadaveri, riciclando le loro parti putrescibili.

Anche le trincee ucraine fanno pensare a quelle del primo conflitto mondiale, io nelle immagini riconosco i vari strati della terra fertile, la sua vita, sviata a fini di morte. Il mio cervello senza che io voglia fornisce una precisa classe tassonomica. Nella Somme, in Piccardia, dove ho soggiornato di recente con una residenza, la terra è uguale a quella Ucraina, è terra fine portata dai venti del nord dopo la glaciazione. Solo è più chiara in superficie, per il clima più secco e freddo. Dopo l’apocalittico carnaio il ritorno degli agricoltori è stato molto problematico, perché la terra era letteralmente infarcita di ordigni inesplosi, cadaveri, ferraglie. La maggior parte dei pochi locali sopravvissuti si rifiutavano di metterci mano, in quella terra di morte, quindi ci fu un arrivo massivo di belgi, che avevano meno esigenze e meno timore di saltare in aria.

Gli scontrosi immigrati delle Fiandre si sono messi sotto a dissotterrare gli obici, i proiettili, tutti gli altri resti, a strappare metro per metro la terra alla guerra. Per molti decenni, nonostante la presenza costante di armate di artificieri gli incidenti erano frequentissimi, con morti e amputati. Ancora adesso, a distanza di più di un secolo, affiorano grappoli di granate e bombe inesplose. Ancora adesso nei campi si aprono enormi voragini, quando collassano i soffitti dei casamenti scavati nel gesso sotto le trincee che sezionavano la terra portata dal vento. La regione è però considerata uno dei gioielli dell’agricoltura industriale europea. Si tratta di un paesaggio molto contaminato, avrebbe detto lo scrittore Martin Pollack, che ha coniato questa definizione, dopo aver dato la caccia alle fosse comuni in Europa.

In Vietnam la terra è ancora avvelenata dai venti milioni di galloni di erbicidi innaffiati dagli americani per stanare gli avversari, e dalle letali diossine che ne derivano. A cinquant’anni di distanza queste circolano dai suoli ai pesci allevati e alle persone. Sui campi di battaglia gli erbicidi servono a disseccare gli alberi e gli uomini. Del resto gli insetticidi cloroderivati e fosforganici sono stati creati e perfezionati per fini di guerra, prima di migrare all’agricoltura: la passerella della chimica conduce prevalentemente nell’altro senso, dai campi di battaglia a quelli coltivati.

A trent’anni di distanza nell’ex Yugoslavia molti abitanti e bambini vengono mutilati o uccisi dalle mine inesplose che sonnecchiano tra la lettiera, come succede in molti altri paesi della Terra, quella con la T maiuscola. La guerra stermina gli uomini e la terra anche a distanza. Dopo Hiroshima e Nagasaki c’è stata una tregua di ripensamento, per gli impieghi degli ordigni nucleari. Ma saranno usati ancora, e con tutta probabilità molto presto, la terra lo sa bene, sa quanto durano gli effetti. Tornata la pace gli esseri umani sopravvissuti riprendono a vivere, voltano pagina, dimenticando il più in fretta possibile, con baldanzosa caparbia, come ci ha mostrato lo psicanalista James Hillmann. La terra non dimentica.

Fuori terra

Già da tempo si coltivano pomodori e cetrioli e peperoni e fragole e lamponi e altre specie in minuti contenitori, spesso vasetti di plastica, riempiti di torba, in genere in serre di plastica che permettono di affrancarsi in parte o completamento dall’inghippo delle stagioni. Torba che viene usata una sola volta, e poi gettata. Torba che un po’ alla volta si esaurisce, perché per formarsi le ci sono voluti migliaia di anni. Proviene dalle torbiere, ambienti di rara diversità di vita che vengono scavati e amputati, spesso lasciando pozze di acqua delle quali non si sa cosa fare. Si chiamano colture fuori terra. Sono di gran moda. Si dice che sono molto moderne, sono il futuro dell’agricoltura.

Dal punto di vista biecamente utilitaristico è più vantaggioso, usare la torba o altri materiali inerti che non hanno le esigenze e il caratterino della terra, i suoi malumori e le sue vendette. E che possono essere gettati una volta usati, con la noncuranza con la quale si volta una pagina. Ricominciando ogni volta da capo, senza preoccuparsi delle erbacce e della eccessiva compattezza e degli impoverimenti e degli equilibri dei microrganismi e degli altri esseri, senza darsi pensiero per il futuro. Trasformando finalmente l’agricoltura in un vero e proprio processo industriale, affrancato una volta per tutte dalle complicazione inutili di quella gran rompicoglioni che è la terra, da quella imprevedibile e bizzosa presuntuosa che è la natura.

In agricoltura gli olandesi sono sempre all’avanguardia, e con il loro fazzolettino da nulla, peraltro già fitto di allevamenti di maiali e di tulipani e altro, riescono a essere il secondo esportatore mondiale di verdura. C’è da non crederci. Nelle loro serre supertecnologiche i pomodori e le altre piante sono spinte a arrampicarsi in altitudine, su e sempre più su, in modo da risparmiare spazio, con il principio dei letti a castello. Per nutrire le pianticelle danno esattamente le quantità che servono di concimi chimici, diluiti nell’acqua, e qui il modello sono le flebo. E anche l’acqua, viene dosata con il contagocce, riciclando i troppo pieni: non buttano via nulla.

Invece della luce solare, non abbondante nei loro bigi inverni, e che comunque può fare le bizze anche d’estate, usano le lampade al led. Alle piante vanno bene anche quelle, come noi possiamo nutrirci di liofilizzati, se vogliamo. Consumano molto poco, si dice, e l’energia può venire da fonti pulite. Citando le economie di acqua e di concimi e la possibilità di usare energie pulite si strombazza allora che è il metodo più razionale e ecologico che esista, l’unico che evita gli sprechi e fa risparmiare. Si dovrebbe coltivare tutto così, si dice. È il sogno degli ingegneri, che amano che tutto sia controllo, e certo ancora più dei transumanisti, allergici ai limiti naturali.

Peccato solo che i concimi chimici siano prodotti con grandi quantità di petrolio. E peccato anche rinunciare al sole, che è gratuito, e fabbricare i pomodori e i peperoni usando substrati che richiedono energia per essere prodotti o estratti e impiegando delle lampade, e insomma dell’energia. Nei paesi freddini d’inverno le serre devono essere poi scaldate, e anche lì ci vuole molta energia. Ma gli olandesi non sono i soli, intendiamoci, e molte delle verdure dei supermercati vengono da lì.

Se quindi si facessero i calcoli, quasi nessuno li fa, si vedrebbe che per avere le chilocalorie contenute in un chilo di pomodori si impiegano le chilocalorie ( sotto forma di energie fossili ) contenute in un chilo e mezzo o due chili di pomodori: la resa energetica è negativa. Detto altrimenti si trasforma il petrolio, sempre lui, in oro rosso, in pomodori. Come è noto un procedimento può però essere economicamente molto vantaggioso anche se energeticamente disastroso, sono appunto le alchimie dell’economia. L’anno scorso si è però constatato che qualcosa non andava, quando con gli aumenti dei prezzi del gas le serre olandesi, prima molto redditizie, nuotavano in una crisi nera. Ma ora i prezzi si sono calmati, e via come prima per le autostrade ben asfaltate dell’economia miope alleata all’ecologia di facciata.

Certo, c’è l’energia cosiddetta pulita, ammesso che lo sia davvero, tenendo conto anche della fabbricazione degli apparecchi che la producono e del loro smaltimento. Si insiste molto su questo, quasi fosse la quadratura del cerchio. Ma forse è meglio utilizzarla per qualcosa d’altro, dove è davvero necessaria, e non si può farne a meno, quest’energia cosiddetta pulita, e fare i pomodori con il sole. Con il sole che è gratuito e con la terra, nonostante sia sporca, alla vecchia maniera. Senza petrolio per i concimi chimici, per le lampade al led, per riscaldare le serre l’inverno, per i pesticidi per contrastare i funghi che adorano gli umidumi delle serre, per costruire e distruggere gli apparecchi che danno le energie cosiddette pulite.

Forse è meglio mettere le radici dei pomodori nella terra, la quale si dà da fare pure lei gratuitamente. E anzi se curata bene da una mano, già che c’è, anche a concimare la pianta e a tenere sotto controllo parassiti e predoni vari. L’agricoltura è l’unica attività produttiva umana che sforna più energia di quanta ne richieda: grazie al miracolo della fotosintesi i raggi del sole si convertono, utilizzando i mattoncini dalla CO2 presa dall’aria, in materia vegetale. Foglie e fusti e frutti. Senza bisogno di pannelli solari o pale eoliche o altro. Solo con la terra.

E anzi le rese energetiche possono essere favolose, se pure la terra stessa dà il meglio di sé, e sgobba al risparmio, anche appunto fornendo materie prime e limitando gli attacchi esterni. Le agricolture che noi consideriamo molto arretrate sotto questo aspetto possono fare meraviglie. Ma anche quelle nostrane che fanno davvero attenzione a consumare poco, senza fingere o barare. In pieno bieco capitalismo globalizzato c’è ancora chi fa regali senza chiedere un compenso, e che non ha bisogno del mercato globalizzato. È un peccato che tanti metodi che si presentano come i più efficienti, in genere con il blasone delle alte tecnologie, sulle quali si fa adesso molto affidamento, abbiano spesso perso l’abitudine a fare caso e a accettare e a mettere in contabilità questi regali del sole e della terra.