Innovazione tecnologica nel biologico: il caso Con Marche Bio

Febbraio 22, 2025 1 Di storiedelbio

Di questi tempi si fa un gran parlare di smart farming, di applicazioni A.I., di agricoltura di precisione e quant’altro. Tutto ciò ha una sua logica nell’ambito dell’agricoltura industriale-convenzionale ma poco si sa e si conosce circa la loro applicazione nell’ambio delle agricolture bio. Sappiamo bene che l’impatto dell’innovazione tecnologica dipende, anche nel biologico, da molti fattori quali il tipo di coltura, le forme di conduzione, il sistema colturale, le dimensioni dell’azienda agricola e la complessità della filiera in cui è inserita, solo per citare alcuni. Piuttosto che lanciarci in astratte teorizzazioni e in indebite generalizzazioni, abbiamo quindi preferito analizzare un caso concreto come quello del Consorzio Marche Biologiche che rappresenta una realtà agricola assai significativa non solo per le Marche. Lo scopo è quello di capire quali siano, in un caso come questo, la portata e gli ambiti di applicazione dell’innovazione tecnologica.

Il Consorzio è frutto di una esperienza che affonda le sue radici nella storia del biologico, in quella che oggi si chiama cooperativa Girolomoni, ma che nasce nel 1977 come cooperativa Alce Nero ad opera di Gino Girolomoni. Le cooperative Girolomoni e Montebello di cui si parla nell’intervista riportata qui di seguito sono entrambe cooperative agricole a mutualità prevalente. Insieme rappresentano una filiera completa, dal seme alla tavola, che riassume in sé lo straordinario concentrato di saperi contenuto in un prodotto apparentemente semplice come la pasta. Realtà tanto più interessante dal momento che ha dato vita, insieme ad altri, alla fondazione Seminare il Futuro che si occupa di produrre semi specificamente creati per l’agricoltura biologica. Un ulteriore motivo di interesse è che la cooperativa Montebello raggruppa un notevole numero di aziende agricole delle più diverse dimensioni. Senza dimenticare che, insieme alla cooperativa La Terra e il Cielo (anche essa socia del Consorzio Marche Biologiche), sono realtà molto apprezzate anche a livello internazionale, che hanno ricevuto numerosi riconoscimenti come lo EU Organic Award .

Francesco Torriani, agronomo, responsabile della Montebello Cooperativa Agrobiologica (parte dell’ecosistema Girolomoni), è presidente del Consorzio Marche Biologiche oltre che Presidente nazionale del settore biologico di Confcooperative.

Recentemente Biobank ha pubblicato una sua interessante presa di posizione sulle sfide che deve affrontare oggi il biologico.


L’innovazione tecnologica deve andare di pari passo con quella organizzativa


intervista a Francesco Torriani *

Si parla molto di innovazione tecnologica in agricoltura. Penso che l’esperienza di un’azienda biologica come la vostra, pur con le sue particolarità, possa essere di grande interesse. Puoi raccontare come avete proceduto in questo campo?

Nel 2015 abbiamo iniziato a riflettere su come digitalizzare la nostra filiera. Siamo partiti con il progetto Biocereals4.0, finanziato nell’ambito della sottomisura 16.1 del PSR Marche, coinvolgendo l’Università Politecnica delle Marche come partner scientifico e Apra Var come partner tecnologico.

Girolomoni è la cooperativa che trasforma e commercializza i nostri prodotti, mentre Montebello è la cooperativa che si occupa principalmente della fase agricola, gestendo le aziende agricole aderenti alla filiera. Il lavoro principale della Cooperativa Montebello inizia con la programmazione delle semine: a settembre si organizzano incontri con le aziende agricole per la pianificazione delle semine autunno-vernine, mentre a marzo si pianificano le semine primaverili. Durante questi incontri vengono presentati gli obiettivi di semina per ogni tipologia di coltura, fornite indicazioni tecniche di carattere agronomico per la coltivazione, illustrato l’impegno-contratto annuale di coltivazione e spiegati i dettagli logistici per il conferimento presso i centri di stoccaggio.

Puoi darci qualche numero?

Se si considerano tutte le aziende agricole che hanno conferito alla Montebello Cooperativa Agrobiologica negli ultimi 3 anni il loro numero ammonta a 523, di cui oltre l’80% si trovano nelle Marche, le altre in Emilia-Romagna, Umbria, Lazio e Toscana.

Quest’anno abbiamo fatto un programma di semina di circa 8.000 ettari.

Se dovessimo considerare la SAU totale di tutte queste 523 aziende si supererebbero i 35.000 ettari. La dimensione delle aziende però è molto variabile: si passa da quelle più piccole, di 5-10 ettari, a quelle che superano i 300 ettari. Le ultime aziende che sono entrate nel biologico sono mediamente di dimensioni maggiori e più strutturate.

Torniamo ai vostri progetti

Il progetto Biocereals4.0 è nato con l’obiettivo di rendere più efficiente la gestione delle aziende agricole biologiche cerealicole marchigiane, attraverso le tecnologie dell’agricoltura di precisione e la digitalizzazione della filiera. Favorire la digitalizzazione allo scopo di migliorare la sostenibilità economica e ambientale dei prodotti e assicurare le esigenze del consumatore in termini di sicurezza, tracciabilità e affidabilità.

La nostra gestione delle aziende agricole inizia con la programmazione delle semine, continua con il monitoraggio delle colture e termina con il conferimento presso i vari centri di stoccaggio. In passato l’azienda agricola compilava, insieme al tecnico incaricato, un modello cartaceo in cui si impegnava a seminare una certa superficie. Oggi, questo modello viene semplicemente utilizzato come brogliaccio di lavoro per prendere appunti durante l’incontro tra l’azienda agricola e il tecnico della cooperativa. Successivamente, il tecnico carica i dati su QualiWare, un software gestionale interno per il monitoraggio documentale e qualitativo, che ci consente di inserire e gestire le programmazioni delle aziende. In futuro questi dati potrebbero essere integrati con quelli catastali degli appezzamenti, permettendo di referenziare direttamente le produzioni. Una volta caricati i dati, il gestionale genera automaticamente un “impegno – contratto annuale di coltivazione”, che in passato veniva compilato a mano. Questo impegno è, come suggerisce il nome, l’impegno dell’azienda agricola al conferimento alla Cooperativa e, allo stesso tempo, l’impegno della Cooperativa a ritirare quanto seminato dall’azienda. Spesso, l’impegno annuale è legato ad un Contratto di Filiera triennale o quinquennale, secondo le diverse misure, regolamenti o DM ministeriali. Ad esempio, chi coltiva grano duro all’interno della nostra Filiera, grazie all’impegno annuale, può accedere al cosiddetto “DM Grano Duro”, una misura che offre un contributo a superficie fino a 100 €/ha a patto che si utilizzi semente certificata CREA (biologica o convenzionale) per almeno 150 kg/ha.

Quando l’azienda agricola programma le semine si genera automaticamente un fabbisogno di mezzi tecnici, come sementi, fertilizzanti e, se necessario, concianti. Come cooperativa siamo in grado di soddisfare tali necessità. Dopo aver programmato le semine autunno-vernine ed, eventualmente, quelle primaverili, il tecnico della cooperativa avrà sul suo PC tutte le informazioni necessarie per la visita delle colture oggetto del contratto.

Ogni tecnico ha un numero specifico di aziende da visitare, che dipende dalla sua disponibilità e dal livello di esperienza. La rilevazione dei dati del monitoraggio, che prima veniva fatta su una checklist cartacea, ora è completamente digitalizzata. Il tecnico rileva gli elementi principali di ciascuna azienda, le caratteristiche delle coltivazioni ed eventualmente la presenza di criticità, come infestanti o attacchi parassitari. Inoltre, verifica la conformità ai requisiti per la certificazione biologica, registrando se sono stati usati semi biologici, se la documentazione è aggiornata e se ci sono diffide o non conformità dagli organismi di controllo.

Al termine della visita, una volta inserite tutte le informazioni richieste nel sistema, viene assegnato un “semaforo” a tre colori: verde, giallo o rosso. Il verde indica che l’azienda può conferire senza problemi; il giallo significa che l’azienda può conferire ma ci sono alcune questioni burocratiche da risolvere; il rosso segnala che l’azienda non può conferire, ad esempio per problemi legati alla certificazione, al periodo di conversione, alla contaminazione o alla non conformità con il metodo biologico. Durante tutte le visite, i tecnici prelevano campioni di pianta e/o terreno che vengono analizzati secondo un criterio prestabilito tra la Cooperativa e i Tecnici. In questo modo garantiamo che al momento del conferimento presso il centro di stoccaggio tutto sia in regola. In passato tutte queste attività venivano gestite tramite fogli Excel e checklist cartacee, ad oggi la gestione è completamente digitalizzata.

La terza parte del progetto riguarda la raccolta delle colture e il conferimento nei centri di stoccaggio. Nelle Marche stocchiamo in 9 centri; ad ogni azienda agricola viene assegnato un centro di stoccaggio in base alla distanza, alla tipologia di coltura e alla quantità prevista. Lo stoccatore e la cooperativa monitorano e verificano tutte le consegne in tempo reale, rilevando la tipologia di prodotto, le quantità, la qualità e la presenza di eventuali problematiche. Grazie alla digitalizzazione, se la merce e/o il fornitore non rispettano gli impegni previsti, si mette in atto un’azione di verifica.

La vostra nuova varietà per il biologico l’avete già in produzione?

Da anni stiamo investendo nel biobreeding, ossia nella selezione di nuove varietà adatte al metodo biologico. Attualmente, abbiamo due varietà registrate di grano duro: “Inizio” e “Prossimo”. Quest’anno, per la prima volta, abbiamo diverse decine di ettari di grano duro Inizio destinati alla macina, ovvero alla molitura e alla successiva produzione di pasta, mentre la varietà Prossimo è ancora destinata alla moltiplicazione del seme.

Puoi spiegare come avviene lo stoccaggio?

La modalità di stoccaggio dipende dalle caratteristiche del centro. Gran parte del nostro grano viene stoccato in silos o celle. Le aziende che ci conferiscono i prodotti fanno tutte parte della filiera (sia socie che non socie), pertanto ricevono la visita di monitoraggio da parte di un nostro tecnico che ne ha valutato l’idoneità al conferimento. Nel nostro centro principale di stoccaggio abbiamo la possibilità di segregare il grano duro in base al peso specifico e al livello proteico.

Tornando al progetto Biocereals4.0, una volta stoccato, il cereale deve essere trasferito per la molitura. Il gestionale organizza il trasferimento della granella presso il molino Girolomoni in base alla qualità del grano conferito, realizzando miscele in funzione del contenuto proteico e di altri parametri qualitativi. Ad esempio, se in un silo la media delle proteine è molto buona rispetto alla media bassa di un altro silo, il trasferimento viene organizzato in modo da ottenere una media di coacervo adatta per la molitura.

Infine, il progetto Biocereals4.0 prevedeva anche l’implementazione di un Sistema di Supporto alle Decisioni (DSS) a livello dell’azienda agricola. È qui che sono emerse le principali criticità. Mentre la prima parte del progetto, che coinvolgeva formalmente solo 10 aziende pilota, è stata estesa a tutte le 500 aziende aderenti alla filiera Montebello&Girolomoni e tutt’ora operiamo secondo quel modello di lavoro anche a progetto finito; la seconda parte invece, che riguardava le 10 aziende agricole coinvolte nell’installazione di un software gestionale, ha visto una cessazione dell’uso del sistema una volta concluso il progetto.

Il progetto ha messo in evidenza che, per l’implementazione di un DSS, è necessario che l’imprenditore agricolo sia predisposto alla digitalizzazione, che ci sia la presenza di un agronomo esperto per accompagnare l’azienda nell’utilizzo delle potenzialità del sistema e che venga semplificato il caricamento dei dati e la successiva interoperabilità con altri applicativi/gestionali.

Puoi spiegare come funziona questo gestionale?

Quest’ultimo è un software per la gestione digitale del quaderno di campagna che grazie al DSS fornisce indicazioni sulla gestione agronomica ed economica dell’azienda stessa. Si tratta di un sistema in cui, prima di tutto, devono essere caricati tutti i dati catastali dell’azienda, in modo che, quando si accede tramite le schermate grafiche, si possano visualizzare gli appezzamenti, le loro dimensioni, la destinazione colturale, ecc. Dopodiché si esegue un censimento del parco macchine/attrezzature sulle quali vanno applicati i sistemi di tracciamento, per l’automatica registrazione delle operazioni colturali. In ultimo è necessario caricare e scaricare il magazzino con i mezzi tecnici utilizzati in azienda, a seconda che si eseguano operazioni quali, per esempio, la semina o la concimazione. Una volta inseriti tutti i parametri e le “anagrafiche” di base, il sistema ti permette di gestire sia gli aspetti agronomici, verificando per esempio la conformità dei prodotti utilizzati rispetto al metodo biologico, sia economici, producendo conti economici estraibili per coltura, per appezzamento o per raggruppamenti diversi. Con il DSS è possibile compiere interventi mirati migliorando l’uso delle risorse e la resa delle coltivazioni.

Di solito si dice che la difficoltà sta proprio nell’utente. Intanto perché magari le interfacce non sono così friendly, e poi c’è un problema di cultura economica e informatica, di motivazione dell’utente. Non so se questo corrisponde anche alla vostra esperienza…

Un DSS non è una bacchetta magica. Nel biologico, infatti, non è come nell’agricoltura convenzionale, dove la tempestività e il dosaggio dei trattamenti sono particolarmente cruciali. Nel biologico, la chiave del successo è una solida prevenzione. Si deve partire dalle fondamenta, come una rotazione ampia, la cura del terreno per mantenerlo fertile, la scelta di varietà adatte, l’adozione di tecniche di minima lavorazione e la gestione meccanica delle infestanti, ecc. Il monitoraggio delle colture non serve solo per intervenire quando si presenta un problema e risolverlo con un mezzo tecnico. Certo, anche questo è importante, ma non è così determinante come nell’agricoltura convenzionale. Per noi, il monitoraggio è fondamentale anche per fare previsioni di resa, per capire se stiamo centrando gli obiettivi produttivi o se è necessario mettere in atto strategie commerciali diverse. Avere questi dati con un mese di anticipo rispetto alla raccolta potrebbe, in alcuni casi, fare la differenza.

Quanto tempo è durata la sperimentazione?

Il progetto Biocereals4.0 è durato tre anni dopodiché è stato integrato con un altro progetto, Si-Riparte, sempre ai sensi della sottomisura 16.1 del Piano di Sviluppo Rurale (PSR) Marche, che di fatto è andato a rispondere a quelle criticità che erano emerse nel progetto precedente, ovvero: imprenditori agricoli non nativi digitali, difficoltà nel caricamento dei dati e necessità di agronomi esperti che accompagnino le aziende pilota.

Ma per aver l’agronomo l’azienda dev’essere di grandi dimensioni…

Nel secondo progetto, abbiamo previsto la presenza di due agronomi esperti, incaricati di seguire le aziende agricole pilota. Per facilitare il caricamento dei dati all’interno del software, abbiamo introdotto un dispositivo a bassa interazione, pensato per imprenditori “non nativi digitali”. Questi dispositivi sono stati installati sulle trattrici e sulle attrezzature, e sono in grado di geo-referenziare e registrare le varie operazioni svolte in campo. Così, abbiamo risolto il problema dell’agronomo e, almeno in parte, quello del caricamento dei dati. Tuttavia, oggi ci si presenta un nuovo problema: l’integrazione di questo lavoro, quindi del registro di campagna digitale, con i Centri di Assistenza Agricola (CAA).

E quindi adesso cosa succede?

Noi andremo avanti su questa strada soprattutto perché questi aspetti innovativi interessano soprattutto le aziende di medie-piccole dimensioni che non sono in grado di innovarsi autonomamente, verso le quali la cooperazione potrebbe essere uno strumento particolarmente utile. Le aziende agricole strutturate vanno avanti da sole e sono anche in una posizione di forza rispetto ai CAA. Si deve tener presente che il 50% delle aziende agricole italiane ha meno di 3 ettari e il 75% delle aziende italiane ha meno di 10 ettari. Sono le realtà cooperative come le nostre che, con un po’ di fatica, cercano di portarsi dietro il mondo agricolo e di fare ragionamenti sull’innovazione.

Ma queste aziende medio-piccole sono veramente dei produttori o sono dei rentier fondiari che si affidano ai contoterzisti?

In un contesto in cui non conviene più fare l’imprenditore agricolo, molti proprietari terrieri hanno ceduto la loro terra ai contoterzisti. In alcuni casi, i contratti erano regolari, mentre in altri il costo dell’affitto equivaleva al contributo PAC. Il fenomeno del contoterzismo esiste e, nelle nostre zone, una politica a difesa delle piccole aziende ha, paradossalmente, favorito i contoterzisti. Che cosa si può fare con un’azienda di 3 ettari? Bisognava stimolare l’aggregazione sia per quanto riguarda i conferimenti delle produzioni che la gestione dei terreni. Il contributo a superficie previsto dalla PAC dovrebbe essere visto come un’integrazione al reddito dell’imprenditore, non come una rendita fondiaria.

Torniamo al vostro sistema documentale. Come avete trattato il discorso della certificazione?

Una volta che l’azienda è caricata nel nostro gestionale, quando l’agronomo effettua il monitoraggio agronomico verifica anche la situazione documentale. Oggi, comunque, il certificato biologico può essere scaricato direttamente da una piattaforma pubblica e dedicata senza doverlo richiedere all’azienda. L’agronomo utilizza un sistema semaforico: se clicca sul verde, significa che l’azienda può conferire, ossia che tutto è a posto anche dal punto di vista della certificazione. Va anche sottolineato che abbiamo ottenuto la certificazione etica dalla World Fair Trade Organization; pertanto, il tecnico in sede di monitoraggio deve valutare anche quegli specifici parametri nelle apposite check-list.

Per la certificazione bio come vi regolate?

Ogni azienda ha il certificatore che preferisce. Abbiamo anche valutato la possibilità di attivare la Certificazione di Gruppo, ma così come è stata impostata per l’Italia, risulta impraticabile. Sono stati introdotti limiti, come una superficie massima di 5 ettari per azienda o un limite di fatturato. Di fatto, il sistema di certificazione di gruppo è stato reso talmente restrittivo che non è utilizzabile. Anche questa modalità probabilmente potrebbe essere un’opportunità per sostenere il tessuto delle cosiddette piccole aziende. Tuttavia, pretendere che le aziende si mettano insieme solo per ottenere la certificazione è un’aspettativa ingenua. Dal punto di vista operativo, le aziende che si uniscono devono attivare un ufficio qualità interno capace di fare il monitoraggio, questo può avvenire solo se c’è un progetto d’impresa, se c’è una cooperativa o una filiera che punta a entrare in un mercato in modo integrato. Altrimenti, non è possibile sostenere un ufficio qualità solo per la certificazione. Quando ci si approccia alla normativa con un atteggiamento ideologico si rischiano danni enormi. È giusto sostenere la piccola azienda ma bisogna anche stabilire degli indicatori economici, altrimenti si rischia di produrre un effetto contrario a quello voluto.

Ritenete di essere riusciti a rivolvere tutti i problemi posti dalle vostre innovazioni?

Sì, ma a livello sperimentale. Il tema della transizione tecnologica mette in discussione il modello di impresa. Il modello organizzativo dell’azienda agricola singola, così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, non è in grado di sfruttare queste opportunità tecnologiche. Parlo dell’impresa agricola: l’imprenditore dovrebbe essere un supereroe. Dovrebbe sapere tutto di marketing, normativa, digitalizzazione, ma stiamo parlando di situazioni che riguardano meno del 10% delle aziende agricole. Ricordo che in Italia il 75% delle aziende agricole ha meno di 10 ettari di terra. Anche da questo punto di vista l’aggregazione, se ben attuata, può essere un modello in grado di affrontare la transizione tecnologica con successo.

In Francia si parla di agricoltura senza agricoltori. Proliferano le grandi aziende di capitali. Noi abbiamo questo fenomeno dei contoterzisti…

L’agricoltura senza agricoltori lascia spazio a un’agricoltura speculativa.

Noi, ancora solo a livello interno, stiamo pensando a una Cooperativa di Conduzione Terreni che sarebbe molto utile in quelle situazioni, ormai molto diffuse, in cui l’imprenditore è anziano e/o non ha parenti interessati a continuare la gestione. In Italia ci sono esperienze anche positive.

Secondo te quali sono i vincoli più importanti all’introduzione delle nuove tecnologie:dimensionali, economico-finanziari, colturali o culturali?

Per poter utilizzare queste tecnologie è necessario avere un imprenditore, che nel nostro caso è la Cooperativa, con obiettivi chiari, tra cui quello di accompagnare la crescita dei propri soci. Tuttavia, nel fare questo, abbiamo riscontrato alcune criticità legate al fatto che per sfruttare appieno queste tecnologie, l’azienda debba essere più professionale. “Professionale” non significa necessariamente che debba esserci un giovane imprenditore, ma che l’azienda debba avere una certa struttura e competenza. L’età giovane può essere un vantaggio, così come la presenza di un consulente. Quando un’azienda può permettersi un consulente – anche se magari finanziato da un contributo pubblico – significa che ha una dimensione tale da poterlo fare. La Cooperativa, d’altra parte, è in grado di supportare anche le aziende più piccole che non possono permettersi un consulente, facendosi carico di questo onere. Questo rappresenta la funzione sociale del mondo cooperativo. Quindi, come dico spesso, anche il futuro delle piccole aziende passa attraverso la capacità di fare rete e di fare sistema. Altrimenti non vedo alternative. La protesta può essere legittima, ma deve essere accompagnata con delle proposte realistiche. La politica ti offre alcune opportunità, ma sta a te capire come organizzarti per poterle sfruttare al meglio.

Ma perché ci siamo impegnati in tutto questo? Alla fine, lo scopo della digitalizzazione che abbiamo sviluppato per i fini produttivi è, in modo molto semplice, raccogliere un grano certificato, monitorato e di buona qualità. Se tutte queste informazioni sono digitalizzate, il nostro lavoro diventa molto più semplice.

Una cosa che è abbastanza evidente e fa la differenza è la tempestività con cui riceviamo i dati. Ad esempio, se parliamo di programmazione delle semine, quando usavamo fogli Excel o e-mail, spesso arrivavamo a maggio senza sapere con precisione quanti ettari erano stati seminati. Ora, grazie anche ad alcune scadenze, a dicembre sappiamo già gli ettari seminati. Lo stesso vale per le previsioni di resa.

L’ultimo punto per andare avanti è che dobbiamo fare in modo che i dati caricati ai fini produttivi siano disponibili anche per gli adempimenti legati alla politica agricola e alla certificazione. È quindi fondamentale integrare l’utilizzo di queste informazioni, e questa è un’altra sfida che vogliamo affrontare.

Quali saranno le prossime tappe?

Le prossime tappe saranno focalizzate sul proseguimento dell’innovazione tecnologica e del biobreeding, anche perché le tecnologie legate agli OGM continueranno ad avanzare. Il nostro obiettivo è proseguire con gli investimenti su ciò che è essenziale per l’azienda agricola, per garantirne la sostenibilità. Ciò che facciamo in ambito innovazione è pensato per offrire servizi concreti all’azienda agricola, senza i quali rischia di non sopravvivere. La nostra visione è investire nell’impresa agricola attraverso innovazione, digitalizzazione e bio-breeding, per sviluppare varietà produttive ad alte performance, non solo per l’agricoltura biologica. Quando creiamo varietà che devono affrontare le sfide dei cambiamenti climatici o che richiedono minori quantità di azoto rispetto alle varietà moderne, lo facciamo con l’orientamento del biologico, ma il risultato è comunque utile anche per l’agricoltura che mira a ridurre l’uso di input chimici. Questo approccio si allinea con l’obiettivo di promuovere un’agricoltura più sostenibile, indirizzandoci verso soluzioni che rispondano alle esigenze di un settore agricolo sempre più attento alla sostenibilità.

Perchè non accettate l’innovazione tecnologica nel breeding? Il breeding tradizionale ha tempi lunghissimi, invece con le TEA…

Io dico sempre che fare agricoltura e produrre cibo non è come fare bulloni. Bisogna avere ben chiaro il concetto di produttività e, soprattutto, di distintività. Dobbiamo preservare una distintività, una visione, un’identità nella nostra agricoltura. Il cibo è cultura, è visione. Non possiamo pensare che, se una soluzione tecnica o scientifica è teoricamente possibile, allora dobbiamo applicarla automaticamente.

Dobbiamo preservare la distintività dell’agricoltura biologica e le bussole per fare questo sono contenute nei principi dell’agroecologia.

Il biologico ha anche altre ragioni per distinguersi…

È ovvio che ci sono anche altre ragioni per distinguersi. Però noi dobbiamo mantenere questa distintività. Dobbiamo farlo affrontando il tema della produttività, altrimenti rischiamo di essere spazzati via. Non possiamo fare battaglie contro gli OGM e allo stesso tempo non investire niente nel miglioramento genetico, fare agricoltura biologica utilizzando varietà convenzionali in deroga (cosa che il 90% degli agricoltori fa) o, come nel nostro caso, utilizzando le cosiddette varietà antiche recuperate. È un’opzione interessantissima, ma sappiamo che si tratta di una nicchia. E come tutte le nicchie, vanno gestite come tali perché, se si pretende di trasferire nel mercato globale quello che viene fatto nella nicchia prima o poi si entra in “contraddizione”: non si avrebbero le quantità di prodotto per soddisfare il mercato globale e i prezzi calerebbero al punto da non rendere più conveniente la coltivazione.

Quest’anno abbiamo registrato “Graziella Ra” la prima varietà di grano Khorasan. È un grano che si coltiva in zone con fertilità media o media-bassa, in collina, ricche di scheletro. Nelle zone produttive tende ad allettarsi compromettendo il raccolto.

Come mai il Khorasan? Volete fare concorrenza al Kamut?

Il Kamut è un nome commerciale. Noi siamo partiti da una popolazione e l’abbiamo selezionata e caratterizzata. C’erano diverse linee pure, ne abbiamo selezionate alcune, le abbiamo moltiplicate tramite selezione massale e le abbiamo stabilizzate. Successivamente il CREA ha eseguito le prove di uniformità, stabilità e omogeneità, che sono state superate con successo unitamente alle prove agronomiche produttive. A tutti gli effetti, è appena uscito il decreto di registrazione del CREA.

Noi siamo convinti che siano necessarie politiche differenziate per le aree interne e i contesti marginali. Le varietà di Khorasan o di farro sicuramente hanno un loro valore. Tuttavia, se vogliamo raggiungere gli obiettivi della Farm to Fork dobbiamo utilizzare varietà diverse, più adatte a quelle specifiche esigenze.

Tu come vedi il discorso delsapere contadino?Non si va anche nel biologico verso un mondo dove alla fine tutto è affidato a una mente esterna, a un’intelligenza artificiale da cui dipendiamo. Cioè come lo vedi questo futuro in agricoltura?

Dal punto di vista normativo, l’agricoltura biologica ha già fatto questa scelta, cioè all’interno dell’agricoltura biologica si trovano modelli che spaziano dall’agricoltura industriale, a quella contadina, artigianale, fino a un modello “Rurale”, come nel nostro caso (Ecosistema Girolomoni), dove cerchiamo di integrare l’agricoltura contadina con l’industria, intesa come trasformazione e commercializzazione diretta delle produzioni. Siamo un’esperienza quasi unica, perché altrimenti i modelli sono separati: o contadini o industriali. Noi siamo un po’ quelli che, provenendo dal mondo contadino, abbiamo capito quanto sia fondamentale affrontare la sfida di coniugare la tradizione agricola con le necessità di un’industria che sappia rispettare i valori biologici, senza sacrificare la qualità e la sostenibilità dei processi produttivi.

Non si può più fare come una volta che appendevano la pasta a asciugare al sole…

Abbiamo capito questa lezione anche per altri motivi. Da un mese, infatti, siamo usciti con l’olio di girasole a marchio Girolomoni. Abbiamo capito che, per fare agricoltura, è fondamentale non concentrarsi esclusivamente sulla produzione primaria. Se l’attenzione è solo sulla produzione primaria, senza comprendere che il valore aggiunto sta nel prodotto finito, non si va lontano. Quindi bisogna puntare sul prodotto finito e stabilire un legame diretto con il consumatore. Noi abbiamo realizzato questa filiera quasi completamente internamente, facendo investimenti industriali come cooperativa agricola, e vediamo la differenza. Quando dobbiamo esternalizzare la nostra filiera, ci rendiamo conto che il riconoscimento che l’industria ha per il nostro lavoro è molto inferiore rispetto al valore che riusciamo raggiungere quando gestiamo direttamente il prodotto.

Tornando alla tua domanda, secondo me l’agricoltura biologica, intesa come normativa, ha già aperto all’industria. Ormai è ampiamente diffusa e il processo è avviato. Detto questo, il futuro dell’agricoltura contadina risiede nei saperi e nei valori legati alla civiltà contadina, valori nobili come l’etica del risparmio, l’economia senza scarti o rifiuti. L’idea che la terra debba essere governata, non sfruttata, e che il ruolo degli animali sia imprescindibile. Valori e saperi che devono essere integrati con la professionalità e la capacità di fare impresa. E’ evidente che in questo processo ci siano comunque delle contraddizioni. Ad esempio: la prova più evidente che l’agricoltura biologica si stia “convenzionalizzando” è la scomparsa delle stalle. Le stalle sono state dismesse perché non conveniva più mantenerle e le nuove generazioni non vogliono più lavorare con gli animali. Questo è quello che emerge anche in gran parte delle nostre aziende agricole.

I biodinamici l’hanno mantenuta la stalla…

I biodinamici l’hanno mantenuta ed è interessante notare che anche alcuni dei nostri soci la possiedono. Quante aziende biologiche, però, hanno una stalla? Non so la percentuale esatta, ma se guardo ai nostri soci non sono molti.

Nel medio periodo, un’agricoltura biologica che dipende dall’acquisto di pellet sul mercato rischia di diventare un’agricoltura convenzionalizzata, che non è sostenibile. Infatti, anche se seguiamo pratiche agroecologiche come rotazioni ampie, sovesci ed erba medica – proprio come facciamo noi nell’azienda agricola gestita direttamente dalla Montebello cooperativa – alla fine, se non utilizziamo letame, la coltura diventa depauperante. Si può coltivare una stessa pianta due volte ogni cinque anni, ma negli altri anni?

Se parliamo di ortaggi, qualcuno sostiene che senza letame si produce solo un po’ di meno…

La questione è sempre il punto di partenza. Se tu operi in terreni fertili questo problema lo vedi dopo. Quando operi nelle aree marginali, nelle aree interne, questo problema lo vedi sin da subito.

Scusa ma voi come fate?

Dal mio osservatorio, adesso l’agricoltura biologica conviene nelle aree mediamente produttive. Essendosi ridotto il differenziale di prezzo tra biologico e non, per quelle aziende che producono poco fare biologico adesso è complesso.

Infatti, c’è gente che esce dal biologico

Certo, quanto l’azienda agricola entra in difficoltà inizia a ridurre gli investimenti iniziali, smettendo di acquistare semente certificata, fertilizzanti e mezzi tecnici in generale. Purtroppo, però si crea un’agricoltura di sussistenza, che non può avere un lieto fine.

Ma i vostri piccoli agricoltori, che hanno magari 10 ettari, non possono mica vivere di quelli…

Chi ha 10 ettari, di solito, fa già un altro lavoro. Questo è un falso problema. Il vero problema sono quelli che hanno 50-60 ettari, che non riescono a farcela nonostante abbiano già investito. Questo è il punto critico. Pertanto, se ci concentriamo su una politica ideologica che favorisce solo le piccole aziende e non affrontiamo il vero problema, rischiamo di vedere chiudere anche le medie aziende. E poi, avremo un’agricoltura senza agricoltori e la materia prima si andrà a prendere dove costa di meno.

Non voglio svalutare le piccole realtà. Dico solo che, per rendere l’attività davvero sostenibile, almeno sulla carta, deve esserci un minimo di dimensione economica.

Alla fine che conclusioni possiamo tirare da quest’esperienza che avete fatto nel campo dell’innovazione?

L’innovazione tecnologica deve andare di pari passo con quella organizzativa e deve avvenire all’interno di un quadro coerente con i principi dell’agroecologia. Il tema principale dell’impresa agricola non è solo produrre materia prima, ma anche trasformarla e commercializzarla. Per farlo, è necessario fare sistema, creare reti e implementare l’innovazione seguendo la logica di filiera. Ormai ho questa visione, che magari per qualcuno potrà sembrare di parte: non riesco a concepire un investimento che riguardi una singola azienda a meno che non si tratti dell’acquisto di un trattore o della costruzione di una stalla. Ma anche in questi casi, l’investimento deve sempre essere pensato nell’ambito di una filiera, anche piccola, per rendere comunque l’investimento economicamente sostenibile

Perciò, è fondamentale implementare l’innovazione, costruire partenariati e fare in modo che i progetti di ricerca, così come le filiere di conoscenze e competenze, siano integrati con la filiera produttiva. In questo modo l’innovazione può essere trasferita lungo tutta la filiera produttiva affinché l’azienda ne tragga un beneficio diretto, evitando percorsi teorici legati solo agli obiettivi di un bando o a certe esigenze specifiche di soggetti extra agricoli.

E dunque come pensate di andare avanti?

Dobbiamo investire sull’organizzazione della filiera produttiva, perché le filiere devono diventare sempre più efficienti, anche dal punto di vista della logistica, dello stoccaggio e dei trasporti. Quando si lavora con prodotti a basso valore aggiunto, come i cereali, è fondamentale ottimizzare al massimo i cicli produttivi e investire nella trasformazione. Infatti, per completare la filiera, alla fine il prodotto va comunque trasformato.

Per essere leader nella produzione di pasta, dobbiamo fare in modo che i nostri soci possano coltivare anche altre colture strategiche: una leguminosa, o più probabilmente un gruppo di leguminose, come ceci, lenticchie o altre varietà importanti, anche per l’alimentazione animale. Noi ci occupiamo della commercializzazione, pur sapendo che i prodotti destinati all’alimentazione animale hanno un valore aggiunto inferiore rispetto a quelli destinati all’alimentazione umana. Inoltre, lavoriamo su colture da rinnovo, come il girasole, da cui otteniamo un olio alto oleico bio, prodotto con il nostro marchio, grazie ad un’azienda marchigiana che utilizza l’estrazione a freddo. Puntiamo sulla qualità e i primi panel test ci stanno dando ragione. Investiamo in modo che la nostra filiera possa strutturarsi e offrire una prospettiva solida per le nostre aziende.

(*) Ogni eventuale errore o omissione è di esclusiva responsabilità dell’intervistatore