40 anni fa le Norme italiane di agricoltura biologica
Sono già passati 40 anni da quando nel maggio 1985 furono approvate le
“ Norme italiane di agricoltura biologica ” ( pubblicate, nel n.21/22 , maggio-agosto 1985, di AamTerranuova). Furono poi ufficialmente presentate, il 12 ottobre dello stesso anno, in occasione di Herbalist, la fiera fiorentina che allora costituiva uno dei pochi appuntamenti su alimentazione alternativa e benessere.
Quelle norme erano il risultato di un paio di anni di intenso lavoro e accese discussioni all’interno della Commissione “Cos’è biologico”, costituita nel 1983 con l’apporto della rivista AamTerranuova che a quel tempo svolgeva un ruolo molto importante nel promuovere e coordinare le diverse iniziative. Se si scorre l’elenco dei firmatari di questo primo disciplinare del biologico salta subito all’occhio la presenza, insieme a un personaggio già famoso come Ivo Totti, di ben quattro, allora giovani, agronomi.
Mimmo Tringale, nella sua intervista qui pubblicata nel settembre 2022, dopo aver citato personaggi importanti come i professori Francesco Garofalo e Luciano Pecchiai, racconta: “ Poi naturalmente c’erano i primi agronomi e periti agrari che autonomamente stavano sperimentavano in prima persona la possibilità di coltivare senza l’uso di pesticidi e concimi di sintesi. Il loro contributo è stato fondamentale per dimostrare la validità del biologico e superare le resistenze che venivano da molte parti e in primo luogo dall’ambiente scientifico e accademico. Il ritornello che ci sentivamo ripetere era che senza pesticidi e concimi chimici era impossibile fare un’agricoltura moderna e contrastare la fame nel mondo “.
Proprio perché allora l’interesse del mondo accademico, e non solo qui da noi, era monopolizzato dalla “rivoluzione verde” ( si veda quanto racconta Claude Aubert per la Francia) ci sembra interessante capire per quali vie questi giovani agronomi si siano allora impegnati in una direzione contraria a quella della stragrande maggioranza dei loro colleghi.
Le loro storie di vita e di lavoro, ciascuna con le sue peculiarità ma anche le sue somiglianze, costituiscono una parte importante della storia del biologico.
Cominciamo a parlarne con Egon Giovannini, uno dei quattro giovani agronomi firmatari di quelle Norme.
Egon Giovannini, nato in Sudtirolo, poco meno di 70 anni fa. Ha un piede in Italia e l’altro tra Austria e Germania. Agronomo appassionato, si occupa di Agricoltura Biologica dal 1983, quando per molti era ancora un’eresia. Ha sempre lavorato nei campi, in prima linea, per assistere gli agricoltori nel processo di conversione al biologico, convinto che ogni metro sottratto all’insulto dei pesticidi fosse una conquista per tutti.
Il ruolo che abbiamo avuto noi tecnici è stato quello di mettere le nostre conoscenze a disposizione per migliorare le rese, le produzioni, le qualità dei prodotti, l’efficienza del sistema produttivo.
Intervista a Egon Giovannini*
Giuseppe Canale 24 novembre 2024
Parlami un po’ di te
Sono nato il 16 dicembre del 1955 a Laives un paese poco fuori Bolzano. Entrambe le famiglie dei miei genitori sono di origine agricola. Mia mamma proveniva da una famiglia che avevano più terra, nella quale però vigeva la regola del maso chiuso per cui lei non poteva ereditare l’azienda agricola del nonno.
Il tuo cognome non sembra sudtirolese.
Mio padre era trentino anche se abitavano lì dall’800. I miei nonni erano entrambi austroungarici e nella prima guerra erano entrambi dall’altra parte.
Nella provincia di Bolzano,soprattutto nella parte a sud, la bassa Atesina, c’è sempre stata una grande mescolanza di famiglie italiane e tedesche. Ce ne sono molte che hanno cognomi italiani ed in casa parlano tedesco e molte parole del dialetto italiano che sono una italianizzazione di parole tedesche.
Io sono e mi sento sudtirolese o altoatesino, nato e cresciuto in una famiglia nella quale avevo “zie e tante ” o “zii e onkel” una nonna ed una oma e cugini che si chiamavano Waltraut, Margit, Sieglinde o Elmar ed altri che si chiamavano Paolo, Gianfranco, Annamaria o Donatella. Difficile dire se mi sento italiano o tedesco. Certamente in me ci sono meno differenze di abitudini, cultura e visione del mondo con un bavarese che con un siciliano. Ho sempre pensato che questa sia una fortuna ed essere un ponte tra la fantasia e la creatività degli italiani ed il rigore e la disciplina dei tedeschi. Ho vissuto per lungo tempo in diverse regioni d’Italia, mi sono sempre trovato bene ma ero comunque un “tedesco” quando mi impuntavo sui particolari…
Il primo shock che ho avuto, potevo essere in terza media, quando si studiano le guerre del 900. Porto a scuola la foto di mio nonno con la divisa da soldato e l’insegnante dice che è in divisa del Kaiserjaeger dell’impero austroungarico. La storia che ci veniva insegnata ci faceva vedere gli austriaci come degli usurpatori della patria occupata. Loro erano i cattivi e gli italiani i buoni. Cesare Battisti, Fabio Filzi, Damiano Chiesa erano gli eroi ai quali dedicare strade e piazze mentre i tedeschi che li hanno impiccati a Trento per diserzione erano i cattivi. Poi scopri che tuo nonno Hansi era nell’esercito austroungarico, ed ha badato a salvarsi la vita. Tornato a casa un po’ deluso di non avere un nonno eroe, mia mamma rincara la dose con la foto del nonno Giuseppe con la divisa della Wermacht.
Ricordo che poi, qualche anno più tardi, la lettura del libro “l’obbedienza non è più una virtù” di Don Milani ha aumentato i miei dubbi su quale sia la patria da servire, visto che i confini possono cambiare ed anche su come sia meglio servirla. Ho così deciso che avrei obiettato al servizio militare per scegliere il servizio civile.
Come mai ti sei interessato all’agricoltura se i tuoi non avevano la terra?
Anche se non avevamo terra, la cultura di casa mia era fortemente legata all’agricoltura. Già finite le medie avevo manifestato l’idea di andare a S. Michele all’Adige a fare l’istituto agrario, l’unico disponibile in Trentino Alto Adige.
Mi sono quindi iscritto all’istituto tecnico di Bolzano pensando di cambiare al terzo anno. Alla fine sono rimasto a Bolzano e mi sono diplomato come perito meccanico. La scelta di fare l’università è venuta dopo, poco affascinato dall’idea di lavorare nell’industria metalmeccanica dove aveva lavorato tutta la vita mio padre.
Non era una scelta facile per la mia famiglia con un padre operaio una mamma casalinga e quattro figli più piccoli di me da crescere.
Mi ha aiutato il fatto che con la raccolta delle mele a cottimo e la borsa di studio riuscivo a non gravare troppo sul bilancio famigliare.
Mi aiutava il fatto di essere insieme a Giorgio, Enzo e Beppe, quattro studenti bolzanini, provenienti da ambienti parrocchiali affini con i quali abbiamo trovato casa a Pisa, meno cara di Firenze o Padova. Abbiamo da subito deciso di fare cassa comune e dividere le spese. Risparmiavamo su tutto, dalla corrente per lo scaldabagno al riscaldamento, al cibo. Abitavamo in una grande casa fuori Pisa, nella quale avevano trovato alloggio altri 13 studenti siciliani e due romani. Sudtirolesi e siciliani in tre appartamenti della stessa casa. Sono stati anni molto intensi che tutti ricordiamo con grande piacere.
Com’era allora la facoltà di Agraria di Pisa?
Eravamo in 80 il primo anno. Una città piccola e più vivibile di altre sedi universitarie . Una città di 100.000 abitanti con 20-30.000 studenti. Erano gli anni del trionfo dell’agricoltura chimica. Studiavo molto e con passione perché penso che nella formazione di qualsiasi professione sia sempre necessario avere buone basi teoriche che ti consentano di capire e ragionare da soli a prescindere dai metodi e soluzioni che poi si adottano nella pratica.
Allora da dove arriva la tua sensibilità per il biologico?
Mah, credo che sia una sensibilità innata……
Per tutta la durata degli studi universitari, finiti gli esami di luglio, abbiamo raccolto mele da metà agosto ai primi di novembre. Io e Giorgio, il mio compagno di stanza studente di medicina, preferivamo lavorare a cottimo per guadagnare di più.
Due mesi e mezzo di lavoro erano per noi una fonte importante di sostentamento per mantenerci agli studi e gravare meno sulle rispettive famiglie.
Ricordo i problemi dei mie zii, incapaci di contenere gli acari del melo o alla moria di trote nel fosso che scorreva a fianco dei loro campi o alla decisione di eliminare le galline di mia nonna perchè morivano se lasciate razzolare sotto ai meli.
Eravamo negli anni tra il 1975 ed il 1980. I miei zii dicevano che con l’ E605 che è i Parathion praticamente non volavano più nemmeno le mosche nei campi. C’erano intossicazioni continue perché gli agricoltori non erano abituati a maneggiare delle sostanze così tossiche e finivano per essere imprudenti.
Eri ancora all’università quando succedevano queste cose?
Si erano gli anni in cui studiavo a Pisa e raccoglievo mele in estate.
Ho consegnato la tesi in marzo e l’ho fatta sulle mele coltivate in provincia di Bolzano. Sull’assortimento varietale, l’epoca di maturazione, le problematiche colturali, conservabilità e di mercato.
Ho discusso la tesi di laurea che stavo già facendo il Servizio Civile nei paesi terremotati della provincia di Salerno, come obiettore di coscienza.
Per andare a Pisa ho dovuto prendere una licenza. Vedendomi abbronzato, mi hanno chiesto se ero stato al mare. No faccio tetti o pollai nei paesi terremotati …
Un ripiego rispetto al progetto iniziale, elaborato insieme ad uno studente di Piacenza con il quale volevamo avviare un progetto di servizio Civile in un paese del Monferrato per la promozione di varie attività finalizzate al sostegno dell’agricoltura e dei contadini.
Avevamo contattato diversi sindaci per proporre loro di convenzionarsi con il Ministero della difesa (levadife) per l’assegnazione di giovani in servizio civile sostitutivo del servizio militare.
Due sindaci del Monferrato si erano mostrati favorevoli. Il sindaco di Vignale Monferrato ha deciso di procedere. “qui sono tutti vecchi, l’agricoltura non rende, molte famiglie hanno anche problemi ad accedere a vari servizi (farmacia, ospedale, ecc.). Si possono fare tante cose, per l’agricoltura. Se due giovani a gratis ci si mettonosi possono fare delle belle cose”.
Ho portato io stesso la richiesta di convenzione a Roma. Mi hanno chiesto perché io piuttosto che il sindaco. Ho risposto che volevo essere certo che tutto andasse a buon fine in tempi brevi. 2 mesi dopo è arrivata l’approvazione.
Poi, con il cambio del sindaco, alle elezioni di ottobre, è andato tutto a monte.
Il nuovo sindaco ha tagliato corto “io ho fatto l’alpino, non capisco perché non lo fate anche voi ? ”.
In marzo del 1981 è arrivata la cartolina del militare e sono finito nei paesi terremotati della provincia di Salerno in carico alla Caritas di Casale Monferrato. Sono rimasto lì 26 mesi. Il servizio civile sostitutivo durava 8 mesi in più dei 18 di servizio militare in marina dove mi avevano arruolato.
Mi sono sempre detto “meglio 2 anni a fare cose utili che perderne uno e mezzo a fare niente”. Adesso sono anche cittadino onorario di quel paese (Ricigliano – Salerno).
Nel 1983, finito il Servizio civile, sono tornato a Pisa per l’esame di stato da agronomo e poi ho cominciato a cercare lavoro. Non era difficile trovare lavoro. Ho avuto colloqui con diversi proprietari disposti ad assumermi per darmi la gestione diretta dell’azienda. Io non mi sentivo abbastanza forte da prenderne completamente in mano la gestione. In alcuni casi era evidente che avrei dovuto arrangiarmi a fare tutto.
Erano aziende che operavano nel campo della frutticoltura?
No, finito il servizio civile mi ero trattenuto in Piemonte per cercare lavoro. Ebbi diversi incontri con aziende viticole e cerealicole, sembravano contente di mollare l’osso nella mani di un giovane laureato volonteroso. Ricordo l’azienda viticola di un noto personaggio del calcio o l’enorme azienda a riso della pianura di Vercelli, dove pare i Benedettini avevano introdotto le prime coltivazioni del riso. A tutti ho detto che ci avrei pensato spaventato dall’idea di trovarmi da solo a gestire colture che non conoscevo di aziende così grandi.
Tornato a Bolzano capisco che devo proseguire nella formazione e perfezionare la conoscenza della lingua tedesca. Scrivo a diverse stazioni sperimentali per la frutticoltura offrendomi come praticante in cambio di vitto e alloggio.
Mi risponde la Stazione sperimentale per la frutti-viticoltura di Weinsberg. La più antica scuola di viticoltura della Germania, al centro dell’unica zona viticola dove si producono dei vini neri autoctoni. In quanto già laureato mi hanno coinvolto in numerose prove, tra le quali un confronto tra biologico, biodinamico e integrato su vite e su melo, imposte loro dai Verdi trionfanti nella elezioni del Baden Wurtenberg.
Ho imparato così a riconoscere e classificare gli acari predatori e a frequentare il mondo del biologico.
Tornato di nuovo a Bolzano trovo un amico di Caldaro che mi dice: “sai mio cognato lavora per la Naturkost Naturwaren. Cercano un tecnico che parli italiano e tedesco a cui affidare un lavoro di controllo in aziende bio italiane.
Lo incontro, è un olandese che abitava in Germania e mi dice: “se vuoi vieni con me e ti faccio vederedi cosa si tratta, se ti piace…”. Abbiamo visitato alcune aziende in Italia e poi per una settimana in Francia e in Germania. Ho iniziato così a fare il “bio inquisitore”. A quel tempo non c’era un sistema di controllo riconosciuto. C’erano i primi standard di IFOAM, c’era Nature et Progrés, Bioland…
Il mercato tedesco era molto più importante e attivo di quello italiano, per cui i negozianti, i grossisti tedeschi cercavano prodotti biologici in giro per l’Europa e in assenza di standard, di controlli e di regole, avevano bisogno di qualcuno che li rassicurasse sull’attendibilità del possibile fornitore.
Ho girato l’Italia in cerca di riso, mele, vino, nocciole, lenticchie, grano, pasta, arance, pagato dall’acquirente per capire se l’azienda era affidabile, aveva dimensioni sufficienti per le loro esigenze e talvolta anche per dare loro consulenza per la risoluzione di problemi agronomici.
Nel mese di luglio 1984 vengo inviato alla Cooperativa Alce Nero di Isola del Piano.
Ricordo ancora che il grano era stivato nel salone in fondo al corridoio di ingresso trattenuto da alcune tavole di traverso sul portone.
Girolomoni aveva già un rapporto con Rapunzel?
No, Rapunzel sapeva dell’esistenza della Cooperativa Alce Nero e mi ha chiesto di visitarla per capire se poteva essere un fornitore interessante, non tanto per la pasta, che acquistava dal Frantoio di Peppino Crecco assieme ad altri prodotti trai quali soia, azuki, fagioli. Uno dei primi grossisti di biologico, una persona molto acuta e intraprendente, che ha visto lungo prima di tanti altri, venuto meno dopo poco a causa di un tumore che l’ha portato via in pochi mesi.
Alle fine della visita, prima di salutarmi, Gino Girolomoni mi dice “potrei aver bisogno di uno come te, pensaci”.
Un anno dopo, nel ‘85, io e la morosa decidiamo di sposarci e ci chiediamo: cosa facciamo? rimaniamo a Bolzano? Potevamo anche rimanere, lei era dipendente della provincia, io potevo continuare a girare l’Italia. Volevamo abitare in campagna avere una casa dove crescere i figli vicino alla natura, meglio se con altre persone. Era chiaro che non poteva essere in provincia di Bolzano. Casa e terra costavano troppo. Anche adesso è così, ma allora il divario rispetto al resto d’Italia era ancora più forte.
Così io e mia moglie decidiamo di valutare da vicino alcune proposte che avevo ricevuto tra le quali anche quella di Gino Girolomoni. Lo chiamo e gli chiedo “vale ancora la proposta che mi hai fatto l’anno scorso? Risponde “si certo” bene “La settimana prossima vengo a trovarti”
Maurizio Cattoi, nel libro pubblicato dalla Fondazione Girolomoni [Girolomoni 1971-2021. Custodi della terra] , dice che a quei tempi dalle vostre parti era un caso se uno finiva all’oratorio invece che nella sede di Lotta Continua…
Si certo. Avevamo tutti un retroterra culturale ed un percorso comune ad Alex Langer, che ci ha visto impegnati a fianco di sacerdoti attenti alle problematiche sociali, alla teologia della liberazione, a Luigi Ciotti, Helder Camara, Ivan Illich, Hans Küng, alle comunità di base o alle proteste contro il golpe in Cile
Nel 1984, io giravo l’Italia per la Naturkost e cercavo dove atterrare in modo definitivo, anche professionalmente. Icio (Maurizio Cattoi) lo stesso, anche lui era alla ricerca di proposte di vita che proseguissero il percorso di comune agricola che aveva appena lasciato.
Entrambi eravamo in giro per l’Italia, io per la Naturkost, Icio per vendere attrezzature forestali. Ricordo le facce scandalizzate degli ecologisti romani quando hanno scoperto che vendeva motoseghe ed attrezzi per tagliare gli alberi, salvo poi avere un arredo in legno massiccio. Insieme avevamo lavorato ad un progetto con Legambiente di Roma per avviare un percorso scolastico in agricoltura biologica. Una scuola di agricoltura che nasceva in un’azienda di Latina dove i docenti venivano chiamati su misura per fare delle lezioni su vari argomenti di loro competenza per trasmettere le loro conoscenze a studenti coinvolti stabilmente nell’azienda. Abbiamo lavorato un mese e più per mettere giù il programma e le docenze. Poi non se n’è fatto nulla perche non sono stati trovati i soldi per farla partire.
Quindi eravate in sintonia con uno come Girolomoni…
Si, si, anche se la nostra visione non era proprio identica. Lui aveva un approccio, una fede più vicina all’ebraismo e alla promessa della rivelazione e della salvezza dei vivi e dei morti annunciata nell’Apocalisse di Giovanni.
Noi eravamo più propensi ad una chiesa militante, pronta ad andare in prima linea.
Nel primo disciplinare del ‘85 della Commissione Cos’è biologico c’è la tua firma. Come eri arrivato a firmare quel documento? La Commissione esisteva dal ‘83, era già un bel po’ che si vedevano..…
L’84 è stato un anno molto movimentato. Giravo molto per le visite di controllo alle aziende agricole in collaborazione con l’olandese che mi aveva introdotto a tutto il mondo delle norme Ifoam, Bioland, Nature et Progrés.
Compilavo delle schede di acquisizione dati che mi aveva fornito l’olandese, riviste e tradotte da me. Erano schede scritte a mano in bella grafia con le
righe vuote fatte a matita con la squadretta perché non c’erano computer, stampante, o fax, facendo attenzione a che lo spazio lasciato fosse sufficiente per scrivere quel che si voleva.
Ho conosciuto Franco Zecchinato una volta che era venuto in Trentino a prendere le mele da Roberto Loner. Credo che sia stato lui ad invitarmi agli incontri su “Cos’è biologico”. Spesso ci andavo con Maurizio Dalpiaz, un trentino della Val di Non esperto di frutticoltura e di mele.
Ricordo le discussioni ed i dubbi rispetto ad alcuni pesticidi di sintesi che a quel tempo sembravano completamente innocui, cosa che poi non si è rivelata tale. Oppure sul fatto se per i bio fosse ammissibile riscaldare le serre. Gli orticoltori veneti, che non possono farne a meno e le riscaldano, contro altri contrari che sostenevano l’uso di sere fredde giusto per anticipare il raccolto. Discussioni animate del tipo: “se vuoi mangiare l’insalata a gennaio a Verona compri quella siciliana. Dalla Sicilia? Ma è più il gasolio che usiamoper portarla a Verona di quello che impiego per riscaldare la serra!
I siciliani erano contrari perché non ne avevano bisogno, mentre quelli del Nord Italia lo ritenevano indispensabile pena il fallimento dell’azienda.
Per non dire della zootecnia. Allevare animali per poi ucciderli e mangiarli era blasfemo, poco più che mungerli per ottenere il latte rubato ai vitelli.
Ed è per questo che le prime norme di Cos’è biologico trattavano solo di prodotti vegetali.
Ma non avevate già dei riferimenti?
C’era già il disciplinare di Nature et Progrés, quello di IFOAM , ma noi volevamo comunque farle nostre, stimolare e proporre delle regole fossero valide per l’Italia. Ivo Totti non partecipava a questi incontri, veniva consultato per avere il suo parere la sua benedizione ma non è mai venuto. Eravamo tutti molto più giovani di lui.
Chi erano quelli che partecipavano più assiduamente alle riunioni di Cos’è biologico? Il gruppo base da chi era costituito?
Ricordo 7 o 8 persone: Franco Zecchinato, io, poi c’era un tecnico del Lazio che poi è morto, c’era Adriano Del Fabro ed un tecnico del Confabi, i piemontesi. I più costanti erano i toscani, i veneti, gli emiliani, perché spesso gli incontri erano a Bologna o a Firenze.
Ma tu eri l’unico laureato?
No lo erano anche Luigi Daina, Enrico Accorsi, Maurizio Dalpiaz, ….. eravamo un gruppo di lavoro abbastanza ampio e aperto, soggetto alle influenze dei partecipanti provenienti dalla regione nella quale si svolgeva l’incontro. Se la riunione era a Bologna c’erano molti più emiliani, se era a Padova c’erano più veneti e così se si teneva in Lombardia. Naturalmente il lavoro prendeva delle pieghe diverse a seconda di dove ci si trovava.
La discussione ha quindi coinvolto molte più persone di quelle che poi le hanno scritte in bella copia e poi firmate.
Mi parlavi dei pesticidi. L’unica cosa che ho sentito, a questo proposito, è che c’era solo un pesticida per risolvere il problema della carpocapsa e all’interno della Commissione c’erano delle forti resistenze a vietarlo da parte di chi faceva mele.
Si trattava del Dimilin. Mi ricordo la discussione sul Dimilin. I frutticoltori dicevano che non era possibile farne a meno. Era conosciuto come il primo insetticida specifico contro i lepidotteri, innocuo per altri insetti. Alla fine, dopo lungo dibattito e molta sofferenza dei frutticoltori, la decisione è stata quella di non ammetterlo. La regola che i prodotti chimici di sintesi non entrano è rimasta: se è di sintesi sta fuori dal biologico. Si parlava già di virus della granulosi…
A quei tempi tu non eri già nella cooperativa Otto Marzo?
No. Io dal ‘85 al ‘88 ho lavorato a tempo pieno per la Cooperativa Alce Nero a Isola del Piano e per la fondazione della Associazione Marchigiana per l’Agricoltura Biologica (AMAB) nella costruzione di un sistema di controllo che fosse accreditato in Germania e Svizzera.
Giannozzo Pucci raccontava che fu lui a far conoscere il libro “Alce Nero parla” a Gino Girolomoni.
Anch’io in quegli anni ho letto il libro “Alce Nero parla”. Il discorso fatto da un capotribù dei Sioux Oglala che rifiuta di vendere la terra al Grande padre bianco e gli dice che “la terra non è nostra ma l’abbiamo ricevuta in prestito dai nostri figli”, è stato per me un mantra che ha influenzato molte mie scelte.
Altre letture importanti per voi in quel periodo?
Beh, il libro “Primavera silenziosa” della Carson [Feltrinelli 1963], ma poi anche il libro “la rivoluzione del filo di paglia” di Masanobu Fukuoka [ 1980 Lef – Quaderni di Ontignano] . Giannozzo Pucci con la Lef e i suoi Quaderni di Ontignano ha contribuito molto. C’era anche Suolo e Salute, con la sua omonima rivista, finì un po’ in disgrazia nel ‘83 perché a un convegno a Firenze il prof. Francesco Garofalo se ne uscì con delle affermazioni rispetto alla possibilità di usare dell’urea sulla paglia che scandalizzò il mondo dei biologici europei.
Il fatto che in l’Italia l’associazione Suolo e Salute di Garofalo fosse l’unico movimento per il biologico (Garofalo aveva anche pubblicato diversi opuscoli sul compostaggio, sull’uso delle polveri di roccia….), e autorizzasse l’uso di urea per facilitare il compostaggio della paglia, scandalizzò gli operatori di altri paesi che non si fidavano più del biologico italiano.
E’ stato uno dei motivi per cui francesi e tedeschi di fatto mi chiedevano di andare a controllare cosa facevano realmente le aziende italiane che si proponevano all’estero come bio.
Però Suolo e Salute ha firmato! C’è la loro firma in calce al primo opuscolo Cos’è biologico. Qualcuno mi ha detto che quella posizione in effetti non era mica così sbagliata!
Che la paglia lasciata sul terreno abbia bisogno di azoto per diventare humus si è sempre saputo. Per cui un terreno su cui lasci la paglia va in carenza d’azoto. Qualsiasi coltura in un campo dove hai interrato la paglia all’inizio fa fatica, le foglie rimangono verde chiaro, perché i microbi usano tutto l’azoto disponibile per demolire la paglia. Ma allora perchè non ammettere l’urea in corso di coltivazione ? Il problema è sempre che se io apro la porta per una sostanza di sintesi poi non riesco più a dire di no ad altre.
Lo stesso problema è stato dibattuto per anni circa il fosfonato di potassio. Una sostanza di sintesi utile nella lotta contro la peronospora, largamente utilizzata nei paesi di lingua tedesca come corroborante nella difesa della vite e dei fruttiferi. E’ efficace, non è tossica, non è pericolosa per l’ambiente ma dopo anni di discussione è stata proibita perché di sintesi chimica.
Oggi viene rimproverato al biologico di usare il rame e lo zolfo, che pure non sono sostanze di sintesi. Allora non si parlava di questo?
Non so quanta consapevolezza avessimo allora dei possibili problemi che l’uso del rame avrebbe creato. Di fatto ciò distingue il biologico dal convenzionale è che rifiuta l’utilizzo di sostanze “artificiali” che l’ambiente naturale non conosce e che potrebbero poi rivelarsi indigeste e dannose.
Per cui se io prendo una roccia, una pianta o un microrganismo, la tratto per aumentare il titolo nelle sostanze attive di cui ho bisogno e lo faccio tramite processi di naturali di concentrazione, filtrazione, solubilizzazione etc… riporto in natura una sostanza conosciuta che può essere metabolizzata senza troppe sorprese. Il problema è che nelle colture intensive questi continui apporti possono poi determinare accumuli di talune sostanze (rame) che possono essere dannosi. Credo però che l’enfasi che l’agricoltura convenzionale ha posto sul rame sia molto strumentale. Non è il Rame che inquina le acque superficiali e profonde di tutta l’Italia.
Diverso è per una sostanza proveniente da processi di sintesi chimica, è sconosciuta e non sono chiare le conseguenze che l’uso prolungato potrebbe causare nell’ambiente e sulle persone che la usano o la consumano, né sono conosciute le interazioni che ci possono essere con altre molecole o metaboliti che derivano dalla loro decomposizione.
Un principi di precauzione che ci fa preferire usare sostanze attive di origine naturale piuttosto che sintetiche, perché quello che la natura ha creato può in qualche modo essere metabolizzato e digerito, mentre invece quello che in natura non esiste ed è sconosciuto rischia di fare danni, intossicare il terreno, e le acque e fare male alle persone.
Torniamo a Alce Nero
Nel febbraio-marzo 85 io arrivo a Isola del Piano. Il mio compito era quello di gestire i campi della cooperativa, promuovere e dare consulenza agli agricoltori perché potessero convertirsi al biologico, per fornirgli il grano e gli altri prodotti di cui avevamo bisogno. Facevo in modo che i conferitori avessero la semente ed i concimi che avevo scelto e per i quali avevo trattato il prezzo ed i possibili sconti con le ditte produttrici.
Ma la semente bio non esisteva ancora. La stanno facendo adesso…
Usavamo la semente esistente, purchè non conciata. Buona parte della semente era selezionata da noi, scelta tra le migliori partite di grano che ci venivano consegnate. Avevamo una vecchia pulitrice per grano da seme che avevamo acquistato da un agricoltore che girava nelle cascine a pulire il grano da seme che avevano messo da parte scegliedolo tra le partite più belle del loro raccolto.
Davamo il seme a chi ne aveva bisogno. Ricordo che Gino mi aveva mandato a vedere il grano di una piccola azienda di montagna. Prima di partire mi dice “dagli quello che vogliono, sono 30 anni che usano la semente di una vecchia varietà di grano tenero”, mi pare si chiamasse Romanella.
Scopro poi che erano cugini di Renato Zero.
A quel tempo il nostro prodotto principale erano il grano tenero e duro e tanti agricoltori avevano il proprio seme o compravano la semente. Avevamo introdotto il farro, che ero andato a prendere in alta Garfagnana, lo Spelta che avevamo trovato sulle montagne dell’Abruzzo, l’orzo nudo, il miglio, il grano saraceno ed il coriandolo. Tutte prove che facevamo per trovare alternative da introdurre nell’avvicendamento colturale, visto che l’erba medica biologica non la voleva nessuno.
Non c’era un mercato delle sementi certificate bio, come adesso. Non si parlava neanche di deroghe. Bisognava usare semente non conciata, poi mettevamo noi un po’ di prodotti rameici dentro la cassetta della seminatrice.
Facevate già la pasta?
A quel tempo la Cooperativa Alce nero non aveva un pastificio proprio. Avevamo un silos per lo staccaggio del grano e il mulino a pietra per macinarlo. I pastifici che producevano la pasta erano due.
Falasconi di Fermignano, vicino a Urbino, e Verrigni a Roseto degli Abruzzi. Noi mandavamo la semola che loro trasformavano in pasta e ci restituivano confezionata. Avere un pastificio proprio non era ancora alla nostra portata. I volumi non erano sufficienti.
In quegli anni nasce l’idea di creare anche nelle Marche un’associazione dei produttori biologici marchigiani e, nel 1985, nasce AMAB (Associazione Marchigiana Agricoltura Biologica ).
Il primo lavoro che abbiamo fatto è stato quello di darci un sistema di controllo interno nostro e quindi di produrre tutta una serie di documenti utili per essere riconosciuti in Germania e Svizzera.
Non avendo tecnici esterni esperti avevamo adottato il metodo dei controlli incrociati. Egon Giovannini, collaboratore di Alce Nero, visitava tutte le aziende tranne i fornitori di Alce Nero, Leonardo Valenti, che era vicino a La Terra e il Cielo di Senigallia, controllava tutte le aziende tranne le loro.
Ciascuno controllava il lavoro dei propri “concorrenti” in un rapporto di assoluta e totale lealtà. Ricordo che Gino mi raccontava di quando Bruno Sebastianelli era venuto a chiedergli cosa ne pensava se anche loro iniziavano a fare la pasta .…. C’era posto per tutti. Basti dire che c’era anche la Campo che aveva iniziato a produrre la pasta bio a pochi chilometri da Isola del Piano.
Poi nasce Aiab..
Ricordo che in una riunione a Firenze si inizia a ragionare sulla necessità di avere standard di controllo unici e nasce l’idea di Aiab concepita come luogo di confronto degli organismi territoriali, quali gli Emiliani del Salto, i Lombardi di Agrivita, i Toscani del Coordinamento, i Laziali del Clab, i Friulani del Confabi, i Veneti del Coordinamento Veneto Terranuova, ed i Piemontesi che non volevano rinunciare al loro ruolo nella propria regione.
Poi nel 1988 nasce Aiab a Torino, come associazione ombrello che non vuole sostituire le associazioni locali, lasciando che ciascuna regione prosegua per la sua strada, con le sue regole, con i suoi soci, ma con un sistema di procedure e controlli comuni. Una federazione, di organismi che riconosce standard di produzione comuni a tutti senza togliere le specificità dei Veneti, Lombardi o Toscani.
Con la nascita di Aiab lo sforzo si concentra sulla necessità di avere procedure e modulistica comuni. E’ cosi che nell’88-89 nasce il primo sistema di controllo del biologico in Italia con moduli e verbali di controllo condivisi da tutti che durano fino al 1991 con l’approvazione del regolamento europeo CE2092.
Aiab è diventata quindi un Organismo di Controllo autorizzato dal ministero e mette in secondo piano tutti gli organismi regionali, che non hanno cessato di esistere ma hanno visto molto più limitata la propria possibilità di sostentamento per le mancate entrate provenienti dal sistema di controllo ed ha allentato il legame con i soci agricoltori biologici.
Lo sganciamento del sistema di controllo dalla funzione di rappresentanza, tutela e divulgazione di tutte le istanze del biologico ha comportato quindi un impoverimento delle associazioni regionali e la perdita del legame economico con le singole aziende.
Icea è nato dopo come costola di AIAB, dedicata esclusivamente all’attività di Certificazione del Biologico alla quale AIAB doveva rinunciare per l’incompatibilità di essere contemporaneamente Organismo di rappresentanza degli Agricoltori Biologici Italiani e loro Controllore.
Tra quelli che hanno fatto il primo disciplinare del biologico chi era che faceva veramente agricoltura?
Avevano tutti le mani in pasta. Anche Zecchinato era presidente del Tamiso, sempre presente agli incontri, ma aveva anche un rapporto continuo con gli agricoltori, ed aveva anche campi propri che coltivava e gestiva in prima persona. Sapeva cosa fareed aveva un contatto permanente con gli agricoltori ed i loro problemi.
E’ vero che molti agricoltori biologici di quel tempo non nascevano come aziende agricole, avevano sposato un’idea di abitare in campagna e coltivare la terra ma provenivano da altre attività.
Una scelta che nasceva spesso dalla ricerca di un diverso stile di vita, dal desiderio di riappropriarsi della produzione del cibo e dell’economia, di coltivare la terra e custodire l’ambiente rinunciando all’uso di pesticidi per non avvelenare la terra l’acqua e l’aria in risposta ad un’agricoltura dove la chimica trionfava.
Il cibo doveva essere integrale, biologico, e giusto. Per molti doveva essere anche essere vegano o vegetariano perché era difficile anche solo pensare che si potessero allevare degli animali per poi ucciderli e mangiarli.
Nelle Marche e in Toscana c’era stato un grosso afflusso di giovani e non provenienti dalle città del nord ed anche dall’estero. Tante persone che avevano lasciato un lavoro in banca o nell’industria e avevano comprato terreni in zone dove potevano permetterselo. C’erano anche molti tedeschi, inglesi e francesi, che cercavano terra da lavorare per riappropriarsi dei ritmi del lavoro, della propria vita, dell’educazione dei figli, dell’alimentazione e dell’economia in risposta a un mondo che li espropriava sempre di più.
Un’editoriale dell’Espresso di quegli anni li aveva definiti “nuovi eremiti” per le scelte filosofiche spesso radicali che facevano.
Venivamo da anni in cui si era industrializzato tutto e le campagne erano state abbandonate. Tu sai che l’origine del nome dato alla Cooperativa Alce Nero era dovuta alle analogie tra le condizioni che avevano determinato la scomparsa della civiltà dei Pellerossa d’America e quelle della scomparsa del sapere dei contadini italiani.
C’erano anche le occupazioni delle terre: Montepeglia, Acquacheta…
Anche la Cooperativa 8 Marzo nasce da un progetto di occupazione di terre incolte mal coltivate, così come tante altre in giro per l’Italia [ vedi anche: https://archivio.unita.news/assets/main/1977/11/17/page_017.pdf – legge Sullo-Segni ]
C’era stata la legge 285/77 sull’occupazione giovanile per cui dei giovani che si mettevano insieme potevano ottenere in concessione terreni incolti o mal coltivati anche contro la volontà del proprietario. Nel ‘78 in tutta Italia erano nate diverse Cooperative di giovani che avevano richiesto in concessione terreni incolti e mal coltivati. Di fatto ci sono riusciti quasi solo dove i terreni erano di proprietà di enti pubblici.
In quegli anni io ero a Pisa ed ho partecipato con la Cooperativa Avola e la cooperativa Le Rene al movimento per ottenere i terreni incolti dell’Opera Nazionale Combattenti. A Verona negli stessi anni sono nate la Cooperativa La Genovesa e la Cooperativa 8 Marzo su terreni di proprietà della Provincia.
Se tu , che sei parte in causa, dovessi dire qual è stato il ruolo dei tecnici nella nascita del biologico?
Tutte le discussioni erano molto partecipate e alla pari, non è che l’opinione di un agronomo valesse molto di più di quella di un agricoltore o di un consumatore.
Il ruolo dei tecnici come potevamo essere io e tanti altri è stato quello di strutturare, organizzare e razionalizzare delle intuizioni e dei tentativi che venivano portati avanti da altri.
Molti prodotti biologici, dal vino, al formaggio, al pane, ai biscotti e ai dolci, erano perfettamente coerenti con i principi di una alimentazione naturale che alterasse il meno possibile il valore degli ingredienti che si usavano. Non sempre però i risultati erano buoni e belli come gli sforzi fatti avrebbero meritato. Il pane poteva essere solo bio, integrale e lievitato con pasta madre, ma non era sempre buono. Ricordo le discussioni che facevamo con chi veniva a visitare la Cooperativa Alce Nero e ci chiedeva sorpreso perché toglievamo un po’ di crusca dalla farina per la pasta, privandola di componenti preziose. Era una fatica spiegare che dovevamo eliminare la parte più esterna e fogliosa della crusca per ottenere spaghetti che si arrotolino sulla forchetta senza andare a pezzi durante la cottura.
Anche i vini erano perfettamente biologici, naturali privi di qualsiasi manipolazione ma non erano buoni né duraturi. Il ruolo che abbiamo avuto noi tecnici è stato quello di mettere le nostre conoscenze a disposizione degli agricoltori, che spesso “non nascevano imparati”, per migliorare le rese, le produzioni, le qualità dei prodotti e l’efficienza del sistema produttivo.
Fare il biologico non vuol dire non concimare o non difendere le colture. Se non hai il bestiame ed il letame da spargere devi trovare alternative per nutrire il terreno e le piante. Devi quindi affidarti alle rotazioni, ai sovesci ed ai concimi organici che trovi in vendita.
Quando, nel 1988 sono arrivato allaCooperativa Otto Marzo,una delle prime cose che ho fatto è stato girare per i negozi del biologico per vedere i formaggi bio che vendevano. Per alcuni ci voleva un atto di fede per acquistarli. Quasi che l’essere storti e mal presentati fosse una garanzia di sano e biologico. Lo stesso si poteva dire per molti altri prodotti. Ricordo il commento del primo esperto di comunicazione che avevamo incaricato di rivedere l’immagine e le etichette della Cooperativa. Dopo averci ascoltato ha detto “ho capito che i vostri prodotti sono bio ma le etichette sono tristi neanche me l’avesse detto il medico di acquistarli” e aggiunse “un mangiatore di Nutella è più felice” …
Ma non erano andati in Francia a imparare a fare i formaggi di capra?
Si certo e ricordo anche il commento di un casaro francese quando vide che stavamo lavando le forme di formaggio. Per giustificarmi gli dico “in Italia i formaggi con la muffa non si vendono” lui mi risponde “in Francia non si vendono i formaggi senza muffa”.
Alessandro Lanza mi ha raccontato che i fondatori della Otto Marzo erano figli di contadini che non avevano la terra o ne avevano troppo poca e si erano messi insieme..
Sì, tutti o quasi, provenivano da aziende agricole che però non avrebbero garantito entrate sufficienti per tutti i componenti della famiglia. I terreni della cooperativa erano coltivati a vigneto, olivi e ciliegi.
Nessuno ne sapeva molto di capre e di formaggi. Hanno imparato in Francia. Ma poi non c’erano solo i formaggi di capra, perché le capre non producono latte tutto l’anno. Da ottobre a febbraio vanno in asciutta. Ricominciano ad avere latte dopo la nascita dei capretti. Abbiamo così iniziato a raccogliere latte di vacca, all’inizio solo per integrare la gamma di formaggi poi via via sempre di più fino a ritirare tutto il latte di una quindicina di aziende agricole. All’inizio non era facile. Non esistevano norme che definissero cos’è il latte biologico. E così nel 1988 le abbiamo scritte noi, le prime in Italia. Volevamo essere chiari con gli agricoltori che ci davano il latte e con i clienti che acquistavano i nostri formaggi, ricotte e Yogurt. Non esistevano nemmeno i mangimi bio, e così abbiamo iniziato a farli noi, con l’aiuto di un piccolo mangimificio della provincia di Verona al quale davamo orzo, mais ed i sottoprodotti della molitura del grano bio della cooperativa Alce Nero, in conto lavorazione. Lui le miscelava con piselli, sali minerali e lieviti e ci restituiva un mangime completo che consegnava direttamente alle stalle. Una fortuna per la Cooperativa Alce Nero che trovava una collocazione per i sottoprodotti della molitura di cereali bio ed anche di molti agricoltori che finalmente trovavano un acquirente per l’orzo, il mais e del fieno di medica biologico che fino ad allora avevano venduto nel mercato convenzionale.
La cosa si è poi allargata quando ho coinvolto un mangimificio del Consorzio Agrario di Treviso, molto più grande ed attrezzato che ha iniziato a produrre mangime per le stalle del Cansiglio.
Poi sono arrivati molti altri mangimifici che hanno aperto il mercato alle granaglie bio ad uso zootecnico, ai sottoprodotti della molitura ed anche al fieno dando respiro alle rotazioni colturali e ai ricavi delle aziende cerealicole fino ad allora schiacciato sul grano.
Ho lavorato per la Cooperativa 8 Marzo – Cà Verde fino al 2006. Penso di avergli dato molto in 18 anni di lavoro. Poi arriva un giorno che tutto finisce e ti ritrovi a ricominciare a 50 anni.
Da allora mi occupo principalmente di assistenza tecnica ad aziende viticole che decidono di passare al biologico. Le seguo in tutte le fasi del loro percorso, dal campo alla burocrazia domestica sempre più invadente.
Vivo ancora con la stessa donna che ho sposato 40 anni fa, conduco una piccola azienda viticola che uso come campo sperimentale e abbiamo due figli laureati in materie agrarie che hanno intrapreso, con qualche differenza, la stessa strada.
(*) Ogni eventuale errore o omissione è di esclusiva responsabilità dell’intervistatore
Ringrazio Roberto Pinton, Giuseppe Sivero, Rosalba Sbalchiero e Franco Zecchinato per l’aiuto e la documentazione d’epoca fornitami.