Il dibattito sulla Questione Agricola in Francia
L’agricoltura francese e il suo posto nella società sono assai diversi da quelli italiani. Basti dire che in Francia nel 2020 sono state censite 389.000 aziende con una superficie media di 69 ettari mentre in Italia erano 1.133.000 con una superficie media di 11,1 ettari.
Tuttavia 60 anni di Politica Agricola Comune hanno lasciato il segno, come si è visto nelle recenti agitazioni dei “Trattori”, e molte delle questioni che si discutono oggi in Francia sono assai simili a quelle di cui ci si preoccupa in Italia. Ma, proprio per il maggior peso del mondo agricolo nella società e nella cultura francese, da loro il dibattito risulta molto ricco di spunti utili per capire quel che succede anche qui da noi.
Proponiamo quindi due interviste apparse recentemente sui media francesi.
Nella prima il sociologo del mondo rurale Bertrand Hervieu descrive, in una intervista a Le Monde, l’emergere senza rumore di potenti società agricole ai danni dei piccoli produttori e delle imprese familiari, e fornisce alcune importanti chiavi di lettura per comprendere le recenti agitazioni dei “Trattori”.
Hervieu è stato direttore di ricerca del CNRS e presidente del INRAE ( l’Istituto nazionale francese di ricerca per l’agricoltura, l’alimentazione e l’ambiente). Insieme a Francois Purseigle è autore di “Une agriculture sans agriculteurs”, 2022, ed. SciencesPo, che meriterà uno specifico approfondimento.
Nella seconda, pubblicata da Reporterre (un media indipendente che si occupa di ecologia in tutte le sue forme), il deputato europeo socialista Christophe Clergeau fa un’analisi politica dello stravolgimento che ha subito la PAC 2023-27. Questo ad opera di un’inedita maggioranza composta principalmente di liberali – destra – estrema destra al Parlamento europeo, ben diversa da quella che aveva portato alla strategia Farm2Fork e all’architettura “verde” della PAC negli anni scorsi. In tal senso l’intervista ( con i link che contiene ) ci permette di arguire cosa accadrebbe se, nelle prossime elezioni del Parlamento europeo, si affermasse una maggioranza simile, o diventasse comunque possibile uno spostamento a destra del baricentro politico dell’Unione europea anche a livello dei governi, come già avvenuto in Italia. E non solo in campo agricolo….
NON TUTTI GLI AGRICOLTORI SONO FRAGILI,
MA LA RI – COMPOSIZIONE IN CORSO FA
PIU’ VINTI CHE VINCITORI
intervista a Bertrand Hervieu – Le Monde 28/02/24
Le risposte decise dal governo possono calmare la collera degli agricoltori?
Le misure annunciate erano attese sudiversi aspetti, che si trattasse della semplificazione delle norme, dei cambiamenti negli indici di dosaggio dei pesticidi o della prospettiva di una nuova versione della legge Egalim ( legge per relazioni commerciali equilibrate nel settore agricolo e alimentare ). L’introduzione di prezzi minimi e le misure a favore delle tesorerie aziendali in difficoltà portano benefici diretti ai produttori di latte e carne, anche se il loro inserimento in una economia aperta solleva difficoltà di applicazione.
Il disagio e la richiesta di riconoscimento espressi in questa crisi vanno però ben oltre la portata di queste misure, che restano essenzialmente tecniche. Le risposte che danno non risolveranno la crisi profonda del settore.
Così come nessuno aveva previsto la repentinità e l’ampiezza della collera, nessuno può dire che la crisi sia finita. In primo luogo perchèi problemi di reddito e di liquidità degli allevatori di bovini e dei produttori di latte avranno necessariamente bisogno di tempo per essere sistemati. E soprattutto ci sono ragioni strutturali che hanno a che fare con la ri – composizione del mondo agricolo e del suo posto nella società francese, ultima tappa di quello che lo storico Fernand Braudel ha chiamato “il grande stravolgimento della Francia contadina”.
Come si caratterizza questa ri – composizione ?
In quarant’anni, il numero delle aziende è diminuito del 75%, e del 20% nel corso degli ultimi dieci anni. Il mondo agricolo è il solo settore professionale che in un secolo è passato da una maggioranza assoluta a una piccolissima minoranza.
Come ha mostrato il sociologo Henri Mendras (1927-2003), la civiltà contadina è scomparsa a cavallo deglianni ‘60 del Novecento. Le leggi Debré-Pisani hanno sancito il passaggio a una agricoltura moderna, aperta all’Europa e ai mercati, con la prima politica comune e la nascita dell’industria agroalimentare. Hanno fatto della Francia in una grande potenza agricola nel momento stesso in cui cessava di essere una società agraria.
Questa modernizzazione segna il trionfo della produttività del lavoro, ma si è realizzata al prezzo di una frattura sociale e ambientale di cui stiamo solo cominciando a renderci conto. Più della metà delle terre che si liberano oggi vanno a ingrandire aziende già esistenti, spesso in forme societarie. In base alle tendenze in corso, tra dieci anni ci saranno meno di 300.000 aziende.
Una parte degli agricoltori condivide un sentimento di vulnerabilità legato al proprio declino demografico. Vedono il loro mestiere trasformarsi e temono di sparire, soprattutto a beneficio di aziende aux allures de firme [ nuove forme di aggregazione fondiaria e di organizzazione produttiva – vedi: https://books.openedition.org/pufc/5713 ]
Dietro l’unità di facciata, la professione è attraversata da profonde disparità di reddito. Quali sono ?
Queste manifestazioni sono state un momento di affermazione identitaria molto forte, espressa attraverso il ricorso generalizzato alla parola “contadino” (paysan) che rimanda, nell’immaginario collettivo, a una relazione privilegiata di vicinanza con la terra e gli esseri viventi. Questo ideale della piccola fattoria familiare polivalente non ha più molto a che vedere con le pratiche della maggior parte degli agricoltori di oggi, ma resta molto forte nella società, che proietta sulla professione agricola le sue aspettative ambientali, alimentari e di paesaggio.
Gli agricoltori di oggi condividono una stessa inquietudine per l’avvenire ma hanno specializzazioni diverse e hanno interessi divergenti, a volte concorrenti. Non tutti sono fragili, assolutamente no. Ma la ristrutturazione in corso fa molti più vinti che vincitori.
Il ventaglio dei redditi è molto ampio: il reddito medio annuo è di 30.000 euro, ma il 10% dei più bassi sono negativi – in quel caso è il salario del congiunto che tiene in piedi la famiglia -, mentre il 10% di quelli più alti arrivano fino a 95 -125 mila euro.
Lei distingue tre categorie che sono venute fuori da questa diversa composizione. Chi sono i vincitori?
Sull’insieme delle 380.000 aziende che conta la Francia, il 10% occupa un quarto della superficie agricola utilizzata e fornisce circa il 30% della produzione totale. Queste grandi aziende che sono entrate in un processo di aggregrazione e di finanziarizzazione, costituiscono il solo gruppo che oggi aumenta di numero. Questa spettacolare concentrazione rispecchia l’emergere, senza troppo rumore, di un’agricoltura imprenditoriale potente, che negozia sui mercati mondiali e rifornisce l’industria agroalimentare e la grande distribuzione. I produttori di cereali, di maiali, di barbabietole e una parte dei viticoltori beneficiano di redditi assai confortevoli. Per costoro l’impegno nelle manifestazioni è soprattutto motivato dal desiderio che nulla cambi, e che soprattutto non cambi il modello di un’agricoltura produttivista, associata all’uso intensivo di fertilizzanti, di antibiotici e di pesticidi.
In che modo le altre categorie sono toccate dalla crisi?
Il secondo polo, il più numeroso, che raggruppa le aziende familiari nate dalla modernizzazione degli anni 1960, ha inizialmente tratto beneficio in materia di reddito dal modello produttivista. Ma oggi si ritrova al cuore della crisi: solo il 19% di loro continuano a fondarsi sul lavoro di una coppia, com’era generalmente il caso cinquant’anni fa. Questo modello rimane assai presente nella produzione di latte ma sta progressivamente scomparendo. I produttori di bovini nutriti “con l’erba”, peraltro essenziali per il mantenimento dei pascoli, hanno delle grandi difficoltà per quanto riguarda il reddito.
Infine, la terza polarità raggruppa quelli che vengono definiti i “neo contadini”: essi promuovono la policoltura, innovano nelle coltivazioni di nicchia, dell’orticoltura e dei piccoli allevamenti. Essi scelgono la vendita diretta, cercano dei legami di sussidiarietà con i loro vicini e le collettività territoriali di cui riforniscono le mense, valorizzano il senso del loro lavoro. Anche se rappresentano una piccola parte della produzione agricola, essi hanno per contro un ruolo culturale importante. Ma oggi soffrono anche loro. Gli agricoltori che si sono sforzati di passare al biologico sono direttamente colpiti dall’inflazione, che obbliga i consumatori a tornare a rivolgersi a dei prodotti meno cari.
Gli annunci del governo possono ribaltare queste tendenze?
Per il momento le risposte fornite vanno più nel senso del mantenimento delle dinamiche in atto piuttosto che in quello della loro correzione. I settori vincenti manifestano la loro solidarietà con le categorie in crisi, è del tutto normale, ma se le misure di sostegno s’indirizzano a tutti allo stesso modo, le disparità si approfondiranno ancora di più.
L’abbandono dell’indicatore NODU [numero di unità di dosi] per misurare l’impiego dei pesticidi è un cattivo segnale e un gioco di prestigio per continuare a usare le stesse quantità di pesticidi di prima. Se questo cambiamento può apparire legittimo dal punto di vista sindacale per difendere gli interessi a breve termine dei produttori francesi di fronte alla concorrenza europea e mondiale, va però a ritardare la scadenza di una transizione agroecologica, peraltro indispensabile, e ad aggravare la crisi a più lungo termine.
Come lei giudica il ruolo dei sindacati in questa vicenda?
Assistiamo a una escalation tra le forze sindacali in vista delle elezioni per le Chambres d’Agriculture [ organi consultivi destinati a sostenere lo sviluppo delle aziende agricole dove sono rappresentati tutti i diversi stakeholders ] previste per gennaio 2025. La FNSEA [Fédération nationale des syndicats d’exploitants agricoles – il sindacato maggioritario] et la Coordination rurale [ insieme a la Confederation paysanne e al Modef, uno degli altri sindacati agricoli ] cercano di spingere il più in alto possibile le loro rivendicazioni per guadagnare più voti. In questo contesto la Confederation paysanne e il Modef [Mouvement de défense des exploitants familiaux] fanno fatica a trovare il loro spazio.
Più in generale, questa crisi pone in modo acuto la questione della rappresentanza all’interno delle organizzazioni professionali. La posta in gioco è importante perché il settore dispone di un’armatura istituzionale densa e potente attraverso le Chambres de l’agriculture, le cooperative, gli istituti tecnici e di sviluppo, il Crédit agricole, l’assicuratore Groupama, le Safer [società di pianificazione fondiaria e di insediamento rurale].
Questa rete è presente su tutto il territorio. Essa rappresenta dei centri di potere e di influenza considerevoli che la FNSEA, sindacato maggioritario, non intende condividere, pur raccogliendo appena il 55% dei voti nelle elezioni professionali di un corpo elettorale in cui non vota più del 60% dei membri. Essa vuole rimanere l’unico interlocutore legittimo dei pubblici poteri. La nozione di pluralismo sindacale e, a maggior ragione, quello di coordinamento sindacale non riescono ad affermarsi nel settore agricolo.
Nel momento in cui le crisi ecologiche impongono dei cambiamenti, una transizione agroecologica è ancora possibile in un tale contesto?
E’ più che mai necessaria, ma essa impone di cambiare modello e questo vuol dire affrontare parecchi paradossi. Non si possono chiudere le nostre frontiere all’importazione e avere al contempo l’ambizione, innanzitutto, di essere una grande potenza esportatrice. Non si può volere un gran numero di agricoltori senza, al tempo stesso, prendere le misure necessarie per frenare l’ingrandimento illimitato delle aziende. La transizione agroecologica impone anche un nuovo approccio al mestiere di agricoltore, che non ha solo per missione quella di nutrirci. Egli è anche il gestore di uno spazio – la metà della superficie nazionale – che è un bene comune, il che implica la necessità di combinare la produzione di merci con quella di un ambiente ricco in termini di biodiversità, di qualità dei suoli e dell’acqua, e di fare in modo che egli sia retribuito anche per questo.
I poteri pubblici dispongono di leve importanti per orientare le pratiche agricole attraverso i budgets e le riduzioni di oneri di cui beneficia l’agricoltura. L’insieme di questi sostegni europei e nazionali rappresenta un ammontare di più di 13 miliardi di euro, destinati a 380.000 aziende.
L’Unione Europea, attraverso il Green Deal e la filosofia “dalla fattoria alla forchetta” (Farm to Fork) ha tracciato con chiarezza un percorso che questa crisi francese e europea mostra altresì chiaramente di non essere sufficientemente condiviso.
Si pone dunque di nuovo la questione di capire come realizzare la transizione verso un nuovo modello raccogliendo intorno a questo proposito una parte significativa dei primi interessati, gli agricoltori stessi.
La risposta non può essere solamente tecnica e scientifica, ma anche politica. Occorre dunque sostenere coloro che si sono impegnati in un percorso riuscito di transizione agroecologica e riprendere le negoziazioni a livello europeo
La destra svuota le misure verdi della Pac
Le norme ambientali della PAC sono state modificate con un voto d’urgenza da parte degli eurodeputati. “È una scelta che volta le spalle al futuro”, ha detto l’eurodeputato socialista Christophe Clergeau.
Più colture avide di pesticidi e fertilizzanti chimici e meno aree dedicate alla biodiversità. Ecco, in estrema sintesi, ciò che gli eurodeputati hanno votato con urgenza martedì 23 e mercoledì 24 aprile. Una maggioranza composta principalmente da eurodeputati liberali, di destra e di estrema destra ha approvato le modifiche alle norme ambientali della PAC – Politica Agricola Comune. Una politica che rappresenta un terzo del bilancio dell’Unione Europea, 9 miliardi di euro all’anno distribuiti ogni anno agli agricoltori francesi. E che potrebbe, se i leader politici lo volessero, rendere la nostra agricoltura rispettosa della vita e del clima, continuando a nutrirci.
Alla fine, è probabile che accada il contrario. Sarà agevolata la lavorazione dei prati permanenti, ricchi di biodiversità. L’obbligo di destinare il 4% dei terreni agricoli a stagni, siepi o maggese, piccoli spazi così utili alla vita e all’agricoltura è stato spazzato via. Le aziende agricole con meno di 10 ettari saranno esentate dai controlli su queste norme ambientali. Le regole di rotazione delle colture saranno allentate. Uno “smantellamento” denunciato dall’eurodeputato socialista Christophe Clergeau.
Reporterre — Due mesi sono stati sufficienti perché tutte le istituzioni dell’Unione europea adottassero misure favorevoli all’agroalimentare. Pensavate che fosse possibile cambiare così rapidamente i criteri ambientali della PAC?
Christophe Clergeau – No. Queste decisioni sono state prese in fretta, senza studio d’impatto, senza consultazioni, alla cieca. La Via Campesina, le ONG ambientaliste, gli scienziati, non sono stati coinvolti nel lavoro della Commissione Europea. Ciò è avvenuto nella massima segretezza tra gli Stati membri, la Commissione e il Copa-Cogeca [ l’organizzazione maggioritaria degli agricoltori e delle cooperative agricole in Europa, una lobby potente che rappresenta gli interessi dell’agricoltura industriale].
Inoltre, lunedì 22 aprile, i Verdi, con l’appoggio di gran parte della sinistra e del gruppo socialista, avevano chiesto un dibattito in plenaria su questa riforma della PAC. Questo è stato rifiutato da un voto congiunto dell’estrema destra, del PPE [Partito popolare europeo, centrodestra] e dei centristi. In tal modo, i promotori di questa riforma si sono rifiutati di consentirne la discussione in seno al Parlamento europeo. Il che è paradossale. Di che cosa si vergognano? Di che cosa non vogliono prendersi la responsabilità?
In che senso queste votazioni comportano dei passi indietro ambientali?
È un argomento un po’ tecnico. Per le praterie, la regola è che non è consentito ridurle di oltre il 5% rispetto all’anno base. In questo caso si lascia agli Stati membri la possibilità di modificare l’anno di riferimento. Ovviamente, se si cambia l’anno base, si cambiano le regole del gioco e si incita a rivoltare le praterie [cioè a trasformarle in coltivi]. Orbene le praterie permanenti sono pozzi di carbonio, sono i suoli con più vita, con più biodiversità, lombrichi, ecc.
Un secondo elemento importante è l’obbligo di avere almeno il 4% dei terreni agricoli dedicati a argini, alberi isolati, stagni, terre a riposo, ecc. Praticamente ci rinunciamo perché diciamo che non è più un obbligo. Ciascuno Stato potrà scegliere di sostenere queste aree come preferisce.
D’altra parte, le aziende agricole miste con policoltura e allevamento e le aziende zootecniche che siano un minimo estensive rispettano già la regola del 4%. Ancora una volta, abbandonare questo vincolo su stagni, alberi isolati, siepi, argini di fiumi e ruscelli, è di reale interesse solo per chi fa seminativi.
Perché ritiene che la risposta dell’Unione europea alla crisi agricola sia inadeguata?
La prima richiesta dei contadini è stata quella di un reddito dignitoso. E di una visibilità sulle condizioni economiche in cui svolgono il loro lavoro. A questa domanda non c’è risposta. A essere presi in giro sono gli allevatori e le piccole e medie aziende agricole. A trionfare sono le grandi colture cerealicole, quelle grandissime aziende agricole che già oggi ricevono la maggior parte degli aiuti della PAC e che guidano i sindacati e le lobby agricole a livello nazionale ed europeo. C’è un fantastico gioco degli inganni: gli agricoltori che hanno manifestato per un aumento del loro reddito vengono strumentalizzati per ridurre i vincoli ambientali dei principali beneficiari della PAC.
Va ricordato, peraltro, che questa PAC, quando è stata adottata, era già un cattivo compromesso. Non c’è alcun cambiamento nel modello. Le sovvenzioni continuano ad essere concesse in base al numero di ettari, senza una forte regolamentazione dei mercati. Si tratta di una PAC liberista che incoraggia l’espansione delle aziende agricole e non garantisce il reddito degli agricoltori. Le norme ambientali della PAC avrebbero dovuto essere la contropartita di tutto questo. Questo compromesso, che non era già dei migliori, è stato fatto saltare. Stiamo abbandonando le poche leve che permettevano di garantire un impatto più positivo dell’agricoltura sulla biodiversità, sull’ambiente e sui territori. È un passo indietro.
La Commissione europea giustifica queste misure con la necessità di “semplificare” le norme che si applicano agli agricoltori. Non è effettivamente necessario?
Trasformare più facilmente le praterie, non dover più tenere conto delle aree agroecologiche della propria azienda agricola, possiamo considerare queste delle semplificazioni? Invece non vedo alcuna semplificazione delle procedure amministrative o riduzione dei vincoli di gestione. Quello che vedo è che le condizionalità ecologiche della PAC sono indebolite. Io lo chiamo smantellamento. È una scelta che volta le spalle al futuro. Invece di sostenere meglio gli agricoltori verso l’agroecologia, stiamo dando il segnale che si può tornare indietro.
Adesso che è stato votato, che cosa succede?
Sarà un vero casino. Temo che ci saranno molte divergenze tra gli Stati membri nell’attuazione di questa riforma e che ci sarà molta confusione ed errori sul campo legati alla mancanza di preparazione di questa riforma e alla difficoltà per le amministrazioni, le camere dell’agricoltura e, soprattutto, per gli agricoltori, di adottarla.
Nelle prossime settimane gli agricoltori presenteranno le loro domande per la PAC. Sono le aziende agricole più strutturate, meglio organizzate e con la maggiore capacità amministrativa, che potranno trarre vantaggio da queste misure. Le piccole aziende agricole saranno sopraffatte da tutte queste nuove informazioni amministrative. Ci sarà una profonda disuguaglianza tra gli agricoltori.
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Sebbene ci siano differenze importanti fra la Francia e l’Italia nella sua conformazione orografica,(l’Italia è caratterizzata da un territorio prevalentemente collinare (41,6% della superficie complessiva), (35,%) di montagna (23,2%di pianura) mentre la Francia è prevalentemente pianeggiante e nella composizione della struttura socio-economica del settore agroalimentare , è chiaro che le tendenze in atto nella composizione delle aziende agricole francesi accrescendo la loro dimensione di superficie la finanziarizzazione delle stesse sarà il modello che sarà seguito in Italia. La cosiddetta rivolta degli agricoltori per mantenere immutato o quasi il modello produttivo attuale basato su enormi trasferimenti finanziari a favore di una sempre decrescente frazione di imprese agricole sarà seguito anche in Italia con conseguente sempre più gravi su clima e ambiente. Ma nella presentazione di quanto avviene in Francia manca quasi completamente il ruolo delle imprese di trasformazione dei prodotti alimentari e del ruolo dominante della Grande Distribuzione Organizzata( GDO) . Inoltre non viene discusso il ruolo che potrebbero avere i consumatori che sempre più pagano le attuali tendenze sia sul piano della salute che dell’ambiente.
Mi auguro che l’iniziativa del 6 maggio all’Università di Milano ponga la base per una discussione che abbia come interlocutori sia i piccoli produttori che i consumatori perchè questi ultimi assumano più il ruolo di citadini